Cap. 9Pensate un po’ per due giramondo così, rimanere rinchiusi in città, immaginiamo zitti zitti a non raccontare nulla di quanto era loro occorso per non farsi soffiare le opportunità, si direbbe oggi e intanto a far piani per i futuri affari, cosa importare, cosa portare laggiù, da che parte tirava il mercato, magari accogliendo in città vecchi clienti con cui intessere nuovi rapporti di affari con le merci che si prevedeva di portare a Venezia a miglior prezzo. Chissà come, questa città ha mantenuto fino ad oggi un aura magica per tutti gli stranieri, siano Russi, sian Cinesi, la prima cosa che volevano andare a venere, arrivati in Italia e comprati alcuni paia di scarpe, era proprio la città della laguna. Mi ricordo che un anno ci sono andato ben undici week end ad accompagnare delegazioni composte da stanchi bietoloni e sognanti accompagnatrici che fremevano alla vista del Canal Grande. Avevo un giro fisso, tagliando per zone meno affollate e finendo invariabilmente in Piazza San Marco dove la comitiva non poteva che rimanere a bocca aperta davanti al duomo ed allo splendore della piazza. Le femmine si giravano attorno con occhi sognanti e mi lanciavano un languidissimo -spassiba Enrico- mentre illustravo loro l’armonia delle alternanze di vuoti e di pieni nelle ombre della facciata e nelle scansioni ordinate delle finestre sansoviniane, appoggiandosi turbate al mio braccio, mentre i vari presidient di turno annuivano col capo e grugnendo chiedevano dove stava il Danieli. Finivamo in quella meravigliosa hall a prenderci un aperitivo e tutti rimanevano basiti dai sapori d’Oriente che scivolavano lungo i mosaici e le arcate moresche. Questa città ha sempre fondato la sua fortuna su queste commistioni tra Europa e Asia, sulle occasioni e le ricchezze che offrono la mancanza di frontiere e l’apertura alle diversità del mondo. Che mondo fantastico allora, gente che percorreva tutto il Mediterraneo senza barriere, le idee giravano e si rinvigorivano in un fermentare sano e produttivo e privo di paure. Non avrebbero attecchito allora certe idee che portano solo a chiusure capaci di ottundere ogni vigore, a tagliare le opportunità, a rimanere soltanto col puzzo di fogna che sale dai canali e ingombra le menti. Il camminare per calle e callette segrete e poco popolate non deve essere però cambiato rispetto ad allora e la nebbiolina condita di odore di acqua morta di certe giornate di novembre sarà rimasto lo stesso che vedeva il giovane Marco, che sognava di seguire padre e zio, non appena avessero avuto notizie buone dal Conclave in atto. Chissà cosa mangiavano i Polo, certamente piatti ricchissimi di spezie (per attutire la puzza delle carni mal conservate), che tra l’altro erano appunto uno dei business migliori dell’epoca, ma di questo di certo ci renderà edotti la brava Acquaviva che in gran segreto sta testando un piatto d’epoca. Io invece me li portavo sempre in qualche trattoria tipica, i miei ospiti, cercando di sgusciare alla meglio tra i siluri che i ristoratori lagunari sono abituati a tirare ai mercanti di passaggio. Mi ricordo una volta il mio capo, che portò tre pezzi grossi in un grazioso localino, strizzò l’occhio al cameriere dicendogli:”Mi faccia fare bella figura” e quando dopo il trionfo di pesce chiese il conto, eravamo nel ’95, gli arrivò un fogliettino scritto a mano con su Lit. 1.800.000 per sei persone. Diede del ladro matricolato al gestore, sorridendo continuamente per non farsi capire dai russi che scolavano gli ultimi calici di Cartize dandosi gran pacche sulle spalle, ma in risposta ebbe solo un allargar di braccia e un: “Me gaveva dito de farle far bela figura…” e subito fu trascinato sulla gondola dove già attendeva il mandolinista.
Li due frategli, udendo ciò pensarono di andare in questo mezzo a Vinegia per vedere loro famiglie e quivi trovò Messer Nicolao che la sua moglie era morta e erane rimasto uno figliolo di 15 anni ch’avea nome Marco e li due ristettero a Vinegia due anni aspettando che lo novo papa li chiamasse.
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