Il Messia nero

Creato il 01 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe


a Valeria Chatterly Rosenkreutz che mi ha illustrato
e a tutt* coloro che oggi mi leggono

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.

Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt – Seneca
Decipit / frons prima multos – Fedro
Felix qui potuit rerum cognoscere causas – Virgilio

All’Inizio fu…

Il cielo era calmo: le stelle brillavano sul lenzuolo nero della notte, pareva quasi fossero occhi dipinti nell’infinito.
La terra bruciava dolcemente sotto il tepore d’un’estate sul finire; solo lo stormire timido della natura faceva sentir la sua voce nel Creato. I mari cullavano le onde dolcemente, mentre l’avida Luna si specchiava nello specchio equoreo raccogliendo la sua immagine riflessa nell’incanto di quella bellezza tutta sua. E gli uomini tutti raccolti nelle alcove dormivano un sonno tranquillo: qualcuno sognava, qualcun altro era invece sprofondato in un dolce oblio d’un vellutato nero.
Tutto era pace.
Una stella cometa… almeno così parve a quei pochi cui il sonno non era riuscito ad addomesticare i sensi. Poi uno sfavillio di luci, una più intensa dell’altra: un fragore. Più niente.
Nessuno se ne preoccupò più di tanto: certi accadimenti erano brogli degli Dèi e loro soltanto avrebbero dovuto sbrigarli. Gli uomini potevano però pregare gli Dèi perché affrontassero l’arcano e lo ricacciassero nelle profondità da cui era venuto. Gli uomini pregarono con animo pagano, come dalla notte dei tempi era loro stato insegnato.
Una giovane donna, un po’ troppo curiosa, un po’ troppo coraggiosa, si appressò dove ancora un debole lucore viveva, e i suoi occhi videro l’Inimmaginabile.
Un uomo bardato con finimenti alieni le venne subito incontro e la fece sua. Poi l’astronave aliena tornò nel profondo cielo per sparire definitivamente nel suo grembo. La donna era gravida: non solo il suo ventre, anche il cervello e il suo spirito, aveva difatti acquisito una conoscenza che nessun umano poteva vantare, una conoscenza aliena superiore a quella terrestre.
Dodici mesi di gravidanza e nacque una bambina perfettamente sana; ma nessun danno la madre riportò da questa lunga innaturale gestazione. La donna istruì la figlia con quella conoscenza aliena che lo ‘sconosciuto venuto dalle stelle’ aveva instillato in lei; poi, quando la bambina fu adulta, prese la sua strada e si mescolò agli uomini.
La barbara umanità, il cui cuore era Roma, stava fermentando le future battaglie. Ma i più umili, i più ignoranti ignoravano tutto ciò, così continuarono a vivere nell’ignoranza fino a quando…

Cap. 0

Per tutta la vita era stato un discepolo incatenato al pensiero cristiano del Messia: in lui aveva creduto profondamente, con tutta l’anima, e a lui aveva tributato un amore del tutto disinteressato, così tanto disinteressato che alla fine la sua anima s’era perduta nell’amore che riponeva nel Messia. E il Messia, alla fine, gli aveva estirpato l’anima. Non poteva esserne certo ma la sua anima non era più sua, anche se dentro di sé sentiva che un’anima abitava ancora il corpo mortale. Ma più s’interrogava su sé stesso, più scopriva che quell’anima era qualcosa di anormale, qualcosa che aveva una doppia natura. Due nature. In ogni caso lui non avrebbe saputo dire assolutamente se una fosse buona e l’altra cattiva; probabilmente entrambe le nature che sentiva nella sua mortalità erano o buone o cattive. Tuttavia non poteva esserne certo. Quello che sapeva era che la vita per lui era cambiata radicalmente dopo l’incontro con il Messia, quel Messia che era già Gesù, il Cristo e il Messia e l’Unto del Signore.
Per un certo tempo era stato un discepolo fedele, poi qualcosa l’aveva invaso, un corpo spirituale alieno che gli aveva prodotto nel cervello così come nell’anima e nello spirito una sorta di amnesia: adesso nutriva il forte dubbio che al mondo esistessero due corpi mortali, che in comune avevano quella doppia natura che sentiva dentro di sé. Quando uno dei due corpi mortali sarebbe morto, era quasi certo che anche il fratello gemello sarebbe morto, e così, per diretta conseguenza, anche le anime che facevano strage nel suo corpo di carne. Ma anche questa non era per il discepolo Matteo una certezza: aveva maturato l’idea che il mondo è dominato dall’Incertezza e che le contraddizioni sono l’unica legge che governa il destino degli uomini. Ed aveva anche maturato l’idea che le contraddizioni sono la vera religione che l’umanità accetta per andare incontro al suo destino.
In un altro mondo, in un altro tempo, il discepolo Matteo era convinto che tutto era già accaduto e che la vita, al momento presente, altro non era se non un ricordo che faceva eterna eco nell’Infinito, un infinito spazio temporale che pure esso era soltanto pura eco del mondo che fu. Dentro di sé mille confusioni si sviluppavano simili a incestuosi serpenti; Matteo non riusciva proprio a comprendere come potesse uscire da quello stato confusionale. Alle volte si diceva che tutto era un perverso sogno d’un’indefinita entità divina aliena e che lui era solamente un niente che qualcuno si ostinava a ricordare per non concedergli requie. “I mondi possibili sono tanti e così i destini”, amava pensare. Ma anche così per lui non c’era pace alcuna. Era tutto profondamente sbagliato e non aveva modo di dimostrarlo a chicchessia, neanche a sé stesso. Toccava la sua carne e doveva prendere consapevolezza che esisteva: l’esistenza, per il momento, gli apparteneva ancora, ma poi viperine e confuse paranoie gli insinuavano il dubbio e il suo mondo interiore cadeva a pezzi nel tempo d’un batter di ciglia, e anche quello esteriore seguiva uguale sorte. Perché tutto questo era accaduto a lui? Ma se lui era vittima del suo destino, anche tutti gli altri uomini dovevano esserlo. Qualcuno lo chiamava Montecristo… forse questa era la sua vera identità, quella che il suo carceriere gli aveva cucito addosso. Forse lui era davvero il discepolo Matteo, il discepolo che ancora oggi andava dietro al suo Messia. E, ancora, forse, lui era sì un discepolo, ma il suo vero nome era Giuda e non Matteo. Alle volte gli passava per la testa l’idea non poco soffocante che il carceriere fosse in realtà lui e che lui sognava soltanto d’essere il carcerato. E anche il carceriere, Isaia Montecristo, aveva una doppia natura, nonostante che nessuno gliel’avesse ancora detto chiaro e tondo.
No, non c’era proprio via d’uscita… non ne vedeva una; l’orizzonte per lui era davvero ristretto, un orizzonte fra quattro pareti in una prigione misteriosa e ignota ai più.
Provò a chiamare il suo carceriere, Isaia.
Nessuna fu la risposta.
Attese.
Lo chiamò nuovamente.
Continuò a chiamarlo fino a sgolarsi.
Niente.
Poi una voce e in questa riconobbe la sua.
Il discepolo bestemmiò con triste rabbia: “Isaia, falso profeta, che tu sia maledetto così come lo sono io. Io, falso profeta, falso discepolo, falso carcerato, falso in tutte le mie identità… Che la mia falsità sia maledetta oggi e per sempre in tutti gli spazi e in tutti i tempi, per le Sacre Leggi di Dio…”

Cap. 1

La Luna era una pallida lacrima di sangue nel firmamento celeste d’un bianco virgineo.
Lui ne aveva viste tante di lune così. Tutte uguali.
Le grate disegnavano, come sempre, una prigione di ombre sul suo volto emaciato.
Scaracchiò a terra, un colpo secco di tosse, un po’ di materia mucosa mista a sangue. Poi tornò a fissare il mondo di fuori, quella costola infinitesimale che la grata della cella gli permetteva di vedere.
La Luna era sempre lì, alta in cielo, splendente d’una gloria stuprata.
Vergine di sangue. No, questo non è l’amore del Figlio.
L’uomo si aprì in un cachinno diabolico, troppo triste per essere l’espressione dello spirito del Signore delle Mosche: piuttosto era la manifestazione della sua umana fragilità.
Il cesso era tutto incrostato: aveva una voglia matta di rimettere tutti quei succhi gastrici che lo stomaco conteneva. Sarebbe stato un bel modo di morire: non avrebbe commesso crimine contro sé stesso, nessun suicidio forzato.
Era la mente alleata al suo spirito a sfiancargli il corpo mortale.
Lui non poteva opporsi perché lo spirito più non gli apparteneva. Ormai da lungo tempo, esso era diventato una cosa aliena dentro la sua carne.
Ancora eco erano le parole di Isaia, il profeta, nella scatola cranica, un teschio che racchiudeva il suo cervello invaso dal tumore. Una eco lontana… più non sapeva distinguere se i ricordi fossero veramente suoi o solo il prodotto d’un’allucinazione.

Il paese di Zàbalun e il paese di Nèftali,
sulla via del mare al di là del Giordano,
Galilea delle genti;
il popolo immerso nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte
una luce si è levata.

Accusò una violenta vertigine che lo proiettò in una dimensione senza tempo, poi un conato di vomito; si trascinò carponi sul bordo di quel cesso lordo di merda e piscio, spalancò la bocca sdentata riversando nella tenebra una quantità immane di acidissimi succhi gastrici.
Spossato, la fronte madida di sudore, si lasciò cadere a terra in posizione fetale mentre gli scarafaggi gli passavano accanto; qualcuno si addentrava nel cavo della bocca e lui lasciava che facessero quello che era giusto che facessero.
Umiliazione, questa la vita. Provate ad annichilirvi così come fece il Figlio! Ecco cosa avrete in cambio: un cesso e una prigione di due metri per due sprofondata nei recessi della realtà più oscura, quaranta chili di carne umana che i vostri carcerieri diranno essere il vostro corpo. Invano tenterete di spiegargli che non può essere vero. Poi ci farete l’abitudine ai quaranta chili di carne malata, stuprata da violente sanie in suppurazione. Ed accetterete la realtà, come tutti del resto.
Il cranio gli doleva terribilmente: provò a sollevarsi da terra, ma subito una vertigine lo costrinse a ricadere sul freddo pavimento come un sacco di patate. Non ci tentò più.
Questa era la legge: la ricordava bene.

Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento.

La bocca, una caverna cava di carne scavata nel suo corpo, era stata invasa da una colonia di scarafaggi: l’uomo contrasse le mascelle ed inghiottì a secco, perché saliva non aveva e da tempo ormai non ne conosceva più il sapore. Una volta aveva baciato una ragazza, il suo primo amore; ma non fu un vero bacio: la loro saliva si mischiò e questo fu tutto. E lui si convinse che fosse amore. Riaprì la bocca e rimase in attesa.

