Il 6 ottobre l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) ha pubblicato il suo primo Studio Globale sull’Omicidio che rileva la tendenza all’aumento della violenza nel continente americano, in cui è stato commesso il 31% dei 468.000 omicidi del mondo nel 2010, e in Africa, dove s’arriva al 36%. L’America Latina presenta un quadro preoccupante. L’Honduras ed El Salvador hanno tassi d’omicidio pari a 82 e 66 ogni centomila abitanti, i più alti del mondo. Li seguono la Giamaica con 52, il Venezuela con 49, il Guatemala con 41, la Colombia con 33 e il Brasile con 23. Siamo ben oltre la media mondiale di 6,9 e quella statunitense di 5. Le ragioni principali sono da ricercare nelle enormi disuguaglianze economiche e la mancanza di opportunità per i giovani, nell’urbanizzazione incontrollata e nell’alta diffusione delle armi nella società.
Il Messico, protagonista delle cronache per il forte impatto mediatico dei narcos e delle loro mattanze, mantiene un tasso di omicidi pari a 18, basso rispetto ai suoi vicini del Sud. In termini assoluti, però, i numeri impressionano: nel 2010 sono state assassinate 20.585 persone, una cifra superata nell’emisfero occidentale solo dal Brasile con 43.909 vittime.
In terra azteca, tuttavia, le inquietudini riguardano la crescita del fenomeno e le sue cause: nell’ultimo anno i morti per la violenza sono aumentati del 65% e in due anni sono praticamente raddoppiati, più per l’escalation della cosiddetta “guerra al narcotraffico” che per fattori socioeconomici. Giorno dopo giorno la stampa messicana tiene il conto delle vittime attribuibili al conflitto: quasi 50.000 in un lustro e oltre 10.000 solo quest’anno.
Il vero problema sta nell’impennata così repentina della violenza. Ai fatti di sangue si sovrappone, inoltre, la continua spettacolarizzazione del fenomeno attuata dai mass media e dagli stessi trafficanti che in questo modo possono minacciare efficacemente i rivali, la polizia e i cittadini. Il numero di omicidi è esploso nel 2009 ma è cominciato a crescere già dal 2007, quando il Presidente Felipe Calderón, del partito conservatore Acción Nacional, lanciò le prime operazioni militari mandando l’esercito nelle regioni più conflittuali dominate dai cartelli della droga: da Tijuana a Ciudad Juárez fino alle coste del Golfo del Messico.
Il Governo ha scelto il 2011 come “anno del turismo in Messico” ed è stato premiato dall’incremento delle visite e della valuta straniera in entrata, ma la propaganda ufficiale deve misurarsi con le realtà contrastanti del paese. Lo stato di Queretaro, lo Yucatan, il Chiapas e la capitale hanno mantenuto tassi di omicidio inferiori alla media nazionale, mentre i settentrionali Baja California, Chihuahua, Sinaloa e Durango hanno raggiunto medie “centroamericane”, superiori a 60 per centomila abitanti, come conseguenza della militarizzazione e della rottura degli equilibri preesistenti tra i cartelli dei narcos.
A Veracruz le organizzazioni criminali in lotta, il cártel del Golfo, gli Zetas e la Familia michoacana, in pochi giorni hanno seminato il panico con una serie di stragi. Il 21 settembre una formazione paramilitare che dice di “stare dalla parte della gente”, gli “ammazza-Zetas”, ha rivendicato il primo dei massacri, in cui 35 persone sono state giustiziate e poi abbandonate in strada nell’elegante sobborgo di Boca del Río. Altri 32 cadaveri sono stati ritrovati il 7 ottobre in tre case della stessa zona e sabato scorso altri 10 sono stati gettati per la strada a Laguna Real.
E’ emblematico anche il caso del Nuevo León, stato nordorientale alla frontiera statunitense investito da un’ondata di violenza per la faida tra i narcos del Golfo e gli antichi alleati Zetas. Proprio questo gruppo è responsabile del rogo di 52 persone lo scorso 25 agosto a Monterrey, capitale del Nuevo León ed (ex) fiore all’occhiello dell’imprenditoria messicana. Negli ultimi due anni gli abitanti della città hanno visto andare in frantumi la loro gabbia dorata a raffiche di cuerno de chivo, l’arma tipica dei narcotrafficanti, e per ora non s’intravede il recupero di quella normalità che ormai in quasi tutto il paese rischia d’essere soppiantata dalla violenza e da un permanente stato d’eccezione. [Questo articolo è uscito su Il Fatto Quotidiano on line il 17 ottobre 2011]