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Recensione. LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET: purtroppo, il solito Jeunet

Creato il 02 giugno 2015 da Luigilocatelli

Recensione. LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET: purtroppo, il solito JeunetLo straordinario viaggio di T.S. Spivet di Jean-Pierre Jeunet. Con Helena Bonham-Carter, Callum Keith Rennie, Kyle Catlett, Judy Davis, Keith Rennie.
Recensione. LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET: purtroppo, il solito JeunetArriva nelle sale itraliane con quasi due anni di ritardo l’ultimo film di Jean-Pierre Jeunet, il regista di Amélie e Delicatessen. Racconto di formazione e autoconoscenza di un bambino di nome T.S. Spivet, un piccolo genio sempre alle prese con invenzioni e scoperte. Ma anche con un trauma con cui fare i conti. Peccato che Jeunet sovraccarichi e saturi il film di oggetti e segni visivi, finendo col soffocare i suoi personaggiu. Voto 4 e mezzo

Sorprese – please, non chiamiamole volgarmente saldi – di fine stagione. Film di cui non pensavi potesse esserci una distribuzione italiana, film dispersi nella nebbia da anni, film di cui non immaginavi l’esistenza, eccoli materializzarsi in qualche città, secondo una geografia anche bizzarra e capricciosa. Andando a occupare le sale lasciate libere dalle grosse produzioni acchiappasoldi, visto che le regole del buon mercato esigono che non si buttino fuori cose di peso quando la gente va al mare e diserta i cinema (e le urne). Film-squatters che, rimasti a lungo nell’ombra, fuoriescono e vanno a installarsi nei palazzi vuoti dei ricchi. Son di solito piccoli titoli, e fragili, cui verrebbe voglia di voler bene, e però a questo Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet (uscito in Francia già nell’autunno 2013, e calcolate voi il ritardo) io a voler bene non ce la faccio. Forse perché tanto piccolo non è – trattasi di produzione in prevalenza canadese di consistente budget – e perché dietro alla macchina da presa c’è un regista, anzi un autore (nel bene nel male) che non amo come Jean-Pierre Jeunet, il quale nemmeno stavolta riesce a farmi cambiare idea. Jeunet, ovvero lo sciagurato che ha messo in piedi quell’orrore kitsch chiamato Il favoloso mondo di Amélie, con una missionaria del bene più intollerante e feroce, nel suo fanatismo, di Hessa delle Sextruppen. Sì, lo so che per via di Delicatessen Monsieur Jeunet gode di solida fama presso molti cinefili, adorato quale maestro del cinema fantastico e visionario. Ma per me resta il regista di un cinema-bric à brac insopportabilmente childish e giocattolesco, regressivo e infantiloide, che toglie vita e anima ai suoi personaggi per imbalsamarli in una galleria di mummie. O infilzarli come in una vetrina di coleotteri e lepidotteri da museo delle scienze naturali, da gabinetto positivista ottocentesco. Che poi, quello dell’entolomogo anzi dello specialista in coleotteri è precisamente il mestiere-passione di uno dei personaggi chiave di Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, la mamma del protagonista, interpretata da una Helena Bonham-Carter che si ostina a frequentare caratteri bizzarri alla Tim Burton anche dopo la separazione da lui (vedere anche Cenerentola). Si fatica a capire perché Jeunet abbia girato questo film, visto che di quanto il plot racconta non gli importa visibilmente granché, e per lui la storia – tratta da un bestseller per bambini di un certo Ralf Larsen di cui, scusate, so poco o niente – diventa subito un pretesto per allestire i suoi immaginifici e affollatissimi set, un icongegno generatore, in una sorta di cieco automatismo, di gadgetterie e ruminanti meccanerie. T.S., così chiamato anche in casa, è un ragazzino di dieci anni che vive con papà-cowboy, mamma entomologa e sorella maggiore ansiosa di diventare un a bbona da Miss America, in una fattoria lassù nel Montana, esattamente sul divide continentale, sullo spartiacque tra il versante atlantico e quello pacifico. È un piccolo genio che vorrebbe entrare nella storia deal scienza al pari du un Einstein o di un Galilei, sempre affannato in studi e scoperte e progetti matti. Con però dentro un gran trauma da smaltire, la morte per scoppio di un fucile del fratello gemello (eterozigote) Layton, morte di cui si sente oscuamente responsabile. E gli manca quel gemello, quell’altra parte di sé, che era forte e coraggioso quanto lui è fragile e portato, più che alle attività da piccolo cowboy, a quelle da piccolo fisico e chimico. Incredibilmente, con un suo progetto sul moto perpetuo vince un concorso dello Smithsonian Museum di Washington, solo che non immaginano sia un bambino, e allora che fare? Un bel giorno T.S. decide di scappare di casa, di andare a Washington a ritirare il premio e fare il suo bel discorso, rivelando di essere lui il genio che sta dietro a quella macchina. Prima il treno, poi l’autostop, in un’avventura che è racconto di esplorazione, formazione, autoconoscenza nella più solida tradizione americana degli Huckleberry Finn e Tom Sawyer. Ma che è anche, in linea con gli psicologismi attuali, un viaggio-discesa di T.S. nel trauma da gemello scomparso per poterne risalire e guarire. Che sarebbe potuta diventare la parte più interessante del film, se Jeunet non avesse soffocato e affogato il protagonista e i suoi tormenti nella solita pletora di oggetti e immagini, nella sua baroccaggine compulsiva. Puro horror vacui. Cinema senza movimento, scomposto in una stringa di immagini quasi-fisse, di tableaux sempre meno vivants e più devitalizzati, messi in fila senza un vero progetto narrativo e un credibile sviluppo drammaturgico. Quando T.S. per sottrarsi a un poliziotto che gli dà la caccia (siamo in pieno Dickens, e un po’ anche in Hugo Cabret di Scorsese), si finge parte inanimata di una composizione pubblicitaria, rivela la stessa essenza del cinema di Jeunet: togliere ogni slancio, ogni pulsazione ai personaggi per farne puri oggetti, presenze di un inquietante e funereo diorama. Certo, sarebbe disonesto non riconoscergli la capacità di produrre immagini mirabolanti e messinscene fantasmagoriche (Jeunet è davvero più un metteur en scène che un réalisateur, se vogliamo contrapporre i due termini che in francese stanno per regista). Ma, viene da chiedersi, che cinema è mai questo, inesorabilmente entropico, devitalizzato? Difatti le parti più compatte e coerenti, e riuscite, sono le più sepolcrali, quando Jeunet riproduce mondi morti o sepolti, e pezzi del passato (la stanza tutta cuoio e animali imbalsamati amata dal padre di T.S., il laboratorio della mamma entomologa, le meccaniche arrugginite e le ferraglie dei treni, delle stazioni, delle fabbriche abbandonate), mentre il film si perde definitivamente quando è costretto a misurarsi con la contemporaneità. Tutta la parte ultima del talk show televisivo è tremenda, con Jeunet come a disagio con le immagini immateriali e le tecnologie della comunicazione tv così lontana dai suoi adorati antri vintage e rétro (vedi anche il suo precedente L’esplosivo mondo di Bazil). Costretto a muoversi per tutto il film in sequenze ipersature di segni visivi, in ambienti sovraccarichi e ingolfati che lo fagocitano e lo annientano, il povero T.S. finisce col diventare pure lui cosa tra le cose. Figiurina bidimensionale e ritagliata di un libro-pop up, di quelli che Jeunet, tanto per non farsi mancare niente, tira fuori per scandire i capitoli della storia.


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