La Geografia del Paese
Il Messico rappresenta nel panorama geopolitico americano un perno fondamentale per gli equilibri dell’intera regione. Tale importanza è senz’altro determinata dall’ubicazione geografica che offre al Paese un potenziale indiscusso, ponendolo come centro nevralgico dei rapporti delle due macro aree dell’intero Continente, quella meridionale e quella settentrionale.
Posto nella fascia meridionale dell’America del nord, a cavallo tra l’area anglosassone e quella latina dell’emisfero americano1, il suo territorio ha la forma di un imbuto che confina a nord con gli Stati Uniti con i quali condivide un confine di ben 3.200 chilometri e ai quali è agganciato dalla montagna ma sopratutto dall’ampia fascia desertica, mentre a sud con Belize e Guatemala ai quali è agganciato dalla selva. Il suo territorio, delimitato dalla sierra madre occidental a ovest e dalla sierra madre oriental a est – che fanno del Messico una sorta di fortezza di montagna – è prevalentemente montuoso e con un clima variegato, secco desertico nel nord, tropicale e piovoso nel sud e temperato nell’altipiano centrale che ha permesso lo sviluppo di una ricca e florida vegetazione. Le sue coste sono bagnate da entrambi gli oceani e il sottosuolo è ricco di giacimenti di idrocarburi.
Mentre la sierra madre occidental scende a picco sull’Oceano Pacifico ed è coperta da densi boschi tropicali che rendono il territorio completamente inospitale, la sierra madre oriental cade su un’ampia pianura, anch’essa ricoperta boschi tropicali, che la distanzia dal Golfo del Messico. Tale costa, rivolta verso il potente vicino statunitense, è stata sempre considerata dagli strateghi un vulnus militare all’interno del Paese2. Altrettanto vulnerabile è la zona desertica del Paese che forma un’importante e poderosa barriera tra il Messico e gli Stati Uniti. Tale zona, infatti, ha da sempre rappresentato la sede delle insurrezioni nazionali e ciò per via del suo isolamento che la rende inabitabile in alcuni punti e scarsamente controllabile da parte dello Stato centrale. La montagna, il deserto e l’isolamento rappresentano senz’altro un terreno fertilissimo sia per le attività illegali che per le dissidenze civili e quindi un ulteriore vulnus3. Al pari, le autorità di Città del Messico hanno difficoltà a controllare anche gli altri stati montagnosi come il Chiapas, Oaxaca, Michocán e Guerrero che rappresentano delle ottime piattaforme per l’innesco di ribellioni.
Partendo dall’analisi di questi elementi geografici non sarebbe per nulla infondato ipotizzare che gli stessi, nonostante i descritti aspetti di vulnerabilità, se ben combinati e adeguatamente sfruttati, avrebbero offerto al Messico una posizione di indubbio vantaggio. Tuttavia, la variabile rappresentata dal confine nord con gli Stati Uniti, che nel corso della storia ha pesato come un macigno sulle spalle del Paese, lo ha reso succube della politica di espansione statunitense impedendogli di far valere appieno la propria sovranità e, per l’effetto, di raggiungere un adeguato grado di sviluppo.
Cenni Storici
Sin dall’indipendenza ottenuta nel 1821 dall’allora dominio coloniale spagnolo, il Messico divenne l’ambita preda degli interessi statunitensi, nonché l’antesignana vittima sacrificale di quella che successivamente venne riconosciuta come teoria del manifest destiny (destino manifesto) che, coniata nel 1845 e successivamente divenuta uno dei concetti chiave della politica estera americana, indicava il presunto diritto-dovere di espandersi sempre più a sud al fine di diffondere i principi di libertà e di autogoverno4.
Così, negli ambienti imprenditoriali e finanziari statunitensi si iniziò a programmare e pianificare una strategia di colonizzazione attraverso l’insediamento di un gran numero di coloni tedeschi, olandesi e anglosassoni in cerca della loro “terra promessa” nello Stato del Texas. A distanza di pochi anni le autorità messicane si resero conto della situazione e cercarono di porvi rimedio attraverso delle apposite leggi che, tuttavia, si rivelarono inefficaci5.