Cap. 2

“Non c’è niente di sacro!”, disse il Maestro.
Il discepolo che gli era accanto non ribatté. Osservò il Maestro, il capo rasato, il naso aquilino, la barba di tre giorni, ma soprattutto fissò quegli occhi ciechi bianchi come il latte vergine della Madre che si diceva l’avesse nutrito. Non poté fare a meno di sospirare.
“Chi tra di voi al figlio che chiede un pane darà una pietra?”
Il Maestro attese una risposta, una qualunque.
Il discepolo che gli era accanto voleva rispondere, ma una pavida timidezza lo trattenne: perché il Maestro diceva parole tanto crude?
“Allora? Non uno osa rispondere. Tacere è peccare, morire prima che la clessidra abbia esaurito la sua vita di sabbia.”
Il discepolo si asciugò la fronte imperlata di copiose gocce di sudore con un fazzoletto. Si guardò intorno in cerca d’aiuto: tutti tacevano. Solo il deserto attorno a loro con la sua silenziosa voce, sabbia di secoli e secoli là depositata per l’eternità, un silenzio fin troppo eloquente.
Un fiato di vento, un po’ di sabbia sollevata in aria e subito ricacciata nel mare del deserto. Si fece coraggio: strinse nella destra mano la croce d’oro che teneva gelosamente attaccata a una cordicella di cuoio legata al collo, come un cappio, e parlò, parlò meccanicamente: “Maestro, la morte non è la fine.”
Il Maestro sospirò: “Ne sei certo?”
Il discepolo esitò: i fratelli scuotevano il capo, e altro conforto o aiuto non gli prestarono.
“La certezza è…” Le parole gli morirono presto in bocca.
“Una pietra è il pane quotidiano che i padri danno a chi chiede pane. Non c’è niente di sacro.”
Il Maestro aveva parlato.
Giovanni si fece dappresso al discepolo che aveva parlato poc’anzi, e rivolgendosi alla loro guida spirituale anch’egli parlò: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è infatti la Legge.”
Silenzio imbarazzato per un indefinito tempo, forse l’Eternità stessa.
“Maestro, così dicono le Sacre Scritture che ci sono state tramandate.” Giovanni tremava di freddo e paura, nonostante il sole fosse una palla di fuoco proiettata nel cielo a bruciare la desolazione del deserto circostante, un deserto che da ormai troppo tempo avevano tacitamente accettato come casa.
“Dobbiamo far ritorno fra la gente. In città…”, aggiunse Giovanni con voce soffocata.
Il Maestro lo fissò con i suoi ciechi occhi: Giovanni ebbe la netta sensazione che quelle orbite morte in realtà riuscissero a penetrare il suo spirito e a vederne la nudità in tutta la sua debolezza. Emise un gemito soffocato d’imbarazzo quando la mano ossuta del Maestro si posò come piuma sulla sua spalla destra: un immediato calore gl’invase il corpo e subito prese a piangere senza comprenderne il motivo.
“Tu, Giovanni, dici che dovremmo tornare fra la gente. Ma tu fra la gente hai già abitato: allora perché tornare presso quei luoghi che ci hanno dimenticati? Gloria?! No, non per la gloria: non è il nostro pane. I pani che abbiamo ricevuto fra la gente, in realtà pietre contro le nostre magre schiene. E noi dovremmo tornare indietro da loro, con la coda fra le gambe, ed opporre alla pioggia delle loro pietre la Legge delle Sacre Scritture? No, Giovanni, non c’è più niente di sacro. Le Sacre Scritture sono un libro morto fra le labbra di quanti pronunciano ancora le sue ridicole parole.”
Ciò detto lo baciò sulla fronte. “Un bacio, solo un bacio può gettare un uomo come te nel panico?”
Giovanni era disfatto nello spirito e nel corpo: in ginocchio stava davanti al suo Maestro.
“E tu Marco, cosa ne pensi?”
Marco avrebbe voluto scomparire in quel momento piuttosto che rispondere al Maestro, però inevitabile era che si esprimesse, perché così gli era stato comandato: “Maestro, io penso che Giovanni abbia ragione”. Non disse altro.
“E tu Luca?”
Luca si strinse nelle spalle, poi farfugliò qualcosa: “Maestro, guardati dai falsi profeti che vengono in veste di pecore, perché dentro son lupi rapaci.”
Il Maestro gli sorrise: “Una risposta diplomatica, la tua. Luca, saresti stato un grande inquisitore se solo avessi avuto la fortuna di nascere in quel periodo oscuro che fu il Medioevo; la Santa Inquisizione ti avrebbe eletto Papa in meno d’un giorno e ogni monarca si sarebbe arreso al filo della tua lingua.”
Luca arrossì violentemente.
“Tu, mio discepolo, tu che stai leccando i miei piedi, mira la città e dimmi come la vedi?”
Il discepolo come cane ferito si alzò: una stanchezza di piombo aveva invaso le sue membra, gli occhi gli erano diventati uguali a coltelli piantati nel cranio: copiose lacrime scendevano lungo le sue gote. Sospirò. L’aria che gl’invase i polmoni l’accusò pesante al pari d’un gas mortifero. Una volta, in città, aveva sentito raccontare da un vecchio storico che nei tempi passati i fratelli uccidevano i loro fratelli cacciandoli a forza dentro orribili camere a gas: questo accadeva quando imperava il disordine e gli uomini erano diventati quasi tutti delle bestie vestite di umana carne. Quando aveva sentito questa storia, grande fu la sua incredulità e questa crebbe ancor di più quando il vecchio gli riferì che i cadaveri poi venivano adoperati per ricavare dalle loro ossa vari ninnoli per adornare le case dei Patrizi. Qualcun altro gli aveva pure detto che le ossa dei morti servivano per produrre colla. Ma, quasi sicuramente, non poteva esser vero, almeno lui aveva voluto credere che così fosse.
Adesso guardava la città: non sembrava cambiata dall’ultima volta, anche se non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che i suoi piedi avevano attraversato le strade asfaltate.
“E’ una città.”
Il Maestro rimase in attesa che il discepolo continuasse.
“E’ immensa, piena di luci, almeno così mi sembra.”
Il Maestro alzò il braccio destro puntando l’indice contro la città: “Dunque è questa la città che dovrei tornare a visitare?”
I discepoli non seppero cosa dire.
“La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!” Ciò detto il Maestro accompagnato solo dalla sua ombra prese ad avvicinarsi alla città mentre, timidamente, i discepoli lo seguivano come cani bastonati convinti che niente di buono il futuro riservava loro.

Cap. 3

La eco gli trapanava il cervello.
Il tumore non gli dava pace.
Ma alla pace lui non anelava, non a quella che la vita mortale avrebbe potuto dargli.
Gli era stato chiesto più volte dai suoi carceriere se nutrisse desiderio che il cancro venisse asportato chirurgicamente dal suo corpo, e tutte le volte lui si era rifiutato, caparbiamente convinto che non sarebbe valso a nulla eliminare quella parte del suo corpo malato se nulla poteva esser fatto per il suo spirito infestato da un male ben peggiore di quello della carne. Quello che un tempo era stato il suo spirito, o più semplicemente la sua mente, più non gli apparteneva. Da molto tempo questo si era staccato da lui, era diventato il suo personale carceriere, l’ombra che sempre lo seguiva in quei due metri per due della cella. E l’ombra, giorno dopo giorno, con il cilicio lo frustava come cosa di nullo valore: poi l’ombra fuggiva, si rifugiava in un dove che lui conosceva fin troppo bene. E ogni giorno che passava e che i suoi occhi vedevano spuntare un’altra alba attraverso le sbarre della piccola finestra nella cella, lui comprendeva che il nuovo giorno sarebbe stato uguale al precedente senza possibilità alcuna di redenzione. La routine, la stessa a ogni nuova alba: il sole alieno, con il suo innaturale rosso atomico, spandeva la luce dentro l’angusta prigione, una luce che subito moriva assorbita dalle pareti infettate dall’umido, dal muschio, dal sangue, dagli escrementi di lui e degli scarafaggi.
I conati di vomito diventavano sempre più rabbiosi: ogni ora era un tormento, ma sembrava che a questo non ci fosse fine. Sempre sperava che quel merdoso cesso finisse di raccogliere quanto di umano gli era rimasto nello stomaco, e però mai la sua speranza veniva tradotta in realtà.
Pregare!
No, non osava pregare. La fede non gli apparteneva più. O meglio, lui non aveva mai nutrito mai una vera fede, forse solo una vaga ipocrisia simile alla cristiana fede.

Signore, chi ha creduto alla nostra parola?
E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?
Ha reso ciechi i loro occhi
e ha indurito il loro cuore,
perché non vedano con gli occhi
e non comprendano con il cuore, e si convertano
e io li guarisca!

“Isaia, falso profeta, che tu sia maledetto nei secoli… Isaia, tu mio carceriere, sei l’ultima speranza per questo Mondo! Io sono per te, per me, l’ultima speranza per questo mondo. Possibile che io non riesca a capirlo? …che tu non riesca a capirlo? ” E dopo che ebbe berciato tutta la sua rabbiosa indignazione, lasciò che i suoi quaranta o meno chili di carne si lasciassero schiantare al contatto con il suolo. Come ogni volta il capo batté violentemente contro la pietra del pavimento: la bocca gli si aprì meccanicamente e una colonia di scarafaggi gli penetrò dentro.

