Il minatore italiano
Il Belgio è una monarchia costituzionale situata nel cuore del continente, nonché sede dei più importanti organismi dell’Unione Europea (Eu), tra i quali la Commissione, il segretariato generale del Consiglio e, in condivisione con Strasburgo, il parlamento europeo, essendo da quarant’anni uno dei più grandi promotori dell’integrazione europea.
Il paese ha scelto di adottare un federalismo unico nel suo genere, in cui che vede una complessa interazione tra stato, regioni e comunità. Il Sud del Belgio è abitato dalla comunità francese che, per la quasi totalità, coincide con la regione della Vallonia, nella cui parte orientale è situata anche la comunità germanofona, anch’essa riconosciuta a livello politico istituzionale. La regione delle Fiandre, a nord, è invece abitata prevalentemente dalla comunità fiamminga. La capitale Bruxelles costituisce poi una regione a sé.
Cosa lega dunque l’emigrazione italiana del secondo dopoguerra al Belgio? Il carbone della Vallonia, ritenuto provvidenziale per la ricostruzione dell’Europa in quegli anni di scarsità delle fonti energetiche.
Così venne firmato a Roma, il 23 Giugno 1946, un trattato d’emigrazione tra i due paesi, in cui veniva assicurata una determinata quantità di carbone per ogni minatore che sceglieva di emigrare in quella regione. Il lavoratore doveva essere sotto i trentacinque anni d’età ed in perfetta salute. Si partivano con un treno da Milano al martedì sera, su cui veniva effettuata la vista medica e la firma del contratto della validità di un anno.
Il governo belga aveva optato per una politica di immigrazione flessibile e a breve termine della manodopera, una sorta di stop and go della forza lavoro soggetta agli andamenti di mercato. Ad ogni rallentamento dell’economia e del conseguente ristagno dell’occupazione interna, l’immigrazione veniva bloccata ed i contratti non rinnovati.
Ovviamente le drammatiche condizioni di vita in questi bacini industriali ed il lavoro in strutture ormai logore vennero taciute, e nel 1947 il nostro governo decise di firmare un secondo accordo, assicurando un cospicuo afflusso di uomini, sino alla catastrofe mineraria del Bois-du-Cazier a Marcinelle, 8 agosto 1956, motivo per cui venne abbandonata l’immigrazione ufficiale.
Questo non fermò l’ondata migratoria verso il Belgio, ed i lavoratori iniziarono a percepire i contratti come più giusti, essendo direttamente negoziati da loro stessi e non da un intermediario ( in questo caso lo stato). Una caratteristica degli emigrati italiani fu l’associazionismo, e gli stretti legami mantenuti con la comunità avente la stessa provenienza.
Nella maggioranza delle famiglie è stato mantenuto l’uso del dialetto, dato che la quasi totalità della manodopera era composta da ex contadini in fuga dalla terra, che trovò sbocco come operai non specializzati. Questa minoranza, dal punto di vista dei comportamenti sociali, appare come un gruppo meno problematico di altri; eppure gli italiani non possono ancora essere classificati come “invisibili”, cosa che accade per ogni ceppo definitivamente integrato. Ovviamente questa è una generalizzazione; ormai il cliché dell’italiano minatore è in via di estinzione ( anche a causa della chiusura dei giacimenti di carbone a fine anni Ottanta), per favorire un appiattimento sociale per quel che riguarda la terza generazione.
Camminando per le aule universitarie sarà facile incontrare giovani ingegneri, nipoti di siciliani emigrati cinquant’anni fa, quasi completamente mimetizzati, ma facilmente riconoscibili per il forte accento siculo se istigato a parlare italiano.
Alcune famiglie hanno invece deciso di abbandonare la lingua d’origine, allora non ritenuta come socialmente accettabile, e per favorire l’integrazione dei figli, soprattutto durante le loro primissime esperienze scolastiche. Questi bambini hanno dovuto imparare a relegare l’italiano in ambito domestico, soprattutto come necessità comunicativa nei confronti dei più anziani. Infatti sono stati i nonni, con il cibo e le storie della loro terra d’origine, a mantenere viva la cultura italiana nella mente dei nipoti.
Ci sono anche esempi di isolazionismo nei confronti della società belga; persone arrivate con la prima ondata di migrazioni che si sono sempre rifiutate di adattarsi e costruirsi una seconda casa, continuando ostinatamente ad evitare il francese, anche in ambito lavorativo. Questo perché la comunità italiana, cosi forte, compatta e numerosa, glielo ha sempre permesso.
Col passare del tempo i legami sono sempre più sottili, limitandosi a visite annuali o biennali.
Ogni volta che questi ragazzi, figli di una preziosissima doppia cultura, fanno un viaggio nel paese d’origine, incontreranno immancabilmente qualcuno con dei conoscenti in Vallonia, a cui dovranno assolutamente porgere i saluti.