Nel 1833, con l’arrivo al potere del generale Antonio López de Santa Anna, lo scenario mutò dal momento che questi decise di estendere le prerogative e competenze federali a scapito dei singoli Stati. Tale azione produsse immediatamente (nel biennio 1835-1836) un’insurrezione in armi da parte dei coloni, meglio nota come “Rivoluzione Texana”, che fece da detonatore allo scoppio del conflitto combattuto nel biennio il 1846-1848 tra i due Stati e in cui il Messico subì una tragica sconfitta – resa ancor più drammatica dall’onta dell’occupazione della capitale Città del Messico – e che si concluse con la firma del trattato di Guadalupe Hidalgo. Il Messico fu quindi costretto a cedere agli Stati Uniti oltre il Texas anche quei territori oggi conosciuti come Nuovo Messico, Alta California, Nevada, Utah, Colorado, Arizona, Wyoming, ricevendo in cambio 15 milioni di dollari.
Sul piano politico interno, invece, la guerra comportò l’accelerazione della mobilitazione popolare nazionalista che rafforzò il potere centralista quale unico rimedio contro le spinte separatiste delle provincie. Nel frattempo, a seguito della situazione di caos che si era generata nel Paese a causa della guerra con gli Stati Uniti e che stava portando il Paese sull’orlo della bancarotta, il Presidente Santa Anna aveva rassegnato le dimissioni. Ma nel 1853 sia i conservatori che i liberali invocarono il suo ritorno alla Presidenza che durò fino al 1855, quando al suo posto subentrò Juan Álvarez che formò un governo composto da politici liberali6 e che diede avvio alla II Repubblica e alla costituzione del 1857.
Tali eventi sono di primaria importanza se si considera che nella metà degli anni venti dell’800 i due Stati dell’America settentrionale erano molto simili in termini territoriali e demografici mentre, tre decenni dopo, il Messico aveva perso più della metà del suo territorio passandolo agli Stati Uniti, che nel frattempo avevano triplicato la loro popolazione. Secondo alcuni osservatori, infatti, fu la proprio la perdita di una così cospicua fetta di territorio a generare nel Messico un complesso di inferiorità nei confronti degli ormai potenti vicini Stati Uniti, da cui non riuscì più a venirne fuori.
Successivamente fu l’era di Porfiro Díaz che rimase in carica per circa un trentennio, ovvero dal 1876 fino allo scoppio della rivoluzione messicana. Quello di Díaz fu un regime autoritario e in combutta con il capitale straniero7 al quale venne concesso la possibilità di investire nella realizzazione di opere pubbliche nonché l’opportunità di acquisire terre a scapito dei popoli indigeni e dei piccoli proprietari terrieri. Tuttavia tale regime, che si avvalse anche della collaborazione di un gruppo ristretto di tecnocrati strettamente legati all’ideologia positivista, non riuscì a sopravvivere ai venti turbolenti del nuovo secolo, mostrandosi così incapace di rispondere alle domande di cambiamento del mondo rurale e dei settori medi urbani.
Nel 1910, agli sgoccioli del quinto mandato presidenziale di Díaz e alle soglie delle nuove elezioni, le proteste si inferocirono a seguito della sua ricandidatura alla presidenza del Paese. Il movimento di protesta dilagò in gran parte della Nazione, coinvolse tutte le classi sociali ed ebbe varie anime tra cui spiccava quella agraria capeggiata da Emiliano Zapata e il cui movimento si sviluppò nella regione centrale dello Stato di Morelos, dove la terra delle comunità rurali era stata oggetto di dure espropriazioni. Oltre alla restituzione delle terre, Zapata e il suo movimento difendevano il diritto di autogoverno e di autonomia municipale8.
Ma nel 1913, a seguito di un colpo di Stato effettuato dal generale Victoriano Huerta, supportato dall’esercito e dai latifondisti, la protesta degenerò in guerra civile. Dalle regioni settentrionali del Paese proveniva anche un altro celebre personaggio, José Doroteo Arango (meglio noto come Pancho Villa) che formò un vasto ed eterogeneo movimento, la “Divisione Nord”, composto da mandriani, mulattieri, agricoltori e allevatori, che si unì al movimento di Zapata con un programma di distribuzione delle terre e contro i costituzionalisti di Carranza9.
La sanguinosa guerra civile combattuta tra le diverse fazioni si concluse nel 1917 con la vittoria dei costituzionalisti che emanarono una nuova carta costituzionale ed elessero Carranza alla presidenza della Repubblica, beneficiando del supporto politico statunitense dell’allora Presidente Wilson. La costituzione del 1917 richiamava in parte quella del 1857. Tra i punti più importanti figurava l’articolo 27 che sanciva che il suolo e il sottosuolo erano di proprietà della nazione e che lo Stato poteva affidarlo in concessione ma anche sottoporlo a esproprio in qualsiasi momento. Tale articolo, malgrado Carranza si fosse premurato di specificare che la legge non aveva carattere retroattivo, provocò le violente reazioni delle compagnie petrolifere statunitensi10.