Cap. 4

“La Profezia di Malachia si è avverata! Malachia, monaco cistercense nonché vescovo e primate d’Irlanda, vissuto in un tempo remoto, in un libro ad esso attribuito, De summis pontificibus, ha vaticinato, almeno così sembra, che nel 2026 sarebbe sopraggiunta la fine di Roma e quindi del Vaticano. Come ben sappiamo la storia gli ha dato ragione. Ora, Malachia forse ha avuto fortuna, o sfortuna – dipende dai punti di vista! -, fatto sta che il Vaticano è caduto con il centododicesimo Papa: In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Romanus qui pascet oves in multis tribulationibus, quibus transactis septicolis diruentur et judex tremendus judicabit populum suum. Amen. La storia gli ha dato ragione: il mondo è finito con il centododicesimo Papa, o almeno una parte del mondo. Come sappiamo gli esperimenti nucleari hanno avuto come ultimo terreno di prova il Sole; nel 2026 il vecchio Sole, che per millenni aveva riscaldato la Terra, ha cessato di esistere: un missile atomico lanciato dalla Vecchia Razza ha penetrato il suo cuore… Ora, io non sono un fisico nucleare, quindi non so spiegarvi cosa accadde di preciso nel nucleo solare, fatto sta che il Sole ha rischiato di esplodere. Intanto sulla Terra, il Papa era stato deposto e il mondo fu gettato nella confusione più totale: per le strade imperversava la sola legge del più forte: non c’era uomo che non si fosse incarognito fin nel profondo dell’intimità. Stupri, battaglie sanguinarie, orrendi delitti si consumarono sotto il sole morente dell’anno 2026 d.C. La civiltà regredì a uno stato di assoluta barbarie. Poi è successo qualcosa di… di miracoloso o diabolico, non saprei spiegarlo con tutta sicurezza e temo che nessun mortale possa: … Sono duri i vostri discorsi contro di me, disse il Signore agli eserciti. Che abbiamo detto contro di Te? Voi dite: E’ vano servire Dio: che profitto c’è nell’osservare i suoi precetti, marciare in lutto davanti al Signore degli Eserciti? Dobbiamo piuttosto proclamare beati gli arroganti: prosperano coloro che fanno il male, tentano Dio, eppure la scampano! … Sì, ecco il giorno arriva, incandescente come un inferno! Le Sacre Scritture, per quel poco che so, per quel poco che oso ricordare, recitavano cose di questo genere. Il 31 dicembre 2026 d.C. doveva essere l’ultimo giorno del Sole, l’ultimo giorno dell’Umanità, ma un Profeta Nero come la notte scese dal Cielo, levò le sue mani contro il Sole morente e gli diede nuova vita. Poi, il Profeta Nero, così com’era venuto scomparve e di lui non si seppe più nulla. Il 1 gennaio 2027 d.C., il primo giorno della Nuova Era, la Terra era un deserto e i morti fu impossibile contarli. Furono raccolti in molte fosse comuni e tumulati. Dalla carne in putrefazione dei morti la Terra estrasse nuova linfa vitale e la civiltà, dopo anni e anni di ricostruzione, tornò a dominare sulla barbarie. Il Sole che oggi però splende in cielo non è sano. E’ un Sole rosso come il sangue, di un rosso così acceso che lo si direbbe nero. Lo potete vedere con i vostri stessi occhi: la sua luce, pur essendo luce, non è tale; è più simile a un fuoco nero, a uno spettro che si espande nell’aria e che noi chiamiamo luce per colpa dell’abitudine … o per pura paura. Per pura paura…”
Il vecchio, finito che ebbe di spiegare la storia che conosceva alla nipotina seduta sulle sue gambe artritiche, trasse un profondo sospiro tutto soddisfatto di sé, mentre gli altri giovani della città, che gli stavano attorno e che avevano ascoltato la sua storia, rimasero a bocca aperta. Non tutti erano degli ignoranti che mai avevano preso un libro fra le mani, infatti molti di loro capirono, o almeno intuirono, la velata minaccia che la storia conteneva. Non potevano che covare segretamente nell’animo una profonda paura: rivelare il proprio timore al proprio fratello accanto non era possibile perché un simile atto sarebbe stato interpretato come un chiaro segno di mancanza di virilità. I giovani, i bennati osarono allargare sui volti un timido sorriso di sfida, un sorriso che gli morì subito dentro, dopo che il vecchio ebbe gettato loro un’occhiata di rimprovero. Gli altri, i poveri della periferia, dopo aver ascoltato le parole del vecchio, caddero in ginocchio: qualcuno piangeva.
Il vecchio fece scendere la nipotina dalle sue gambe; questa zampettò intorno al nonno squadrandolo con i suoi occhi celesti e increduli: la boccuccia serrata in una muta smorfia di disgusto significava più di quanto la sua innocenza potesse esprimere a parole. Il nonno tentò invano di raccogliere la nipote a sé, ma questa scivolò via timorosa che le mani callose del nonno toccassero ancora il suo corpicino. Il nonno, quello che aveva amato innocentemente, non esisteva più davanti ai suoi occhi: adesso vedeva solo un vecchio bilioso, un Uomo Nero come quello delle favole antiche che andava assolutamente evitato. A nulla valsero le grida del vecchio per richiamarla a sé, perché la bambina fuggì via inorridita come lepre braccata dal lupo cattivo. Il nonno è un uomo cattivo, ripeteva nella sua mente la bimba mentre il suo cuoricino batteva impazzito nella prigione del piccolo petto ancora innocente. Correva con tutte le sue forze attraverso la confusione della città: uomini e donne la urtavano ma nessuno si prese il disturbo di confortare la sua anima pura.
Non si era resa conto d’essersi allontanata dalla città che conosceva: adesso se ne stava accucciata tutta triste in un angolo di quella zona che la gente usava chiamare la Città dei Sogni. La solitudine non la disturbava, ma l’eco della voce del nonno ancora spaventava il suo cuoricino. Un vento freddo si levò e la sua carezza ghermì la bambina che rabbrividì. Una lacrima scese sulla candida guancia, una sola, solitaria come lei.
Un’ombra si sovrappose alla sua: la bambina alzò il capo e vide un uomo strano, un cieco che la stava guatando attraverso la sua cecità, con spirito che subito l’anima innocente interpretò esser maligno.
“Questi è il Maestro.”, disse un discepolo.
“Il Maestro!”, ripeté la bambina con vocina timida. “Non lo conosco.”
“Imparerai a conoscermi.”, la redarguì il Maestro distogliendo i suoi occhi orbi dalla figurina.
“Sei tu il Profeta Nero?”
La domanda non ebbe risposta, solo un eloquente silenzio.
“Perché?”
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo! Voi mi cercavate e mi avete trovato. I miei discepoli hanno voluto che io tornassi a voi. E’ meglio che un uomo solo muoia per il popolo?”
La bambina rimase in silenzio stordita dalla sorpresa di quella domanda.
Fu un discepolo nell’ombra a rispondere in nome e per conto della bambina: “Non tutto è compiuto!”

Cap. 5

Lui lo conosceva, almeno credeva di conoscerlo: il carceriere era il suo specchio, l’eterna sfinge in cui specchiarsi e tentare di riconoscersi. Lui era dentro e fuori, era carceriere e carcerato.

