di Francesco Gori
Il 18 febbraio 1967 nasce a Caldogno Roberto Baggio, il Divin Codino che ha incantato il mondo del calcio con magie da fuoriclasse assoluto dagli anni Ottanta fino al ritiro, avvenuto nel 2004.
D’obbligo assegnare a Roberto Baggio la palma di “miglior calciatore italiano di tutti i tempi”. Se facciamo un salto indietro nel tempo, Silvio Piola, Giuseppe Meazza, Valentino Mazzola (capitano del Grande Torino), Giacinto Facchetti e Gianni Rivera sono i nomi che più di tutti possono competere per il primo gradino di questa speciale classifica. Personalmente non li ho mai visti giocare – è dunque legittimo metterli in secondo piano rispetto ad un genio vissuto dal vivo -, ma la loro leggenda arde ancora, ben documentata. In tempi più recenti, Francesco Totti e Alessandro Del Piero sono gli altri nomi in lizza. Ma non me ne vogliano i supporters di tali fenomeni del calcio: come Sanremo è Sanremo, Baggio è Baggio. Roberto è stato il Maradona italiano – anche se qui stiamo parlando di un destro, non di un mancino -, l’esteta col pallone attaccato ai piedi, colui che non potevi non applaudire, persino da avversario. Tecnica sopraffina, fantasista dal gol facile, magistrale sui calci di punizione, imprendibile per le difese. “Un 9 e mezzo”, lo definì Platinì. E anche quando citiamo il cast planetario del pallone – Di Stefano, Puskas, Pelè, Garrincha, Cruijff, Zico, Maradona, Ronaldo, Messi… – io ci metto anche Roby Baggio, il Divin Codino.
Da tifoso viola, ricordo bene gli sfavillanti anni fiorentini e la sua ascesa agli onori delle cronache, nonostante le ginocchia fragili. E drammatico per il tifoso del Giglio, constatarne la cessione all’odiata Juventus nel 1990, nell’era Pontello. Firenze si ribella alla cessione del suo n.10, che però passa in bianconero. Proprio prima dei mondiali di casa, Italia ’90, quando la sua serpentina contro la Repubblica Ceca lo consacra agli occhi del mondo.
Già, la Nazionale. Anche i grandi possono sbagliare. È ciò che accade al ragazzo di Caldogno nella finale dei mondiali del 1994, quando calcia alto il rigore della speranza contro il Brasile, dopo aver trascinato gli azzurri di Arrigo Sacchi. Amara Nazionale: quella che nel 1998, nell’anno del dualismo con Del Piero, ferma il proprio cammino agli ottavi; quella da assente ingiustificato nel 2002 della disfatta con la Corea, quando un cocciuto Trapattoni gli nega la gioia della convocazione, dopo una stagione d’oro a Brescia e un infortunio recuperato a tempo di record.
Roberto Baggio ai tempi del Brescia – zazoom.it
Ma torniamo alla carriera nei club. Alla Juventus, Roberto Baggio miete successi, tra cui uno scudetto, consolidandosi tra i più forti al mondo e vincendo nel 1993 il Pallone d’Oro. Una caterva di gol e qualche polemica con i tifosi, come nel 1991, quando in occasione della partita contro la sua ex Fiorentina, raccoglie una sciarpa viola gettata da un tifoso. L’idillio a Torino si spezza nel 1995. La parentesi rossonera è tra le più avare di soddisfazioni, quella col Bologna due anni dopo ben più florida, tanto che Massimo Moratti lo porta in nerazzurro. Milano non gli porta proprio fortuna: è l’Inter sperpera-denaro-inutilmente, poi arriva Lippi, che si scontra con la personalità del codino. Baggio regala all’arroganza di Marcello la Champions League, e se ne va da gran signore qual è. Inizia gli anni Duemila in quel di Brescia, un’oasi nella quale vive gli ultimi anni di ritrovata giovinezza, accanto alla guida perfetta di Carletto Mazzone. Le rondinelle, sotto la guida di Roby, si salvano in quegli anni senza problemi, ma il 4 febbraio del 2002 le deboli ginocchia del n.10 fanno di nuovo crack. La lesione al crociato recuperata in soli 77 giorni è l’esempio più lampante della forza interiore di Roberto Baggio, uomo straordinario per dote naturale e sacrificio quotidiano. In Corea il fallimento azzurro sarà colpa di Trapattoni più che dell’arbitro Moreno, e l’eliminazione per mano del golden gol di Ahn la giusta punizione all’indifferenza del CT alla chiamata del capitano del Brescia.
Ho ricordato così, quell’infausto 28 aprile 2004, giorno dell’addio in azzurro:
“… Era l’ultimo incontro di quello che per me e per molti era un grande. Un idolo calcistico. Era l’addio alla nazionale, il “tolgo la scena”, il saluto di Roberto Baggio: il più grande giocatore italiano degli ultimi vent’anni. Per lo meno da quando seguivo il calcio. Roberto Baggio è Roberto Baggio. Anche adesso che non gioca più. Classe cristallina nei piedi e nella testa. Un calciatore-uomo o meglio un uomo-calciatore che mi incantava per giocate e personalità. Per la grande forza interiore, quella ad esempio che in soli settantasette giorni riuscì a farlo recuperare da un brutto infortunio, in tempo per rispondere all’eventuale convocazione della nazionale per l’imminente mondiale. Peccato che la convocazione non arrivò. Un esempio della volontà umana che a volte può varcare limiti impensabili. Ogni volta che lo vedevo, da giovane con la maglia viola, nel fiore degli anni con quella dei “gobbi”, da maturo con quella delle rondinelle, beh, rimanevo sempre stregato dalle magie di Roby. Non potevo che gioire dei suoi gol, mai banali, anche se segnava contro la mia Fiorentina. Chi ama il gioco del calcio, ama i grandi giocatori, i grandi numeri 10: Di Stefano, Pelè, Zico, Maradona, Baggio, Zidane, Ronaldinho. Anche se giocano contro i tuoi e magari ti seppelliscono di reti e giocate. Quella sera era il congedo di Roby. L’ultima chiamata per salutare il genio che va in pensione. Quella sera Roby andò vicino alla rete che tutti volevano che segnasse. La sfiorò. E questo bastò per riempire il cuore dei suoi tifosi.” (Hasta luego Siviglia, XX, pp. 105-106).
Pochi giorni dopo, l’estremo saluto al calcio giocato.
Da uomo di spessore – mai sopra le righe, esempio in campo e fuori, praticante buddhista -, nella seconda vita il Mozart del pallone diventa ambasciatore FAO e rappresentante della pace nel mondo.
Chapeau, Roberto.