Le lotte contadine, tuttavia, proseguirono per oltre un decennio a causa della lentissima applicazione della riforma agraria che non trovò mai piena attuazione; nel 1926, nelle regioni centro occidentali, si sovrapposero al conflitto tra Stato e Chiesa che diede origine alla cristiada, conclusasi nel 1929 con un tacito accordo tra le parti.
Nello stesso anno, per porre fine in modo perentorio alle lotte intestine tra le varie fazioni e dare maggiore solidità all’esecutivo, nacque il Partido Nacional Revolucionario (PNR) distintosi per aver dato vita ad una forte opera di corporativizzazione che ha legato i leader politici alle masse organizzate garantendo così una forte stabilità all’intero sistema. Nel 1938, terminata l’opera di corporativizzazione, il PNR si estinse per dare vita al Partido Revolucionario Mexicano (PRM) nato con l’intento di garantire la continuità di un regime rivoluzionario istituzionalizzato in un sistema politico centrato sul presidente della Repubblica e sul partito-Stato rimasto in piedi fino al 2000.
Il Partido Revolucionario Mexicano (PRM), durante la Presideza di Cárdenas, si distinse per la forte impronta socialista che offrì al Paese e per avere inquadrato, seguendo quelli che furono i dettami dell’ideologia ufficiale, contadini, operai e classe media in una rete di meccanismi di mediazione, per legittimare le decisioni del partito e dell’esecutivo a cui il PRM era direttamente legato. Tale divisione forniva allo Stato un ottimo mezzo di controllo sulle organizzazioni sindacali, rafforzando in tal modo la centralizzazione sia dell’esecutivo che dello stesso partito11.
Ma tra il 1940 e il 1946 si assistette ad una nuova fase di transizione, dettata anche dalle mutate condizioni internazionali e dal ruolo di egemone indiscusso che gli Stati Uniti avevano assunto in America latina, che culminò con la nascita del Partido Revolucionario Institucional (PRI) – denominazione che a tutt’oggi mantiene – e che prese le distanze dalla visione socialista incarnata da Cardena per spostarsi su posizioni liberali. Il PRI, strutturato in modo tale da armonizzare gli interessi di molti, riuscì a garantire stabilità al Paese per diversi decenni. Lo Stato, che controllava l’economia e la politica grazie alle nazionalizzazione di alcuni settori strategici, mantenne una certa stabilità economica che però, nonostante la struttura pianificata e di stampo nazionalista, mostrò sul finire degli anni sessanta contraddizioni e incoerenze del tutto evidenti. Così, negli anni successivi si iniziarono a manifestare all’interno del regime i primi sintomi di alterazione che portarono alle successive crisi economiche degli anni ‘90, generate da politiche ultra liberiste, che fecero sprofondare nel baratro il Paese, già peraltro segnato da numerosi problemi quali la criminalità, la corruzione, la recessione economica e la disoccupazione.
La crisi venne affrontata, come da copione, con la solita ricetta di matrice neo-liberale, partorita da tecnici luminari delle scienze economiche, basata su politiche di austerità e alle quali fecero ovviamente seguito i prestiti erogatiti dagli organismi internazionali.
Turbolenti anni ‘90.
La nuova situazione internazionale, profilatasi negli anni ‘90 a seguito dell’implosione dell’U.R.S.S., portò gli Stati Uniti a mettere in pratica le nuove linee guida di politica estera che già a partire dagli anni precedenti avevano iniziato a propagandare, elogiando le virtù del libero mercato, della cooperazione internazionale e delle privatizzazioni. Tali politiche erano focalizzate sull’espansione del neoliberismo e della globalizzazione partendo da un’integrazione economica con Messico e Canada che, giocando un ruolo fondamentale nello schema connotato dalla subalternità, avrebbero dovuto offrire una serie di garanzie, tra cui quella energetica ed economica.
La nuova situazione spinse il Messico ad adottare misure adeguate ai canoni dell’economia globale (tra cui l’attuazione di politiche strutturali) che delinearono una profonda trasformazione che, tuttavia, si rivelò inadeguata alla situazione della società messicana, per come dimostrato dagli effetti che ne derivarono. Washington vide il Messico come una piattaforma ideologica di interessi strategici e commerciali e sollecitò l’adesione del Paese al Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avvenne nel 1982, e all’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT), che avvenne nel 1985. Gli Stati Uniti divennero, quindi, il principale esportatore di valuta estera ed il più grande acquirente dei prodotti messicani, riuscendo in tal modo ad accrescere ancora di più la propria influenza12.