Il carceriere fece scivolare la scodella con la sbobba attraverso il pertugio simile a una bocca che si apra sull’inferno; da dietro la massiccia porta venne un rantolo e una bestemmia, un colpo di tosse, e in ultimo una maledizione accompagnata da un conato di vomito.
“Sempre peggio!”
Nessuna risposta.
Il carceriere ristette sulla porta alcuni secondi, poi decise che forse era meglio lasciar perdere quella inutile larva umana. Si era ormai deciso a tornare dai suoi compagni al piano di sopra a giocare a carte quando il recluso urlò il suo nome. La voce echeggiò tra le rozze pareti, come incubo in pieno giorno, e subito venne assorbita nel cuore pietroso della prigione di Montecristo. La guardia carceraria si arrestò a metà di quella scala che l’avrebbe condotto dai suoi simili per eruttare bestemmie e scommesse con il cervello obnubilato da alcol e droga sintetica a basso costo. Gli costò non poco rinunciare al piacere di tornare dai suoi simili, ma la curiosità lo spinse a fare marcia indietro: da quando era lì, il prigioniero non aveva mai fatto storie, anzi si era sempre dimostrato fin troppo paziente per uno nella sua condizione. Mai una volta l’aveva chiamato, quindi doveva proprio essere importante, o almeno il recluso così credeva.
“Montecristo… Montecristo… Montecristo…”, gracchiava la cosa umana da dentro la sua prigione. “Montecristo! Per il Diavolo, vieni qui!”
“Che cazzo vuoi?”
“Voglio te.”
“Perché?”
“Parlare.”
“Parlare? Puoi parlare benissimo con te stesso! E’ la stessa cosa!”
Un urlo spaventoso, viscerale uscì dalla bocca dell’essere chiuso: la roccia della prigione tremò dalle fondamenta.
“Assatanato, cosa?”
La voce del carcerato era un sibilo non dissimile da quello d’un serpente morente ma con ancora abbastanza veleno nella bocca sdentata.
“Tu mi devi ascoltare….”
“E perché mai?”
“Perché… Perché lui è tornato.”
L’aguzzino da dietro la porta scoppio a ridere.
“Se questo è un modo per avere dell’altra broda, non funziona amico.”, tagliò corto. “La pietà non è di casa.”
“E chi la desidera la pietà. Io ti sto parlando di LUI!!!”
“Lui chi?”
“Il Profeta Nero, il Messia di Malachia, il Cristo Cornuto… chiamalo come ti pare. Ma Lui è tornato.”
“E allora? Vuoi forse che vada a stendergli un tappeto rosso per accoglierlo così come si addice al Re dei Giudei? Non è compito mio, bestia.”
“Tu, umano, non capisci.”
“Cosa dovrei capire?! Tu sei tocco e basta.”
“Io sarò pure tocco.”, sibilò quello da dietro la porta. “Ma tu sei uno sciocco se non mi dai retta!”
“Parla! Ma vedi di fare in fretta.”
Il condannato tirò un sospiro, quasi sollevato. Si lasciò cadere a terra, aprì la fessura attraverso la quale gli era stata passata la scodella, appoggiò le labbra smunte ad essa e il suo sibilo cominciò a diffondersi nei recessi della prigione di Montecristo. Una litania.
“E’ tornato per scrivere la parola FINE.”
”E’ già stata scritta tanto tempo fa sul Golgota.”
”No, non è andata così.”
”E come sarebbe andata allora?”
”Ascolta… Qualcuno fu crocefisso come Re dei Giudei, però Lui non era realmente Lui. Lui aveva un fratello.”
“Un fratello? Questa è bella….”
“Ascolta… Un gemello: sulla Croce morì suo fratello.”
Il guardiano cominciava a comprendere un po’ il filo logico di quello che sembrava essere un puro sproloquio.
“Uhm!”
“Già, un fratello! Cristo non è mai stato Uno. All’inizio Egli era Due Gemelli. Questo è il dono dell’ubiquità. Comunque sulla Croce andò a morire uno solo dei gemelli; l’altro rimase in vita e continuò quanto suo fratello aveva predicato in vita e così quanti lo videro lo dissero Cristo risorto. Ma i suoi discepoli sapevano che non era risorto dalla tomba. Tutto era programmato, persino nella tragedia.”
“Interessante. E’ una favola che già conoscevo…”
“Non è finita… Cristo, il gemello scampato alla morte, continuò a predicare ma poi qualcosa cambiò.”
“Cosa?”
“Cambiò Lui.”
Silenzio.
“Come? In che modo?”
“La morte del fratello significò anche la fine dei miracoli.”
“Niente di strano…” Tuttavia non ne era troppo convinto.
“Perse la Fede.”
Il carceriere non riuscì proprio a trattenersi: dalla bocca gli eruttò contro una genuina risata beffarda.
“Ignorante! Non c’è niente di cui ridere.”
La risata si smorzò lasciando il silenzio dietro di sé.
“Bene! Ti sei calmato?! Perse la Fede e diventò un uomo a tutti gli effetti, con tutti i pregi e i difetti che simile condizione impone. Lasciò che i discepoli continuassero la loro opera di evangelizzazione e lui si ritirò a vita privata, per così dire. Tutto sarebbe filato liscio anche così. Per l’Umanità, Cristo era morto e risorto e la Chiesa stava nascendo. Tuttavia Cristo non incontrò quella felicità sperata ritirandosi a vita privata; ormai sposo di Maddalena, Lui era convinto che la Chiesa avrebbe portato gloria al fratello morto sulla croce. Infatti così fu. Ma la felicità dura sempre troppo poco e il Peccato tornò nel mondo…”
Silenzio.
“Quindi?”
Nessuna risposta.
“Che ti prende….?”
La guardia aprì la porta: ormai doveva sapere anche il resto. Il corpo dell’uomo era a terra, apparentemente esanime.
“Non puoi crepare ora, bastardo!” Lo raccolse da terra e lo adagiò sulla branda, poi con gran lena uscì dalla cella e salì le scale che portavano al piano superiore; raccolse una bottiglia di alcol e con uguale energia tornò dabbasso dal carcerato. Gli aprì a forza la bocca e gli fece ingollare un po’ di sano spirito. Questi si riprese un po’: tra un sibilo e un altro continuò a raccontare tenendo incollata alla bocca quella bottiglia che aveva operato un mezzo miracolo nel suo corpo straziato dalla malattia, nella carne e nell’anima.
“Maddalena lo tradì e Lui scoprì questo tradimento. Si sa che chi cade in peccato una volta, anche se poi si pente, tornerà a peccare: Maddalena dimostrò a Cristo di essere solo Maddalena e non la donna che lui aveva creduto di poter amare. Il Diavolo entrò in Cristo: è un modo di dire, ma l’uomo è fatto di carne e anche Cristo lo era. Poco mancò perché l’ammazzasse di botte e se Maddalena riuscì a farla franca e poi a passare alla storia come santa fu solo grazie ai discepoli di quel Cristo che morì in Croce sul Golgota. Maddalena ebbe un figlio da Cristo, un figlio che venne tenuto segreto a tutti, persino alla Chiesa. Neppure la Chiesa seppe mai della natura gemellare di Cristo fino a quando non si cominciò a parlare del segreto di Fatima. E iniziarono i guai per la Chiesa: essa ora sapeva la verità, però non poteva dirla al mondo. Tutto fu messo a tacere. Ciò nonostante alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Russi e Americani si adoperarono per entrare a conoscenza dei segreti del Vaticano. Qualche notizia trapelò e divenne di dominio pubblico: molti ci giocarono, molti si arricchirono con questa storia… furono pubblicati tanti e tanti studi, ma nessuno poteva dimostrare alcunché di preciso… Il figlio di Cristo ha dato inizio a una vera e propria discendenza. E oggi l’ultimo figlio della discendenza diretta di Cristo reclama quanto gli spetta.”
“Anche se così fosse, non vedo dove stia il dramma.”
“Tu sei solo un povero ignorante. E’ chiaro che non puoi capire.”
“Perché ti stai confessando proprio con me?”
”Confessarmi?!”, lo schernì il prigioniero. “Con te?! Non essere ridicolo! Tu sei qui e qualcuno deve pur saper la verità.”
“La tua è una mezza verità, anzi una mezza leggenda: già la conoscevo tutta ‘sta roba.”
”Può darsi! Ma quello che non sai è che cosa reclama oggi il figlio di Cristo, l’ultimo dei suoi figli per diretta discendenza.”
Il carceriere si accigliò. “Continua!”
“Adesso vuoi sapere, vero? E così sia. AMEN!”. Ingollò un’altra generosa sorsata di spirito e rianimatosi continuò a sibilare la sua verità all’orecchio del suo carceriere.
“La Sindone, il suo mistero… non è originale, non è mai esistita. Quella Stola è solo il prodotto artistico di Cristo e dei suoi figli. Chi sino a oggi ha avuto tra le mani la Sindone ha sempre avuto fra le mani un prodotto dell’Arte, dell’Abilità dell’Uomo. Ti sei mai domandato perché nel corso dei secoli sia scomparsa così tante volte? Una volta in un saccheggio, un’altra volta la si è creduta perduta in un incendio… Tutte frottole: furono sempre i figli di Cristo a trafugarla per poi rimetterla, al momento giusto, di nuovo fra le mani degli uomini.”
“Tutto ciò non mi dice niente.”
”Niente? Ed invece dovrebbe dirti molto. Il fratello gemello di Cristo raccolse la Sindone e la custodì seco. Poi, come già ti ho detto, Maddalena lo tradì e Cristo giurò vendetta su tutta l’Umanità. La Sindone fa parte di un piano diabolico che tu non puoi neanche immaginare nella tua ignoranza. Non è colpa tua. Tu non sai quello che io so… Comunque la Sindone è il prodotto del sangue di quel Cristo che morì sulla Croce e del sangue della Maddalena, del suo sangue più intimo, della sua mestruo.”
“Stai dicendo un sacco di sconcezze.”
“Ascolta! Maddalena non era una semplice donna, non una semplice puttana. Lei apparteneva a una razza aliena. Il suo sangue era diverso da quello dei terrestri: il sangue di quella donna è indelebile.”
Silenzio. Imbarazzo.
“Alieno?”
”Maddalena era nata sulla Terra dall’accoppiamento d’un terrestre con una entità aliena. Il suo sangue era diverso da quello di tutta l’Umanità. Quando morì, il Cristo scampato alla morte aveva raccolto sangue sufficiente a far sì che la Sindone rimanesse un mistero per i secoli a venire. Il resto puoi immaginarlo da solo.”
Il carceriere si grattò confuso la barba ispida.
“Non capisci? I figli di Cristo, nel corso dei secoli, tennero in vita la Sindone grazie al sangue di Maddalena, un sangue vecchio quanto la Sindone stessa. E il Sacro Lino è giunto sino al 2026 d.C. intatto perché c’era interesse che fosse così.”
”Quale interesse?”
“Questo lo scoprirai da solo. Ci sono fatti che è meglio tacere almeno per ora… E poi sono troppo stanco per continuare a spiegare simili segreti a uno zuccone come te. Lasciami!”
La guardia prese a scuoterlo violentemente, ma l’uomo era caduto in un profondo deliquio da cui non gli fu possibile rianimarlo.
Con l’amaro in bocca richiuse la cella a chiave e bestemmiò qualcosa, poi decise che meglio era andare dai suoi compagni a giocare a carte.

