Magazine America
Credo fosse durante le elementari che mi spiegarono per la prima volta il concetto di povertà. Mi diedero una definizione piuttosto semplice da ricordare: “Povero è colui che muore di fame.”
Durante le lezioni di catechismo il parroco a volte ci proponeva documentari sulle missioni in Africa con l'avveniristico supporto anni '80 delle diapositive. Il prete stesso fungeva da voce narrante e ci raccontava, credo con dati approssimativi se non inventati, le condizioni di vita di quei poveri diavoli dell'Africa nera e gli sforzi dei missionari per evangelizzare e costruire chiese cattoliche in un territorio di tradizione animista.
“Guardate dove vivono!” Esclamava il prete mostrandoci foto che rappresentavano tradizionali capanne di fango Keniane o Ghanesi, con il tetto di paglia. “Assomigliano forse alle case dove vivete voi? Secondo voi hanno il telefono, la macchina, e il bagno?”
Alla luce di queste considerazioni, dovetti riconoscere che la capanna di fango africana non assomigliava affatto alla casa popolare nella quale stavo vivendo serenamente la mia infanzia.
Dunque, dedussi, tutti coloro che non vivono in una villetta o condominio sono da considerarsi poveri?
Poveri erano gli africani, gli esquimesi, gli indiani d'America e sicuramente le popolazioni delle isole del Pacifico; quelli poi andavano in giro seminudi perché, probabilmente, non si potevano nemmeno permettere maglietta di cotone.
Già a partire dalla scuola superiore il concetto di povertà assunse nella mia vita una definizione, diciamo, borghesuccia, tipica dell'epoca. Povero era chi non andava in vacanza, chi non aveva l'automobile, chi viveva in affitto, chi usava gli stessi vestiti per due stagioni di seguito.
Pensavo che forse io stesso ero povero o lo sarei diventato. A volte, per comprarmi un panino, dovevo chiedere soldi in prestito da un compagno di classe che amava farmi da istituto di credito mettendo mano al suo portafogli con la sicurezza di un capitano di industria.
Fino a venticinque anni mi spostavo principalmente in bicicletta. Ero tutto fiero di farmi venti o trenta chilometri al giorno senza nemmeno sentirli sulle gambe; le ragazze però guardavano quelli con la macchina e io andavo in bianco.
Ai tempi dei primi spritz domenicali frequentavo la parrocchia del mio quartiere e, quasi ogni anno, alcuni giovani veronesi si facevano la vacanza alternativa in Brasile a visitare qualche prete missionario le cui missive, scritte a mano, erano solitamente lette a Natale o a Pasqua.
I miei compagni, ritornavano da quelle esperienze felici e sicuri di sé. Avevano partecipato a marce della pace, parlato di calcio con qualche bambino di strada, scritto cartelloni in portoghese, ballato durante una funzione religiosa e, soprattutto, avevano visto i poveri. Quelli veri!
L'ottanta percento dei loro resoconti di viaggio consisteva in una dettagliata descrizione delle condizioni di vita locale, a partire da pasti a base di soli legumi, all'assenza di vetri dalle finestre delle case, al fatto che non si può buttare la carte igienica nel cesso perché i tubi sono di diametro così piccolo che si intaserebbero.
La loro analisi si spostava poi su aspetti di carattere più politico sociale e allora giù a parlare di scuole che non funzionano, di maestri non preparati e di tante mancanze che fanno sì che un paese si possa definire senza mezzi termini: terzomondista.
Come finivano questi discorsi è facile intuirlo; si sconfinava nella critica dei massimi sistemi, del capitalismo, dell'ingiustizia sociale e del fatto che c'è gente (quelli con la Mercedes Benz) che se ne approfitta.
In contesti non parrocchiali, a questo punto, sarebbero state accese le canne e qualcuno avrebbe cominciato a percuotere un bongo, invece lì ci si limitava a litigare con una minoranza, amica del Senatur, che affermava che noi italiani ci siamo sudati la nostra ricchezza mentre in altri paesi del mondo la gente è nata stanca e non fa un cazzo.
Non mi dilungo, credo che a tutti sia capitato almeno una volta nella vita di partecipare ad una di queste discussioni costruttive e stimolanti.
I poveri però erano sotto gli occhi di tutti, anche a Verona.
C'erano gli zingari che si muovevano cenciosi per la città con quel fare ambiguo da poco di buono; chiedevano elemosine ai semafori esibendo figli in fasce fra i fumi dei gas di scarico e l'indifferenza degli automobilisti.
Il sabato pomeriggio si incontrava qualche africano che allungava una mano timidamente e ti guardava con due enormi occhi di antilope che facevano male al cuore.
Ai tempi della scuola, ogni cento ragazzi circa, ce n'era uno proveniente da una famiglia problematica del tipo papà in galera per furto, fratello in galera per spaccio, madre e sorella prostitute. Erano sbandatelli rancorosi che giravano con vestiti sporchi, non mangiavano ad ogni pasto e tendevano a mettersi nei guai con una certa facilità.
E poi, non dimentichiamo, c'erano tutti i poveri che non sapevi che lo fossero. Decisamente troppo anonimi, a prima vista sembravano addirittura... passanti!
Una delle informazioni che raccolsi prima di partire per il Messico fu un dato statistico: metà della popolazione (1 persona su 2) vive in condizioni di povertà. E io non partivo proprio per le vacanze, non mi sarei limitato a fare una chiacchierata con loro nel cortile protetto di una parrocchia.
I messicani sarebbero diventati i miei colleghi e vicini di casa. Avrei dovuto aspettare l'autobus insieme a loro e con loro fare la coda per pagare le bollette della luce. Che tipo di ambiente avrei trovato? Lo scoprii presto... (Continua...)
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