Il governo di allora, guidato dal Presidente Miguel de Madrid che era condizionato da gruppi egemonici, concepì una politica di liberalizzazione del commercio estero, promuovendo attivamente gli investimenti stranieri e lo smantellamento del sistema di protezione, importazione e di industria nazionale. Ma l’azione che suggellò il legame tra Stati Uniti e Messico e, soprattutto, la netta subordinazione di quest’ultimo ai primi, fu la firma nel 1992 sotto la presidenza di Salinas de Gortari dell’accordo di libero scambio (NAFTA) con cui gli Stati Uniti determinarono le regole economiche, le questioni fondamentali di politica interna e gli obiettivi futuri della politica estera messicana. Con la sigla di questo accordo il Messico si assoggettava definitivamente ai diktat statunitensi, abbandonando definitivamente la sua naturale inclinazione geopolitica nei confronti dell’America Latina che, da lì a qualche anno, avrebbe elaborato una visione del tutto autonoma, assurgendo così a nuovo pilastro dell’attuale condominio internazionale uni-multipolare.
Dall’analisi di alcuni indicatori economici e sociali si evince chiaramente che negli ultimi 20 anni circa (quindi dall’entrata in vigore dell’accordo) il Paese non solo non ha raggiunto gli obbiettivi sperati, ma ha peggiorato i suoi standard. Questa conclusione è imposta da alcuni dati. Il Messico infatti, occupa il diciottesimo posto per crescita di prodotto interno lordo sui venti paesi che compongono la regione latinoamericana. Il suo PIL pro capite è cresciuto solo del 18,6% negli ultimi venti anni e, approssimativamente, rappresenta solo la metà della crescita avvenuta nel resto della regione. Anche dal punto di vista sociale il Paese non ha migliorato affatto i suoi standard: il tasso di povertà, pari al 52,3% nel 2012, è rimasto all’incirca identico a quello del 1994. Come del resto sono rimasti identici i tassi di disoccupazione, 5% (che è un dato accettabile se non fosse per le misere condizioni in cui versano i lavoratori) e il livello dei salari. Vi è da aggiungere,inoltre, che il NAFTA ha avuto un serio impatto sui piccoli imprenditori agricoli che hanno subito la grande concorrenza dell’agribusiness. Tale fenomeno ha ovviamente contribuito all’aumento della migrazione verso gli Stati Uniti, che dal 1994 al 2000 è aumentata del 79%, generando, per l’effetto, la duplicazione dei residenti messicani in territorio statunitense che da 4,5 milioni nel 1990 sono passati a 9,4 milioni nel 2000; il dato tutt’oggi è in crescita in quanto parrebbe siano giunti a circa 15 milioni.13
L’insurrezione del Chiapas e i problemi sociali del Paese
Il NAFTA entrò ufficialmente in vigore il 1° gennaio 1994. Nella stessa data, di sicuro non per mera casualità, si verificò nello Stato del Chiapas14 l’inizio di un’insurrezione armata intrapresa da un nuovo soggetto politico, l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN) che, capitanato dal subcomandante Marcos, intendeva affermare i diritti e l’autodeterminazione dei popoli indigeni sino ad allora relegati ai margini della vita politica ed economica. A ciò si aggiungeva la critica alla globalizzazione neoliberista e l’opposizione al trattato di libero commercio. Ma al centro delle rivendicazioni del movimento vi era la questione agraria (mai risolta nonostante i numerosi decreti presidenziali susseguitesi a partire dagli anni ‘60) e l’opposizione alla riforma dell’articolo 27 della costituzione del 1992, che prevedeva che gli appezzamenti comunitari potevano essere liberamente venduti ai privati, permettendo così la legalizzazione del latifondo e lo smantellamento della comunità.15