Cap. 6

Per quella notte, poiché già era tardi e il crepuscolo aveva invaso ogni dove, la bambina dormì insieme al Maestro e ai suoi discepoli, che avevano improvvisato un focolare là nella Città dei Sogni. Tutto l’intorno era rifiuti meccanici e biologici, e tutti accatastati senza ordine se non quello della pura confusione. La bambina, seppur timorosa com’è comprensibile credere, alla fine dovette arrendersi a bivaccare e a dormire in compagnia di quegli individui a lei ignoti, che non poca inquietudine le ispiravano. Eppure, prima d’addormentarsi, ebbe il presentimento che nulla fosse accaduto per puro caso: se il nonno le aveva raccontato quella storia paurosa, se lei era scappata ed aveva incontrato i discepoli del Maestro, un preciso piano doveva esser stato covato dalla notte dei tempi per dar corso al suo futuro. Un presentimento. Ma più i minuti passavano e sprofondava nel sonno, più si convinceva che nulla le era accaduto per caso. Marco, Giovanni e Luca se la dormivano della grossa; solo un discepolo, il preferito del Maestro era rimasto sveglio intorno al fuoco.
“Maestro, cosa ti preoccupa?”
Gli occhi ciechi lo cercarono e subito lo trovarono. Un brivido corse lungo la schiena del discepolo.
“Tu sei il mio preferito e sei anche colui che più temo. Sei il Giuda del nostro presente, di questa nostra dimensione spazio-temporale.”
“Perché dici così?” Tremava.
“Questa notte il tuo corpo mi è accanto mentre il tuo spirito è lontano e già mi ha tradito.”
Singhiozzò.
“E ti dirò di più: il corpo che in questo momento mi è accanto è solo una proiezione, un simulacro che la tua mente ha generato.”
Con voce ridotta a un blando fiato: “Che dici mai, Maestro!”
“La verità. Tu, mio preferito, sei il mio nemico.”
“Non… non capisco…”
“Mi hai venduto. Se io non ti vedessi in questo momento, tu non mi siederesti accanto ora.”
Un silenzio di piombo cadde fra i due.
“Non c’è bisogno che ti giustifichi: è accaduto in passato con un altro discepolo, doveva accadere anche oggi. La storia si ripete e con essa il dramma. Ma io non lo permetterò!”
“Maestro, tu parli come se io ti avessi condannato alla Croce…”
“Tu mi hai condannato anche se non vuoi esserne cosciente.”
“Non è possibile!” Adesso il discepolo, la sua parte più umana, ebbe un moto di ribellione, di indignazione.
“Per secoli e secoli il lino che ha avvolto il corpo di Cristo è stato curato dai suoi figli: gli uomini chiamano questo sudario ‘Sindone’. La Sindone raccoglie il sangue di quel Cristo immolato sul Golgota ma anche quello di Maddalena, moglie di Cristo, moglie del fratello gemello morto crocifisso.”
“Non capisco.”
“I miei ciechi occhi mi permettono di vedere tante e tante cose che tu mai vedrai!”
“Maestro, io sono qui con te!”
“Strano idea hai dell’essere qui con me. Un simulacro non può essere il tuo vero Io.”
“Come fai a dire che io sono un simulacro, un fantasma?”
“I miei occhi: tu mi hai già tradito. La storia non si ripeterà nonostante il tuo tradimento.”
“Maestro, se io ti ho tradito come dici, allora meglio è che tu mi dia la morte subito con la tua mano misericordiosa perché non abbia a dover commetter peccato!”
“Peccato! Uccidere te! I simulacri sono quello che sono, solo si può vivere loro accanto. Non ti posso far la grazia che mi chiedi.”
“Oh Maestro! Allora dimmi dove sono realmente cosicché possa impiccarmi come fece quel Giuda che le Sacre Scritture ricordano.”
“Tu sei dove sei. E questo è quanto. Non nutri desiderio di morire: la morte a cui aneli è solo una farsa. Quello che desideri è la fine di te come simulacro in questo luogo e in questo momento. Nulla di più.”
“Non dire così!”
“Pur ammettendo che abbia intenzione di uccidere te simulacro solo otterrei di privarmi di parte della mia vista. Il tuo simulacro mi serve: attraverso di esso io posso vedere il tuo vero spirito, posso tenerlo prigioniero al mio, posso conoscere il futuro e anticiparlo. No, non scaccerò un fantasma per privarmi della vista. Tu sei ben peggiore di Giuda. Giuda almeno ebbe l’accortezza di vendere il suo Messia per trenta danari, mentre tu mi hai venduto perché hai perso la Fede in me e non hai mai nutrito desiderio di darti la morte fosse anche solo per costumatezza.”
Sentite che ebbe queste parole, il discepolo, profondamente affranto, andò a ripararsi insieme ai compagni; tuttavia non gli riuscì di prender sonno per tutta la notte. Prima che l’alba fosse era nuovamente accanto al suo Maestro a discutere animatamente.
“Maestro!”
“Cosa?”
“La Sindone… La bambina… “
Il Maestro non si stupì affatto: “Temevo che non mi avresti rivolto questa domanda. Evidentemente anche io posso ingannarmi e nutrire timori mortali!”
Il discepolo non disse nulla in sua difesa.
“La Sindone sarà il mezzo che dimostrerà a questa umanità il Peccato.”
“Ma l’umanità già conosce il suo peccato!”
”Il peccato che le Scritture hanno loro spiegato, ma non il Peccato di Cristo.”
“Il Peccato di Cristo!”
“Cristo non è mai stato uno. Gemelli: uno morì sul Golgota, l’altro sposò la Maddalena e diede vita ad una sua propria progenie di cui io sono l’ultimo discendente in rappresentanza di questo presente. Gli uomini si sono uniti così tante volte nel corso dei secoli che, alla fine, ogni uomo ha finito con l’avere nel proprio DNA un po’ di quel primitivo DNA alieno di Maddalena. Gli esseri umani non sono umani come loro credono. Sono diventati degli alieni e quindi dei peccatori al pari di Maddalena. Io mostrerò loro il Peccato nella foggia più cruda da accettare perché questo è il compito di un Cristo. Questo è il disegno alieno.”
“Così distruggerai l’Umanità intera mettendola di fronte a una simile verità?”
“L’Umanità, quando tale ancora era, ha scagliato la prima pietra e ha crocifisso Cristo. Occhio per occhio, dente per dente.”
“Tutto ciò è crudele. Cristo è morto sulla croce per il bene dell’Umanità e…”
“Ed è risorto!” Il Maestro non aveva bisogno di aggiungere altro.
“E la bambina, perché l’hai condotta a te?”
“Lei è mia figlia anche se non lo sa.”
“Tua figlia?”
“Mia figlia. Quando il mondo saprà, lei siederà alla mia Destra come Figlia Moglie Regina. Insieme avvolgeremo quella che tu ti ostini a chiamare UMANITA’ nella Sindone e sarà per sempre. Poi il mondo conoscerà una nuova Era, quella del Figlio di Dio.”
“Dio non esiste!”, ribatté il discepolo. “Non è mai esistito.”
“Non è importante questo particolare nel disegno alieno di conquista della Terra.”
Il discepolo, o meglio il suo simulacro, si accigliò profondamente: “Quello che gli Uomini sino ad oggi hanno chiamato Dio…”
“Quelli in cui hanno creduto in un Dio…”, lo corresse il Maestro. “Prosegui pure!”
“D’accordo, quelli che hanno avuto fede in un Dio, in realtà hanno avuto fede nei confronti del Niente.”
“Del Niente! E perché mai? Una civiltà aliena esiste ed è formata da tanti Dèi.”
“Sei malvagio.”
“Giusto.”
“Malvagio…”
“Giusto. Per secoli e secoli mi è stato negato di amare, gli uomini si sono rivolti a me amandomi ma io non ho mai potuto amar loro.”
“…essi ti hanno amato, perché sterminarli?”
”Hanno amato la mia immagine, il mio potere, solo questo.”
”Cosa hai fatto per loro? Niente!”
“Li ho salvati non una volta, bensì due. Una volta sono stato crocifisso, la seconda sono stato preso per pazzo e liquidato come tale. Quando gli uomini nella loro pazzia hanno lanciato l’atomica contro il Sole, non sono stato forse io a salvarli con la mia conoscenza? Non sono stato forse io a dominare il Sole impazzito quando stava per esplodere e condannare il Sistema Solare a una fine certa?”
“Si, Maestro, ma…”
“Nessun ma.”
Il discepolo-simulacro scattò in piedi profondamente irritato: “Tu li condanni per il tuo amor proprio!”
“Matteo, Matteo, baciami! Questo è il momento.”
Matteo si avvicinò al Maestro risoluto come non mai prima: “Maestro, Io, Matteo, ti bacio.”
E lo baciò sulle labbra. Poi il simulacro Matteo scomparve.
Il Profeta Nero si accigliò: parte della sua vista era morta con la scomparsa del simulacro. Era stato un atto necessario quel bacio, il bacio del discepolo Matteo, di Giuda… ma anche il bacio di Isaia e di Ponzio Pilato. Il Profeta Nero questo lo sapeva, ne era cosciente. Ed era anche sicuro che avrebbe sconfitto tutti i simulacri di questo mondo: sapeva abbastanza per annientarli. Almeno così si illudeva.

Cap. 7

Quando il discepolo Matteo rinvenne dal suo profondo deliquio, non poteva dire di star bene: lo stomaco gli faceva male come se gli avessero cacciato dentro una lama avvelenata, ma non sentiva più il bisogno di rimettere. Si mise a sedere sul letto a gambe incrociate ed attese che il suo carceriere facesse ritorno; era più che mai certo che l’uomo sarebbe tornato da lui per conoscere la verità, quella verità che il suo DNA non poteva più fuggire.
Mentre Matteo attendeva, l’uomo era al piano di sopra: non gli era riuscito di vincere una sola mano a quel gioco maledetto, proprio non gli buttava bene. La fortuna gli aveva voltato le spalle, ma forse non era questo: sentiva la testa confusa, un istinto vecchio, alieno, che non comprendeva gli suggeriva che erano in atto forze più grandi di Dio che tramavano contro l’estinzione dell’umanità così come lui la conosceva. Lui non aveva mai avuto fede in Dio: si era sempre considerato un ateo, ma ora, per un motivo che gli sfuggiva, sentiva la necessità di credere nonostante fosse consapevole che non c’era niente in cui credere. La realtà, continuava a ripetere nel labirinto del suo cervello, è solo quella che gli occhi vedono, tutto il resto è pura apparenza o meglio illusione. Eppure, in quel momento, aveva un disperato bisogno di credere in una qualsiasi apparenza o illusione, perché lo sostenesse ad andare avanti: perché, improvvisamente, sentiva l’insano impulso di darsi la morte? Non aveva mai sofferto di turbe psichiche e non vedeva il perché si dovessero manifestare così all’improvviso senza alcun motivo scatenante. Forse la causa del suo scombussolamento spirituale/cerebrale era dovuto alla strana chiacchierata che era intercorsa fra lui e il discepolo Matteo!
Lasciò cadere le carte sul tavolo: i compagni lo guatarono con occhi assenti come se non gli interessasse né del gioco né di lui. Guardando gli occhi dei compagni, si rese conto che se anche fosse morto in quel preciso momento, non uno dei suoi colleghi avrebbe mosso un dito per sottrarlo al destino: forte di questa consapevolezza appena acquisita decise che era venuto il momento di conoscere tutta la verità.
“Io vado dal prigioniero.” Nessuno disse niente e tutti continuarono a giocare a carte. E mentre si recava dal prigioniero, stranamente, inspiegabilmente, si sentiva come se andasse a trovare sé stesso. Il carceriere Isaia di Montecristo non era il semplice carceriere che credeva d’essere.
Una volta dabbasso bussò tre colpi rapidi alla porta, una cortesia che per la prima volta adoperava nei confronti del prigioniero. Una voce ruvida gli rispose di entrare: così fece. E una volta dentro, guardando gli occhi del discepolo Matteo ebbe la certezza che l’uomo non era nulla affatto pazzo.
“Sei qui per conoscere…?”
“Sì, per conoscere la verità.”
“Io sono un traditore: puoi fidarti di colui che ha come secondo nome Giuda?”
“Posso fidarmi.” Questa fu la risposta senza tentennamenti del carceriere.
“Come ti chiami?”
“Isaia”
“Isaia, come il Profeta. E’ un bel nome. Un bel nome, nonostante tutto. Un nome che potrebbe essere salvezza o dannazione!”
“Stai meglio!”, osservò Isaia.
Un sorriso. “No, non sto meglio: uguale a prima. Per il momento, non ho il tempo di preoccuparmi della mia salute. Lui è tornato.”
“Lo so.”
“E questa volta non si immolerà per Voi.”
“So anche questo.”
“Questa volta la croce accoglierà l’Umanità intera se non verrà fermato in tempo.”
“D’accordo, lo fermeremo. Lo abbiamo crocifisso una volta, lo faremo una seconda: non dovrebbe essere troppo difficile.”
“Più di quanto osi immaginare.”
Matteo spiegò ad Isaia il folle progetto del Maestro, non nascose nessun dettaglio, non lesinò i particolari: Isaia doveva sapere, poco importava se sarebbe stato il solo a sapere la verità prima che l’Umanità fosse sacrificata dal Messia. Almeno un uomo doveva morire conoscendo la verità: Matteo non gli nascose nessun particolare, gli spiegò l’origine della Sindone e il suo mistero e che cosa significava. E gli raccontò di Maddalena e della sua origine e di come gli uomini nel corso dei secoli avessero tutti preso un po’ del suo primitivo DNA nel loro DNA originale. Gli disse pure che il Maestro aveva una figlia e che intendeva sposarla e farla sedere alla sua Destra come Figlia Moglie e Regina; e, in ultimo, non gli nascose che forse era già troppo tardi per salvare l’Umanità.
“Stando a quello che mi hai raccontato, l’uomo delle origini non è quello di oggi: il suo DNA è stato infettato da alcuni geni alieni.”
“E’ così. Il peccato di Maddalena è il peccato moderno di cui soffre questa umanità del tempo presente.”
“Una simile verità ucciderebbe nello spirito la maggior parte di quanti vivono oggi sulla Terra.”
“E’ vero.”
“Perché io non sono impazzito?”
“Tu dovresti saperlo…”
“Io sono sempre stato ateo: è questo?”
“Potrebbe essere. Non te lo posso dire con tutta certezza.”
“Ma gli alieni, gli alieni qualcuno li avrà pur creati! Un Dio, per quanto alieno, dovrà pur esistere da qualche parte per l’uomo… per gli alieni… per questi nostri lontani fratelli che con un loro Messia, oggi, intendono sterminarci…”
“Per quanto ne so, gli Alieni sono gli Dèi del Maestro.”
“Questo non risolve niente. Gli Alieni in chi o in che cosa credono? L’Umanità potrebbe credere al Dio degli Alieni?”
“Gli Alieni sono i Creatori… Non esiste un’Entità superiore per quanto mi è dato di sapere. Isaia, comprendi la serietà del problema? L’Umanità – se ancor si può parlar di umanità allo stato puro – è in serio pericolo. Se una simile verità fosse rivelata al mondo sarebbe la fine: ogni uomo si sentirebbe un Dio e pertanto si arrogherebbe il diritto di sterminare il suo prossimo. La storia insegna: l’uomo con la sua presunzione, forte solo della debolezza della sua mortalità, ha sparso sangue, ucciso, distrutto e si è difeso con la scusa che Dio voleva così. Le guerre, i milioni di innocenti, che sono morti senza un perché confidando in un Paradiso che non esiste, hanno sempre avuto in ostaggio un Dio, ieri religioso, oggi politico, ma pur sempre un Dio. Se si venisse a sapere la verità, la bandiera di Dio, di quello religioso e politico, verrebbe calpestata senza tanti complimenti e gli uomini conoscerebbero una guerra intestina che a confronto la Seconda Guerra Mondiale sembrerebbe una partitella a Risiko. Isaia, comprendi?”
“Purtroppo comprendo.”
Silenzio e imbarazzo.
“Come si può metterlo di nuovo sulla Croce?”
“Isaia, non ti so rispondere.”
“Allora perché mi hai raccontato tutto questo? Per prenderti gioco di me?”
“No.”
“E allora?”
“Sei pronto a cambiare il tuo nome per il bene dell’Umanità?”
“Il nome, dici? Non mi si chiede poi molto.”
“Sei pronto ad abbandonare le tue vesti di carceriere?”
“L’ho già fatto nel momento in cui ho messo piede in questa cella per la seconda volta.”
“Ed infine, sei pronto a cambiare la tua identità e seguire il destino di quella che sarà la tua nuova identità?”
Isaia si fece truce in volto, poi un cenno del capo.
“Bene. Allora forse c’è ancora una speranza per quanto minima.”

