Il Mestiere dello Scrittore: un Viaggio Oltre l’Infinito

Creato il 20 settembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Quando si scrive il difficile è l’inizio, e quanto sia difficile lo sa solo chi scrive. Non lo sa chi blatera, chi deride, chi copia; non lo sa chi legge, né chi ascolta, chi se ne frega o chi rinuncia. Non è presunzione sia chiaro, ma vi è un tremore interno tutto personale, quando si scrive, che solo chi scrive sa. È un sapere tacito, del tutto intimo, che guida chi armeggia con vocali e consonanti, già perché devi starci attento, non puoi mica mettere tutto alla rinfusa e gettarlo lì, pronto alla lettura disinteressata e svogliata; sapete, credo che sia proprio come un lungo parto lo scrivere, prima del quale selezioni con cura di cosa nutrirti. Ti nutri bene per concepire un figlio sano, che possa godere di questo mondo e di questa vita; poi, quando cresce, lo metti in guardia da quel mondo che gli hai voluto garantire, perché lo sai anche tu, che ti cingi tanto per sbandierare il tuo fardello bianco al cielo, che canti la mattina appena sveglio, anche tu che mai leggerai per sbaglio questi frammenti di esistenza, lo sai, che l’innocenza è solo una bella bugia del tempo. Il testo è nostro figlio, il tempo l’uomo nero, perché spesso, la sua inadeguatezza, occulta molti prodotti dell’uomo, li fossilizza e non sempre li restituisce all’eterno; o per lo meno, lo fa lentamente, per uno strano dispetto che si usa concedere. È così, il tempo fa strani scherzi, s’inventa strani giochi e ama intraprendere strani viaggi, eppure è il sale dei nostri giorni passati, a cui aggiunge veli di nostalgia, di miseria e di grandezza. Noi che scriviamo, con il tempo abbiamo uno strano rapporto, le ore sembran minuti, volano via tra l’incertezza che t’assale rileggendo il testo, tra le sigarette infinite che bruci con passione, smembrandole sino al filtro, prosciugandone le interiora, o durante improvvisi attimi di incompiuto, e stai lì, immobile con gli occhi seri, trasognati, e vedi le parole successive fuggir via, quasi spaventate da chissà cosa, e ti alzi e ti siedi.

Non si sta del tutto fermi quando si scrive, si muove il corpo quando la mente si prende una pausa da se stessa, allora esce a fare due passi, prende un po’ d’ossigeno per poi immergersi nuovamente nel travaglio dell’immaginario, in apnea, nei mari della trascendenza, il corpo allora sta fermo ed è la mente a viaggiare, a dimenarsi, a tentare di sopravvivere all’assoluto mutismo di congiunzioni, pronomi e avverbi, a nomi comuni e superlativi. Non sono affatto leggere, le parole. Ognuna è un’entità viva che rivendica propri diritti e opportunità, vogliono esser partecipi della creazione, dell’atto, della trasmissione dal pensiero al concetto. Prende vita il testo, così, a poco a poco, passo dopo passo, nell’armonia di questi eventi mentali e non, e cresce, riempiendo quel bianco che dapprima era l’unica sede dell’idea, la zona dell’incompiuto temporaneo, l’isola da cui si parte, da cui ci si allontana e a cui si fa sempre ed inevitabilmente capolinea. Forse siamo tutti degli Ulisse, noi che scriviamo. Ogni volta che s’intraprende un nuovo progetto o viaggio, se preferite, siamo sempre lì, con gli occhi già lontani verso chissà quali mari, ma con i piedi ancora saldi alla nostra Itaca. Itaca è come quel foglio bianco, da cui si parte e a cui si ritorna sempre, il viaggio è tutto ciò che c’è nel testo e ciò che nel testo non c’è, ciò che è scritto e ciò che invece emerge spontaneamente dalle sfumature, dalle percezioni. Noi catturiamo immagini, suoni e volti, catturiamo la vita che nessun altro vi potrebbe narrare, ve la confezioniamo. Ci prendiamo cura di voi, dall’inizio del viaggio sino alla sua fine, vi culliamo prima di cedervi ai rumori sottili della notte e vi attendiamo, volta per volta, sempre pronti a garantirvi un posto, prima dell’ennesima ripartenza. Ai libri questo direi, di non aver timor d’abbandono, a voi, cari lettori, non abbandonateli.


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