Secondo alcuni analisti tale movimento è stato la diretta emanazione dei gruppi di guerriglieri degli anni ‘60 e ‘70 che, seppur sopiti, non sono mai scomparsi dalla scena politica, intervenendo nel Chiapas per rafforzare le basi dell’EZLN. Dopo una prima fase di scontri violenti, il governo siglò con l’EZLN un accordo di pace facendo alcune concessioni. Quest’intesa, tuttavia, fu subito sconfessata (al pari di quella successiva del 1996); l’esecutivo rispose sempre più con la repressione, armando e sostenendo vari gruppi paramilitari. Grazie a un abile uso dei mezzi di comunicazione, (tra cui internet, che permise di creare una rapida rete di sostegno internazionale), al supporto delle reti sociali presenti sui territori, nonché ad un’efficace guerra di propaganda, il movimento zapatista rimase a lungo una spina nel fianco per il potere centrale, anche se nell’ultimo periodo ha perso gran parte della proiezione nazionale, circoscrivendo la sua azione al sud est della nazione dove è riuscito ad imporre forme di autogoverno.16
L’insorgenza guerrigliera, peraltro, non fu l’unico problema del Messico. A partire dal 1994, infatti, si verificò un aumento vertiginoso di sequestri di persona e omicidi (anche di esponenti politici di primo piano) che contribuirono a fare del Messico uno degli Stati più violenti al mondo17. L’alto grado di violenza fu accompagnato da un’eccezionale impunità del crimine organizzato, specie dei cartelli della droga, rafforzatisi enormemente da quando il Paese si è trasformato nella principale area di transito verso il mercato statunitense. Fu in quegli anni che i cartelli messicani, approfittando dell’indebolimento dei colombiani che erano i principali fornitori del mercato statunitense, hanno smesso di assolvere al ruolo di “muli” (che nel gergo mafioso indicava gli addetti al trasporto) assumendo un ruolo principale nella produzione, nella gestione dei traffici, nella determinazione del prezzo e nella decisione delle rotte18. Ma con l’avvento degli anni 2000 la Pax Messicana, che fino a quel momento aveva retto gli equilibri mafiosi interni, si ruppe generando uno sconvolgimento nel sistema di alleanze che fino ad allora aveva garantito ai trafficanti la sicurezza dei corridoi determinando, per l’effetto, l’affermazione di dieci grandi cartelli criminali messicani che occuparono le scene degli anni seguenti, scontrandosi tra loro per accaparrarsi i proventi. Tra i più influenti si ricorda il cartello di Sinaloa, meglio noto come “cartello del Pacifico”, il cartello del Golfo, La Familia, il cartello di Tijuana e los Zetas.19
I cartelli, ancora oggi strutturati come una rete imprenditoriale con accordi e patti di vario genere e consistenza e che lega tra di loro gruppi e singoli soggetti senza assoggettarli ad una struttura piramidale, sono oggi impegnati a gestire le varie fasi dell’attività. La loro struttura organizzativa è, infatti, capace di assolvere funzioni differenti e altamente specializzate nei variegati settori riguardanti la coltivazione delle piante (con esigenze di protezione e mimetizzazione), l’acquisto di foglie e di sostanze chimiche, il trasporto delle materie prime nella zona dei laboratori, il confezionamento della cocaina e la vigilanza dei depositi. Attività, queste che, grazie anche alla protezione dei capi, hanno comportato l’estrema militarizzazione dei cartelli dotati di unità armate, altamente qualificate ed impiegate nella protezione delle rotte che sempre più spesso vengono minacciate dai gruppi dediti esclusivamente ad attività di tipo predatorio.
I rinomati Los Zetas, appunto, ad oggi famosi per la loro ferocia, nacquero ad opera di Osiel Cárdenas Guillén (leader del cartello del Golfo) che cercava persone di fiducia nel campo militare e che, attraverso la conoscenza di alcuni ufficiali dell’esercito, organizzò una struttura in grado di proteggere se stesso ed eliminare persone scomode. L’arresto di Cárdenas Guillén nel 2003, e la sua successiva estradizione negli Stati Uniti nel 2007, permisero al gruppo di effettuare una ristrutturazione e fuoriuscire dal controllo del cartello del Golfo attraverso la costituzione di una sessantina di cellule semi indipendenti. Il gruppo è fortemente attivo sia in numerose regioni del Messico (particolarmente a Tamaulipas, Nuevo León e Veracruz) che in vari Stati dell’America latina e, in particolare, in Guatemala dove ha intrecciato rapporti con la criminalità locale che controlla intere porzioni di territorio, determinando con ciò la riduzione della sovranità statale e favorendo i flussi di droga20.