Cap. 8

Il Maestro aveva avuto abbastanza tempo per conquistare un po’ di fiducia nel cuore della bambina; adesso, lei, si rivolgeva a Lui con toni più cortesia anche se non aveva superato completamente la diffidenza nei confronti di quello strano uomo che diceva d’essere suo padre. Però le faceva piacere aver trovato un padre: sua madre le aveva detto che il suo papà era stato dato per disperso tanto tanto tempo fa e che probabilmente era morto, così lei aveva quasi rinunciato all’idea che un giorno avrebbe abbracciato il genitore. Ma il miracolo s’era compiuto… almeno lei s’illudeva che d’un miracolo si trattasse perché non voleva pensare più che il padre avesse adoprato su di lei un maleficio. Il Maestro che aveva a lei confidato di chiamarsi Gesù, dopo un primo impatto di antipatia, si era sempre dimostrato gentile, affettuoso nei suoi confronti. Poco a poco, tutte le sue resistenze avevano finito col cedere e adesso camminava insieme al Padre, mano nella mano, e lasciava che il genitore cieco la chiamasse con il suo nome di battesimo, Maria Maddalena.
“Dove andiamo Padre?”
“A prender posto a casa.”
“Dalla mamma?”
“Se lo desideri anche la mamma potrà venire nella nostra nuova casa.”
“Perché Matteo non è più con noi?”
“Matteo aveva delle cose da sbrigare da un’altra parte.”
“Ma tornerà da noi.”
”No.”
“Perché? E’ stato cattivo?”
“In un certo senso si potrebbe dire che è stato cattivo. Dimentica Matteo, dimentica la mamma. Adesso sei insieme a tuo Padre che ti farà Moglie e Regina. Non ti basta?”
Gesù, accompagnato da Maria Maddalena e dai suoi discepoli, stava attraversando la città: risa di scherno non mancavano né davanti né dietro di loro; ciò nonostante Gesù attraversava la folla di curiosi con un sorriso che si sarebbe detto bonario, quasi santo. Nessuno intuiva cosa si celava in realtà in quel sorriso.
“Allora, Gesù, Figlio di Dio, Re dei Giudei, Cristo risorto, oggi sei in sciopero? Non li fai i miracoli?” Gesù a queste parole irrigidiva il sorriso in una smorfia debolmente malefica, che subito metteva a tacere le malelingue avversarie, e loro rispondeva che presto l’Umanità avrebbe avuto più di un motivo per invocare un miracolo. La gente non capiva ma in realtà non gl’interessava capire quello strano uomo che diceva d’esser Gesù. Per tutti loro era uno spostato, forse anche un po’ pericoloso se fosse stato stuzzicato abbastanza: in passato aveva dato dimostrazione di poter far del male con un semplice gesto… Molti ritenevano che fosse uno iettatore.
“E i discepoli oggi non dispensano battesimi?” La folla rideva. I tre discepoli non facevano caso o quasi a quegli stolti; solo Luca, che aveva la lingua più lunga degli altri, ogni tanto non disdegnava di risponder loro con parole astiose e qualche volta poco mancò che fosse trascinato a far rissa. Comunque, il più delle volte, se la cavava rispondendo loro che avrebbero fatto meglio a guardarsi dai falsi profeti che vengono in veste di pecore, perché dentro son lupi rapaci. Una simile risposta sibillina faceva sorridere Gesù e lasciava nella gente un senso di sbigottimento misto a paura: ciò che non può esser chiaramente interpretato può dimostrarsi la più affilata delle lame. E Giovanni, per dar maggior corpo alle parole di Luca, era solito aggiungere che tutto quanto si vuole che gli uomini facciano contro sé stessi, saranno loro stessi a darsi contro perché questa è la Legge. Marco taceva sempre e acconsentiva con un segno della mano, una specie di benedizione per la gente, ma anche per le velenose parole dei suoi compagni.
L’allegra brigata, dopo un lungo camminare, dopo aver dimorato nel deserto in attesa per tanto tempo perché giungesse il tempo giusto, dopo aver sfidato gli uomini, si preparava a conquistarli, a dominarli, a giustiziarli, a sterminarli.

Cap. 9

Isaia, con sulle spalle il debole peso di Matteo, era finalmente fuori della prigione di Montecristo: davanti ai loro occhi si estendeva la periferia della città, bidonvilles. Ma all’orizzonte la città era ben visibile.
“Cosa facciamo?”
Un colpo di tosse, stordimento: “La città per prima cosa…”
“E dopo?”
”Ognuno di noi ha un suo doppio, un simulacro. Anche tu Isaia.”
Matteo pensò: “Ed è ben possibile che il simulacro che ognuno di noi dentro si porta altro non sia che il simulacro d’un simulacro di un simulacro. All’infinito simulacri di simulacri.”
Isaia non sembrava poi troppo convinto. Matteo lo aveva istruito su cosa fossero i simulacri, pure gli aveva raccontato di sé, Matteo come simulacro Giuda discepolo di Gesù, ma Isaia era rimasto scettico. Per quanto si sforzasse di credere che lui, Isaia, non fosse solo Isaia, non credeva che una cosa del genere potesse essere realmente possibile. Comunque, ormai, i giochi eran quasi fatti: non c’era più tempo da perdere. Se Matteo aveva ragione e non si sbagliava sulla natura dei simulacri, allora il Profeta Nero, Gesù, attraverso il simulacro Giuda era riuscito a vedere e comprendere troppo, davvero troppo.

Cap. 10

Gesù, con i suoi seguaci, non aveva avuto difficoltà a insediarsi nel Palazzo dei Re di Gerusalemme.
La città era prostrata ai suoi piedi.
Un semplice suo gesto aveva già falcidiato più della metà della popolazione.
I corpi erano caduti a terra senza battere ciglio: quanti assistettero all’orrendo spettacolo videro i loro cari spegnersi senza un apparente motivo; il loro spirito era stato strappato dal corpo e il corpo umano era caduto a terra privo di vita, come una cosa a cui si stacchi la corrente, per sempre.
Assiso sul trono, alla sua Destra stava Maria Maddalena, la giovane Regina di Gerusalemme mentre i discepoli, in ginocchio, stavano alla sinistra del loro Maestro.
E il popolo tremante pregava quel Cristo di Guerra e Distruzione, che per tanto tempo aveva beffeggiato ed irriso. Ora tutti lo temevano, sapevano che non era né un pazzo né un Redentore né un semplice uomo; un suo gesto poteva togliere la vita: non poteva che essere un Diavolo, una creatura dell’Inferno.
“Uomini…”, esordì il Cristo carezzando con la destra mano il capo della giovanissima Regina. “Uomini riconoscete in me il figlio di Dio?”
Ci fu un mormorio, poi un coro spaventato rispose affermativamente: “Sì, Maestro, Tu sei il figlio di Dio. Tu sei il Messia, Tu sei Gesù, Tu sei il Cristo e l’Unto del Signore… Tu sei la nostra Passione!”
“E voi, uomini, credete in Dio?”
Un altro mormorio, un’altra risposta affermativa: “Sì, noi crediamo in Dio così come crediamo in Te, Messia, Gesù Cristo, Unto del Signore, oggi davanti a noi.”
Gesù non fece niente per nascondere il diabolico sorriso subito grassa risata che gli esplose nella strozza. “Dunque voi credete in Dio, in mio Padre… Oh, gli uomini non potrebbero essere più ciechi di così!”
“Non potrebbero essere più ciechi…”, ripeté Luca subito imitato da Marco e da Giovanni.
“Che la Sindone sia adagiata sulle mie spalle!”, ordinò il Cristo guatando con gli occhi ciechi la folla che stava ai suoi piedi. “La stola! Che ricopra le mie spalle in memoria di quel Re dei Giudei crocifisso sul Golgota per volontà d’un meschino ignorante volgo uguale a quello oggi quivi raccolto.”
La Sindone fu presto adagiata sulle spalle del Messia da un eunuco tutto tremante.
Il Messia si alzò in piedi sollevando le mani contro un cielo, che invano tentava di eclissarsi in sé stesso per fuggire la collera di quella cosa aliena.
“Questo lenzuolo che accolse il corpo sacro di Cristo, questo lenzuolo dove voi uomini avete nascosto la vostra vergogna per secoli e secoli per portarla in gloria nell’opulenza della vostra Chiesa, questo lenzuolo che raccolse un Cristo implorante, un Dio, un Padre, questo lenzuolo oggi possa accogliere l’Umanità intera che osò giudicare chi era innocente per diritto divino…”