Oltre che per la sua ferocia, Los Zetas sono noti soprattutto per le attività di tipo predatorio, quali furti e tangenti sul passaggio dei carichi di droga e furti di petrolio dagli oleodotti, nonché sequestro dei migranti che dall’America centrale attraversano il Messico per giungere negli Stati Uniti. In particolare, al confine con gli Stati Uniti i cartelli si incontrano nel pieno processo di politicizzazione, e la logica di sopravvivenza impone loro di stringere nuove alleanze e di fare perno sulla protesta sociale.21
Secondo gli esperti nel panorama della criminalità messicana attualmente si è all’interno di una fase di transizione del potere che sta portando alla solidificazione di quelli che al momento rappresentano i due grandi cartelli del Paese – Sinaloa e Zetas – mentre sullo sfondo si assiste ad una frammentazione di quelli minori.22 Molti analisti, collegando la “guerra al narcotraffico” con le lotte per il controllo delle risorse naturali e l’espansione del programma neo-liberista, intravedono in questi gruppi degli apparati contro-insurrezionali il cui fine ultimo è disseminare il panico tra capitalisti locali, regionali e nazionali, obbligandoli a chiudere le loro attività per permettere alle società sovranazionali di ottenere l’accesso ai settori dell’economia precedentemente controllati da questi. Tra le attività del gruppo criminale, anche quelle di intimidazione perpetrate nei confronti delle comunità indigene che popolano territori ricchi di risorse minerali, quali gas petrolio, o posizionate in zone strategiche. Si pensi, a titolo di esempio, agli abitanti di Ciudad Mier, una città sita sul più grande giacimento di gas del Messico e in cui vive una piccola comunità dello Stato di Tamaulipas, fuggiti in massa per la violenza paramilitare; oppure a quelli della Valle di Juárez, considerato il luogo più pericoloso del Messico per via di omicidi e minacce, dove di recente è stato costruito un nuovo passaggio di frontiera con gli Stati Uniti23. È, quindi, opportuno osservare che all’affermazione che spesso viene pronunciata da parte della autorità, ovvero che “il narcotraffico corrompe lo Stato”, andrebbe aggiunto che spesso la corruzione segue un cammino sinuoso, che non necessariamente si contrappone alla legge.24
L’alternanza al Potere
L’avvento del nuovo millennio segnò l’uscita di scena del PRI dopo ben 71 anni di governo.
La consultazione del 2000 vide infatti l’affermazione di Vincente Fox, candidato del PAN ed ex Presidente della Coca Cola per Messico e America Centrale. La nuova gestione di Fox, nonostante durante la campagna elettorale si fosse presentato come un leader populista, non si discostò dalla linea politica tracciata sin dagli anni ‘80 dai suoi predecessori, continuando ad essere di matrice liberista e i cui effetti negativi continuarono a riscontrarsi in ambito sociale. Fu infatti durante il periodo del foxismo che venne ratificato il trattato dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), promosso dagli Stati Uniti e fortemente criticato dal resto della regione che, su iniziativa di Chávez e Castro, rispose con il trattato dell’ALBA. Sempre in quel periodo vennero inoltre firmati il NAFTA Plus (con una parte significativa per quanto concerne il controllo dell’immigrazione) e la Comunità dell’America del Nord (CAN) e, a seguito degli attacchi “terroristici” negli Stati Uniti, venne varato il nuovo programma della sicurezza americana che incluse il Messico nel nuovo perimetro di sicurezza del Nord America, ponendolo sotto il controllo del Comando di Difesa Aerospaziale del Nord America (NORAD). Successivamente, nel 2005, si attivò un ulteriore meccanismo trilaterale permanente, l’Alleanza per la Sicurezza e la Prosperità dell’America del Nord (ASPAN), il quale contiene un TLC perfezionato25.
Nonostante l’impopolarità di Fox, il PAN riuscì ad aggiudicarsi anche le elezioni del 2006 con Felipe Calderón, anche se sul risultato di queste consultazioni – con cui lo sfidante candidato di sinistra, Andres Manuel Lopez Obrador, fu battuto per una manciata di voti – sussistono ragionevoli dubbi circa la regolarità, dubbi tali che lo sconfitto decise di alimentare una campagna di protesta che durò oltre sei mesi.
Una volta insediatosi, Calderón dovette affrontare delle sfide importanti (a cominciare dai dati economici e sociali) che, seguendo la tendenza degli anni precedenti, continuarono a peggiorare anche a causa della crisi economica del 2008 che, a differenza di quanto accadde nel resto della regione latinoamericana, colpì duramente il Messico.
Nonostante i due presidenti provenienti dalle fila del PAN si fossero fortemente impegnati sulle tematiche della sicurezza e del narcotraffico, i successi in questo campo furono praticamente nulli. In particolare, nel periodo della presidenza Calderón i crimini registrarono un’impennata inesorabile a cui fece seguito l’esplosione prevedibile di numerosi movimenti sociali, provocata anche dalla dilagante povertà. Tale situazione portò ad un ulteriore intensificarsi delle relazioni tra Messico e Stati Uniti che attraverso il Plan Mérida, varato nel 2007, offrirono al Messico l’aiuto ed il supporto dell’intelligence statunitense. La debolezza dell’alternativa offerta dai dodici anni di governo a guida PAN ha spinto i messicani a riaffidare nel 2012 le redini della nazione al PRI, nella persona di Enrique Peña Nieto che, tradendo le promesse fatte in campagna elettorale, ossia quelle di voler ridurre la corruzione, aumentare la trasparenza e migliorare lo Stato di diritto, si trova oggi a governare uno Stato divenuto ormai ingestibile, alla mercé dei vari gruppi criminali organizzati e dei cartelli della droga, dove si susseguono violenze di ogni tipo e dove anche i dati economici mostrano segni si instabilità. Infatti, nonostante nel 2014 si sia registrata una modesta ripresa nell’economia del Paese, con una crescita (dovuta principalmente ai benefici avuti dalla ripresa economica statunitense) del PIL del 2,1%26 dopo la lunga recessione seguita alla crisi del 2008, questo dato certamente non può far sperare in una ripresa effettiva da cui possa emergere un reale e concreto sviluppo sociale. Tali situazioni, aggravate dalla recente uccisione dei 43 studenti morti di lupara bianca, mettono sempre più a repentaglio la sicurezza del Paese che, secondo gli esperti, tende verso una tripartizione del suo territorio in zone economiche speciali fortemente protette, zone a legalità più visibile e zone non controllate dallo Stato.27 É ovvio che tutto ciò ha effettivamente compromesso la popolarità del PRI e potrebbe avere delle gravi ripercussioni nelle prossime elezioni legislative e locali che si terranno il prossimo giugno 2015. Il partito, infatti, rischia di ridurre i suoi seggi alla Camera, rendendo ancor più complicato l’ultimo triennio del mandato presidenziale di Enrique Peña Nieto a cui non resta che sperare nella divisione dell’opposizione di sinistra e del PAN e nella disillusione dei cittadini nei confronti della politica.28
Ampliando il campo dell’analisi è opportuno osservare che tale situazione, che è maturata con la scelta di intraprendere politiche neoliberali caratterizzate da privatizzazioni e austerità economiche, ha causato l’interferenza dei sistemi di intelligence (come la DEA, la CIA e l’FBI) sul territorio messicano e, a sua volta, ha prodotto una situazione di totale carenza di sovranità nazionale che ha fatto scivolare il Paese nel caos del quale ne stanno indubbiamente e notevolmente beneficiando gli Stati Uniti. Essi, infatti, oltre ad avere il pieno controllo militare del Paese (grazie all’ASPAN e al Plan Mérida) che gli permette la sicurezza sul fronte sud proiettandoli sul resto della regione, possono usufruire di tutte le ricchezze detenute dallo Stato, prima fra tutte il capitale umano che, visto lo stato di crisi in cui versa il Paese, si sta trasformando in manodopera a bassissimo costo, nonché l’assicurazione di un mercato per i loro prodotti, su tutti quelli agricoli, privando il Paese anche della propria sovranità alimentare.
Il Governo di Peña Nieto e la privatizzazione dell’energia.
L’attuale governo di Enrique Peña Nieto, in linea con i precedenti, ha effettuato di recente la privatizzazione di un altro dei settori sensibili del Paese, quello dell’energia, che ha consentito l’ingresso nel mercato messicano di nuovi operatori, sia locali che stranieri, sancendo la fine del monopolio detenuto sin dal 1938 dalla compagnia petrolifera di Stato “Pemex”.