Cap. 11

“E’ cominciata la resa dei conti.”, gridò raucamente allarmato Matteo. “Tutto sta per essere deciso.”
Isaia non disse nulla: il corpo del discepolo sulle sue spalle cominciava a pesargli. La città che in un primo momento non gli era sembrata tanto distante in realtà era ancora lontana.
“Spiegami chi era Cristo in realtà…?” Isaia voleva sapere più per curiosità che per interesse salvifico, almeno così si sarebbe distratto e il cammino verso il Palazzo dei Re gli sarebbe sembrato meno lungo.
“Un alieno del cazzo! Un superuomo sul nostro pianeta.”
“Mi prendi per il culo!”
“No, nulla affatto. Non scherzo su queste cose. I due Gemelli di Gesù giunsero sulla Terra con una navicella di salvataggio: il loro pianeta di origine era stato distrutto da alcuni Alieni conquistatori e i genitori dei Gemelli pensarono che l’unico modo per salvare i loro figli fosse quelli di abbandonarli alla mercé di un pianeta barbaro, la Terra. Il resto della storia puoi immaginarla: una donna li trovò e disse che erano suoi figli e si disse vergine…”
Isaia Montecristo rimase in silenzio per un po’, poi fece l’inquietante domanda che dentro il cuore covava: “Se è come tu dici, gli uomini hanno sempre pregato un Dio alieno…”
“Non proprio. Gesù, quello che morì sulla croce, aveva lo stesso DNA degli uomini. Solo il suo spirito era più evoluto di quello dei terrestri. E’ però bastato il tradimento di Maddalena perché il fratello gemello perdesse la bellezza del suo spirito superiore. Non mi domandare come sia possibile che avesse DNA umano. E’ un mistero… Però ti posso però dire che l’amore può fare più danni dell’odio in certi casi.”
“Ancora non capisco: perché sulla croce Cristo invocò il Padre?”
“Invocò il suo spirito perso nel profondo infinito spazio, invocò l’Infinità che aveva raccolto lo spirito del Padre.”
“E la madre? La madre la dimenticò?”
”No. Mai. Lei gli è stata sempre accanto.”
“No, non è vero se è vero quanto sino ad ora mi hai detto. La Vergine Maria era una terrestre, una madre adottiva.”
“Per Gesù era la Madre, la madre vergine. Non mi chiedere altro, perché non saprei risponderti.”
“O non vuoi!”
“Certe cose è meglio che rimangano sepolte nella memoria di quanti sanno e meglio sarebbe che quanti sanno muoiano il più presto possibile.”
Matteo era esausto ma il Palazzo dei Re era ormai davanti a loro.
Voci concitate e spaventate riempivano il palazzo.
“Dobbiamo entrare. Lasciami scendere dalle tue spalle…”
Isaia non si fece pregare ed accolse di buon grado la preghiera del discepolo. “Sei certo di poter camminare?”
“No, ma ormai la mia fine è vicina. Non sarà questo ultimo sforzo a uccidermi!” Sorrise ad Isaia con benevolenza. “Ora andiamo: è tardi.”
Isaia stava per spalancare le porte del Palazzo dei Re, quando Matteo gli fece cenno di aspettare ancora un secondo. “Sei sicuro di ricordare che cosa è un simulacro?”
Un cenno di assenso del capo bastò perché Matteo si fidasse ciecamente di Isaia: “Allora sta bene. Apri pure quella maledetta porta.”
E così fece.

Cap. 12

Gesù aveva appena finito la sua giaculatoria e ora stava a fissare con i suoi ciechi occhi il popolo prostrato ai suoi piedi. Presto tutti sarebbero stati meno di niente. Presto i simulacri, che ognuno di quegli individui nascondeva nella sua anima senza saperlo, sarebbero scomparsi con la morte dell’Umanità. No, non aveva nulla da temere. Presto tutto si sarebbe compiuto e lui, il Messia, non avrebbe più avuto da temere niente da nessuno. Eppure aveva un brutto presentimento: da quando il simulacro di Matteo, Giuda, non era più con lui, sapeva che questi stava tramando contro di lui, anche se non avrebbe saputo dire di preciso quale piano Giuda avesse approntato. Il simulacro Giuda era scomparso troppo presto, prima che lui avesse modo di carpirne tutti i segreti. Questo era un punto a suo svantaggio: doveva accelerare il suo progetto di Redenzione, lasciar da parte i fronzoli della sua ascesa nel Mondo dei Mortali. Certo gli avrebbe fatto piacere distruggere l’Umanità in pompa magna, ma l’istinto gli diceva che era meglio passare subito alla pratica.

Cap. 13

Isaia aprì la porta del Palazzo dei Re: in quel preciso momento sentì invadersi da una forza che mai prima d’allora aveva conosciuto ma anche da un sacro terrore per gli avvenimenti che presto si sarebbero consumati. Lui che era ateo non avrebbe dovuto impicciarsi d’una simile faccenda, così gli suggeriva la sua parte umana e più razionale. Sì, meglio sarebbe stato se fosse stato estraneo a tutto quanto Matteo gli aveva raccontato. Per quanto ne sapeva lui, quel Matteo poteva benissimo appartenere a una qualche setta pancristiana, pur non essendo completamente fuori di testa.
Mille dubbi lo invasero, mille sospetti gli squarciarono la testa gettandolo in stato confusionale.
No, non aveva avuto una bella idea: accompagnare Matteo al Palazzo dei Re era stata una pessima idea. Mille volte meglio sarebbe stato se fosse restato nella prigione Montecristo; se qualcuno aveva deciso che Matteo era un folle e doveva essere rinchiuso per il suo bene e per quello degli altri, quel qualcuno doveva aver avuto pure i suoi buoni motivi: questo pensiero lo tormentava. Eppure Isaia non ne era del tutto convinto, altrimenti adesso non si troverebbe ad affrontare un qualcosa più grande di lui con la sola arma d’una fede che non nutriva affatto.
Matteo lo aveva istruito sui simulacri: “Ogni uomo ha il suo simulacro, il suo gemello se preferisci. E il simulacro è la proiezione dello spirito indipendentemente dal fatto che tu creda o meno nell’immortalità dell’anima. Anche se non hai anima, spirito, dentro di te c’è un simulacro che si rivelerà quando sarà il momento. Devi solo credere che tu non sei semplicemente tu. Tu sei il risultato di tante e tante vite che hanno dato vita all’essere che oggi sei: ma dentro di te, il primo seme che diede origine alla tua famiglia è ancora vivo, questo è il simulacro che porti dentro. Tutti gli uomini hanno nel loro intimo più riposto questo seme. Persino il Profeta Nero. Tu devi credere solo in questo: non sei da solo. Affronta il Profeta Nero. Lui saprà riconoscere in te il simulacro che ti è proprio e lo metterà a nudo. E una volta che l’avrà messo a nudo, allora non avrà più scampo da sé stesso. Hai capito? Il Profeta Nero non avrà più scampo da sé stesso.”
Che cazzo significava che il Messia non avrebbe avuto più scampo da sé stesso?!
Matteo si era rifiutato di spiegarglielo adducendo la solita consumata scusa che ci sono cose che sono misteri…
Eppure a Matteo una parte del mistero era stato rivelato, solo una parte.
Ormai era tardi per tornare indietro.
Le fredde cieche pupille del Messia le sentiva addosso alla sua anima anche se Isaia era sicuro di non avere dentro di sé né un’anima né un simulacro; indubbiamente però il Messia era entrato dentro di lui e stava analizzando la sua intimità con precisione chirurgica.
Mille altri occhi furono addosso a Isaia e a Matteo: l’attenzione generale di quanti lì riuniti era adesso tutta incentrata su di loro.
“Alla fine ci si rincontra!”
Isaia fece una smorfia.
“Se lo dici tu!”, si limitò a rispondere Isaia più che mai turbato.
“Sentivo che saresti tornato a tormentarmi. Non conoscevo i particolari, sapevo però che saresti venuto.”
”Davvero?”
”Certamente. E vedo che non sei solo: ti porti dietro quel cane di Giuda. Stai attento a quello lì! E’ un can malfusso di cui non ci si può fidare: come ha tradito me, sarebbe benissimo capace di tradire te, allo stesso modo senza scrupolo alcuno.”
“Non gli prestare ascolto.”, gli sussurrò in un orecchio Matteo. “Non ti può far del male se non sarai tu a permetterglielo.”
Matteo cadde in ginocchio suo malgrado: il tumore che infestava il suo cervello lo stava divorando.
“Giuda, vedo che non ti manca il buon gusto d’inginocchiarti al mio cospetto nonostante tutto!”
Matteo sputò un grumo di sangue in segno di disprezzo.
“Non sei cambiato. Non abbastanza. Comunque è troppo tardi: ormai tutto è compiuto.”
“No, non tutto. Ti correggo. Chi più temi è al tuo cospetto per giudicarti così come ha fatto in passato.” Ciò detto Matteo aveva dato fondo alle sue ultime energie. Prepotentemente vomitò a terra copioso sangue. Dagli orecchi altro sangue cominciò a scendere lungo il volto scavato e gli occhi sembrava quasi che volessero esplodergli nel cranio: Giuda-Matteo era ormai sicuro che era giunta la sua fine. La cosa non lo disturbava. Non temeva la morte. Non aveva fede perché fede più non poteva nutrire. Ma di una cosa era certo: la sua morte non avrebbe significato nulla per lui, perché in un modo o nell’altro qualcosa di lui sarebbe sopravvissuto e un giorno…
“E’ la tua fine!”, sentenziò il Messia.
Matteo non ribatté.
“No, è la tua fine!”, lo contraddisse Isaia il cui corpo stava subendo una mutazione. Non era più Isaia, ne era certo.
“Ponzio Pilato, quale onore! Finalmente ti sei mostrato per quel che sei in realtà.”
Il Messia Nero non era più tanto sicuro di sé: la sua voce, pur non tradendo un sicuro timore, giunse comunque all’orecchio di Pilato, distorta, con una nota di fastidio.
“Puoi fare il duro quanto ti pare, tutti e due sappiamo chi siamo in realtà. E’ giunto il tempo di saldare i conti in sospeso.”
Il Messia Nero non disse nulla. Contrasse solo la bocca in uno spasmo rabbioso ed attese perché altro non poteva davvero fare.
“Re dei Giudei, mostrati!”, ordinò Pilato.
“Mai!”, berciò il Messia Nero.
”Re dei Giudei, mostrati! Sono io, Ponzio Pilato, a ordinartelo.”, ripeté con rabbia Pilato.
“Mai!” Ma si era già arreso.
Prima di esalare l’ultimo respiro, Matteo ebbe modo di vedere che il Messia Nero stava partorendo il suo simulacro, L’Unto del Signore, il Cristo che nell’anno 33 d.C. era morto sulla Croce. Ora la battaglia si sarebbe svolta alla vecchia maniera: Ponzio Pilato avrebbe giudicato ancora una volta Gesù, L’Unto del Signore. Confortato da ciò, esalò l’ultimo respiro; le sue membra ebbero uno spasmo atroce, poi una convulsione gli fece esplodere il cervello dentro la scatola cranica e dalla sdentata bocca sangue commisto a materia grigia cominciò a scivolare a terra. Era morto. Una fila di scarafaggi vivi cominciò ad uscire in una fila ordinata dalla sua bocca: raccolsero un pezzetto di cervello del fu Matteo e ordinatamente si avviarono verso l’uscita dal Palazzo dei Re.