In particolare, la nuova legge instaura un regime di libera concorrenza tra aziende pubbliche e private permettendo alle stesse di partecipare attraverso la stipula di contratti profit-sharing alle diverse fasi di individuazione, estrazione, raffinazione e distribuzione di petrolio e gas messicano, con l’obiettivo di garantire un maggiore sviluppo del Paese e un’adeguata crescita economica attraverso un più appropriato sfruttamento del comparto energetico che, senza dubbio, rappresenta una delle principali fonti di reddito per il Messico che è una delle maggiori potenze petrolifere mondiali. Tra le priorità del governo vi è quella di migliorare l’economia delle famiglie per mezzo di un dimezzamento dei costi dell’energia di luce e gas, di aumentare gli investimenti stranieri, di rafforzare Pemex e la Commissione Federale di Elettricità (CFE) che continueranno a rimanere imprese statali al 100% e di rinforzare il rettorato dello Stato come regolatore e come proprietario dell’industria petrolifera.29
Secondo molti analisti, la privatizzazione di tale settore di così grande importanza strategica rientrerebbe in un disegno di più ampia portata avviato ormai da anni e i cui punti cardine, utili a definire in modo assoluto il perimetro della sicurezza statunitense, consisterebbero nella privatizzazione del comparto delle telecomunicazioni (indubbiamente prioritario per la sicurezza di uno Stato), nell’ingresso del Messico all’interno del NORTHCOM e, da ultimo, nella privatizzazione energetica. È chiaro, infatti, che tale politica andrebbe ad erodere ulteriormente la sovranità nazionale del Paese attraverso la privazione di una delle maggiori ricchezze in suo possesso. Ciò in quanto se, come previsto, le grandi compagnie petrolifere otterranno concessioni massive per l’esplorazione del petrolio e del gas matureranno, per l’effetto, un maggiore controllo e potere sul territorio, sia di carattere politico che economico.
Tale ricostruzione critica non è peregrina se si tiene conto – come già sottolineato in apertura della presente trattazione – dell’ubicazione geografica del Messico che condivide 3.152 chilometri di frontiera con gli Stati Uniti. L’ubicazione e la condivisione di frontiera, unitamente alle potenzialità del Messico, sono elementi che potrebbero condizionare la sicurezza del potente vicino statunitense che oggi, ancora più che in passato, è posta in discussione da quell’ondata di cambiamento che nell’ultimo periodo sta interessando la regione latinoamericana resasi protagonista di massicci processi di integrazione (MERCOSUR, UNASUR, CELAC, ALBA) e dall’importante ruolo assunto dalle risorse energetiche per la rinascita della regione, per la sua ritrovata sovranità e per la collocazione sullo scacchiere internazionale.
Per gli Stati Uniti, dunque, il Messico rappresenta una leva fondamentale per riuscire a contenere e controllare la crescita di questo nuovo blocco geopolitico e geoeconomico che è venuto a costituirsi in quello che da sempre è stato considerato un loro “spazio vitale”, qualificato dagli stessi come “cortile di casa”. Prova di ciò è la costituzione dell’Alleanza del Pacifico di cui fanno parte Messico, Colombia, Perù e Cile e che vuole porsi come contrappeso rispetto ai citati MERCOSUR, UNASUR, CELAC, ALBA. In particolare, tale alleanza è stata edificata su uno schema di integrazione conosciuto nella letteratura economica come hub e spoke30. Tale schema prevede che il Messico, con il suo ruolo di secondo attore regionale in termini di PIL dopo il Brasile, funga da economia dominante (hub) mentre Colombia, Perù e Cile da economie satelliti (spoke). I quattro Paesi, già membri dell’ALCA, stanno strutturando questa nuova alleanza sullo schema di quest’ultima ma, mentre in quel caso gli Stati Uniti esponendosi direttamente fungevano da economia dominante e gli altri erano satelliti (ivi inclusa l’economia canadese), in tale occasione sarà il Messico a fare da capo cordata, o da testa di legno degli Stati Uniti nella regione, supportato dal Cile, Colombia e Perù che continueranno a svolgere il ruolo di satelliti di tipo commerciale, il primo, e militare, i secondi.
La presenza di Messico e Stati Uniti dovrebbe restringere i margini di manovra della strategia brasiliana e venezuelana di integrazione sia a livello di MERCOSUR che di UNASUR e ALBA. Secondo molti, l’Alleanza del Pacifico avrebbe inoltre un altro ruolo importante da svolgere, ovvero quello del “nuovo monroismo” statunitense per contenere l’avanzata all’interno del continente di un’altra nuova potenza mondiale, la Cina. Tale alleanza, infatti, rientrerebbe nella strategia Pacifico-Asiatica degli Stati Uniti come strumento difensivo di contenimento, dal momento che lo strumento offensivo che detengono nella contrapposizione è rappresentato dal Trans Pacific Partnerschip31.
In definitiva, appare chiaro come in un tale contesto, ove il Messico dovesse fuoriuscire dall’orbita statunitense, costituirebbe una seria e potente minaccia, non soltanto per i sopraindicati interessi geopolitici statunitensi, ma anche per l’influenza che potrebbe imprimere sui latinos presenti in USA.