Cap. 14

Il popolo era attonito. Non aveva idea alcuna di quanto stava ancora accadendo. Tuttavia era sveglio, anche se l’incubo non era finito. I loro occhi spauriti si dividevano nell’osservare prima il simulacro, l’Unto del Signore, e poi quello di Ponzio Pilato. Chi era nel giusto? Chi nel torto?
Maria Maddalena, anche lei si era liberata dalla malia del Messia Nero una volta che al suo posto era apparso il simulacro l’Unto del Signore; presa dalla paura, era subito fuggita per ripararsi in mezzo alla folla. La piccola non riusciva a rattenere le lacrime; gridava che voleva la sua mamma, ma lì, in mezzo a quella gente estranea, la mamma non c’era. Alla fine un’anima caritatevole raccolse la piccina nel suo abbraccio e lasciò che le sue lacrime dessero completa stura al dolore.
Marco, Luca e Giovanni caddero in una profonda catalessi.
La lotta sarebbe stata portata avanti da Ponzio Pilato e dall’Unto del Signore.
“Questa volta ti laverai le mani così come facesti l’ultima volta?”
Pilato gli sorrise con un sorriso indecifrabile: “Fu un atto necessario alla storia.”
“Capisco.”
Silenzio.
“Ed ora cosa avresti intenzione di fare? Giudicare chi è già stato sulla croce per salvare l’Umanità pur non avendo sul proprio capo alcuna colpa? Pilato, tu vorresti condannare ancora una volta me?”
Pilato: “Se sarà necessario, lo farò.”
Alle spalle di Ponzio Pilato dal niente si materializzò una coorte di soldati. “Se sarà necessario ti farò giudicare colpevole un’altra volta, anche con la forza!”, precisò Pilato con un cachinno dipinto ben allargato su tutto il volto.
“Giudicare! Lascerai che il popolo mi giudichi colpevole quando già conosce il mio dramma? Il popolo mi giudicherà non colpevole.”
”Non esserne troppo sicuro.”
”Il popolo ormai conosce quanto ho sofferto: non manderanno alla croce un innocente una seconda volta.”
”Gli uomini sono imperfetti…”, replicò impassibile Pilato. “E nella loro umana imperfezione amano i martiri più di quanto amino i Salvatori.”
Pilato avanzò contro l’Unto del Signore e la sua coorte di soldati con lui.
“Passi all’attacco. Non servirà.” E così dicendo si spogliò della Sindone che gli copriva le spalle e subito la frappose tra la sua figura e quella dei soldati che lo stavano caricando.
Pilato sbiancò: “Cos’hai intenzione di fare!”
“Giustizia, solo giustizia.”
“Sei un mostro! Quella che tu osi chiamare giustizia è la crudeltà degli uomini che il tuo cuore ha covato per tutti questi interminabili secoli.”
”Io un mostro?” Un ghigno terribile si accese sul negro volto del Messia: “Voi siete i mostri. E pensare che mi sono immolato per voi! E voi, oggi, vorreste negare a me, al vostro Salvatore, di avere una vita tutta mia? Non ho forse anch’io il diritto di vivere la mia vita? Pilato, rispondi!”
Pilato rimase in silenzio. Alla fine rispose con un chiaro atto di sfida: “Non te la caverai così!”
“Nulla è deciso.”
Pilato fece un cenno ai suoi uomini che subito caricarono il simulacro l’Unto del Signore, ma questi gettò loro addosso la Sindone, che subito li cacciò indietro provocando loro piaghe mortali nel corpo e nello spirito. In meno d’un minuto l’intera coorte giaceva a terra esanime.
Il simulacro l’Unto del Signore gongolava: “E’ ora che anche il popolo subisca lo stesso trattamento.” La Sindone tornò subito fra le mani del suo Signore volando nell’aria, leggera come piuma d’angelo.
Pilato non sapeva che pesci prendere: questa volta per l’Umanità sarebbe stata la fine. Non appena la Sindone avrebbe avvolto il popolo, questo avrebbe conosciuto tutta la verità…
L’Unto del Signore stava per scagliare la Sindone contro il popolo quando il popolo intero si sollevò gridando una canzone antica, ancestrale, una canzone senza tempo.
Il Cristo, l’Unto del Signore, il Messia ebbe quasi un mancamento: l’aria gli divenne piombo nei polmoni. “Maledetti!”, pensò. Il viso gli s’imporporò di rabbia. L’aria pesante gli uccideva i polmoni. Purtroppo anche lui aveva bisogno di respirare.
Il coro di voci non si risparmiava dando corpo a tutta la repressa rabbia di secoli e secoli di vessazioni:
“Milones ya imponen la verdad; de acero son, ardiente battallòn, sus mano van llevando la justicia y la raçòn. Muier, con fuego y con valor ya estas aquì junto al trabajador. Y ahora el pueblo que se alza en la lucha con voz de gigante gritando: adelante El Pueblo Unido jamàs serà vencido!”
Con sgomento, il simulacro l’Unto del Signore fece un passo indietro. Il popolo non era più lo stesso, erano tutti simulacri, simulacri di simulacri all’infinito, milioni e milioni di simulacri di tutti i paesi e di tutte le razze, milioni di esseri che avevano sofferto guerre, fame, ignominia e torture nel nome della Chiesa, nel nome del Governo e della Cristianità.
I simulacri continuavano a moltiplicarsi: ogni simulacro partoriva altri mille simulacri.
Era spettacolo orribile vedere tutta quella rabbia non disposta ad ascoltare alcunché. Quella massa ascoltava soltanto la sua rabbia.
La Sindone gli scivolò dalle mani. A che sarebbe servita contro quella massa rabbiosa?
La rabbia non la si può annichilire con il peccato né con la verità.
Subito fu travolto da milioni di simulacri insieme ai suoi discepoli che, improvvisamente, si erano svegliati dal loro stato comatoso, giusto in tempo per assistere alla loro fine.
Luca si fece il segno della croce per quel che poteva servire e salmodiò: “Eduxit autem eos foras in Bethaniam; et elevatis eis. Et factum est, dum benediceret illis, recessit ab eis, et ferebatur in caelum. Et ipsi…” Non riuscì a terminare di parlare, né poté sentire le voci di Giovanni e Marco. La sua voce fu coperta dalla rabbia dei simulacri che ormai gl’erano addosso. Morì con la consapevolezza che le sue ultime parole furono la sua ultima menzogna sulla Terra.
Ponzio Pilato riuscì comunque a sentire l’ultima voce dell’Unto del Signore: “Pilato, Pilato, il popolo mi condanna e tu con loro… Tu solo puoi salvarmi… almeno questa volta…”
Ponzio Pilato fece orecchi da mercante e lasciò che il popolo adempisse alla volontà della sua rabbia. Non nutriva alcun pentimento: in fondo era stato fin troppo magnanimo con lui. L’aveva avvertito che il popolo non ha orecchi per sentire, l’aveva messo in guardia. Lui non avrebbe potuto arrestare quella massa di simulacri incazzati neanche se avesse desiderato farlo. E Ponzio Pilato non nutriva alcun desiderio di salvezza per… per… Non sapeva dire per chi o per cosa con precisione. Però di una cosa era certo: l’Umanità non era ancora salva e mai lo sarebbe stata sino alla fine dei tempi.

Uscì dal Palazzo dei Re, scrutò l’orizzonte, il suo sguardo si fissò sul Golgota: una croce era già stata eretta. Ormai tutto era stato deciso: non c’era più bisogno di lui. Il sole atomico stava tramontando sulla croce. Domani sarebbe stato un altro giorno.

Le voci concitate all’interno del palazzo continuavano a crescere d’intensità e di numero: là dentro c’era un’orgia di milioni di simulacri, che avevano infranto tutte le barriere dello spazio e del tempo per raccogliersi in un singolo punto della Terra, un punto che in condizioni normali avrebbe potuto ospitare al massimo un centinaio di individui. Là dentro stavano stipati i simulacri di persone provenienti da tutti i secoli e da tutte le regioni e da tutti i tempi.
Fissò un’ultima volta il Golgota, la croce che avrebbe ospitato l’ultimo Cristo. Questa volta non ci sarebbero stata una Resurrezione. Il mondo si avviava verso un futuro impossibile da immaginare o vaticinare. Un futuro oscuro.
Il simulacro di Ponzio Pilato scomparve e al suo posto rimase sol più Isaia Montecristo, almeno in apparenza un mortale, forse un simulacro, comunque un essere solitario avviato lungo la lunga strada della vita; Isaia, di sicuro un essere che era ben poco cosciente di quanto si era appena consumato per essere consegnato alla Storia. E la Storia era Isaia, in apparenza un mortale, un ateo, che sapeva e che meglio sarebbe stato per la nuova Umanità che lui nulla sapesse.

L’ombra di Isaia di Montecristo era l’ombra del discepolo Matteo e di Giuda. Matteo aveva creduto di poter morire e si era avvinghiato all’incertezza come a una fede, e questa l’aveva tradito: il suo corpo era morto, forse anche il suo spirito; tuttavia la sua ombra, quella di Matteo e di Giuda, era più viva che mai. E nemmeno il suo doppio in carne, Isaia di Montecristo o Ponzio Pilato che dir si voglia, era morto per via della fine fisica del discepolo Matteo.

Il sole atomico si era spento per quel giorno: la Luna splendeva virginea in cielo.
No, non era ancora il tempo per la pace eterna: la minaccia sopravviveva nel cuore, nel cervello di Isaia. La minaccia era più che mai reale e la vedeva nella sua ombra!
No, non era ancora giunto il tempo per la Redenzione Immortale!
Presto un’altra battaglia si sarebbe dovuta affrontare.

Epilogo

“La profezia di Malachia si è avverata….”, osservò un porporato.
“Già. E’ stata più cruda di quanto si potesse immaginare.”
I due porporati abbandonarono le rovine di quella che un tempo fu la Santa Sede. Entrambi sapevano che mai più avrebbero fatto ritorno lì. Smisero le loro vesti, guatarono il negro cielo sopra le loro teste, trassero un profondo sospiro di sollievo o forse di tristezza e si lasciarono tutto alle spalle.

In lontananza qualcuno mormorava parole ormai senza senso:

Quoniam in me speravit, liberabo eum;
protěgam eum, quia cognovit nomen meum.
Invocabit me et exaudiam eum;
cum ipso ero in tribulatione,
eripiam eum et homorabo eum.
Longitudine dierum satiabo eum,
et ostendam ei salutem meam.
(dal Salmo 91)

Chi parlava, parlava senza comprendere il significato di quelle parole: le ripeteva così come gl’erano state insegnate, le ripeteva forte solo della sua memoria.

Chi volesse il pdf del romanzo breve può richiederlo tramite email all’autore della presente opera.


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