Greenpeace, Legambiente e WWF si appellano a Corrado Clini ministro dell’Ambiente affinché non ceda alle pressioni dei petrolieri sulle trivellazioni
“Cedere alle pressioni dei petrolieri per cancellare la zona di interdizione di 12 miglia dalle aree protette marine costiere per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare , sarebbe come considerare carta straccia quel principio di precauzione che venne sancito proprio nel 1992 a Rio de Janeiro, per prevenire i danni ambientali e porre un limite alla rapina delle risorse ambientali. Cedere alla richiesta dei petrolieri metterebbe a rischio le popolazioni costiere e settori economici importantissimi per l’Italia come quelli del turismo e della pesca che vivono delle risorse marine. Un intervento che rappresenterebbe un ulteriore e ingiustificato passo in favore delle trivellazioni offshore, dopo che l’attuale versione dell’articolo 35 del decreto Sviluppo di fatto sblocca tutte le richieste, i permessi di ricerca e le concessioni precedenti al giugno 2010 che la modifica al codice dell’Ambiente aveva bloccato”. Queste le valutazioni delle associazioni ambientaliste Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia che chiedono al ministro dell’Ambiente Clini di non cedere al pressing del mondo industriale (in questi giorni si sono susseguite dichiarazioni del vicepresidente di Confindustria Aurelio Regina, del presidente dell’Unione Petrolifera Pasquale De Vita e dell’amministratore delegato dell’ENI, Paolo Scaroni) finalizzato a vedere cancellato nell’atteso decreto sviluppo la fascia di interdizione a tutela dell’ambiente marino e costiero, sancito con una modifica del Codice dell’ambiente del giugno 2010 dopo che nel Golfo del Messico s’era verificato nell’aprile 2010 il gravissimo incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, il disastro ambientale più grave della storia americana, come l’ha definito l’Oil Spill Commission (la commissione del governo USA che ha indagato sul disastro). “Il ministro Clini faccia prevalere quel principio di precauzione sancito nel 1992 a Rio de Janeiro” I petrolieri, osservano gli ambientalisti, vorrebbero così una contropartita all’aumento, previsto a quanto risulta nel decreto sviluppo, del 3% sulle royalties legate alle attività di coltivazione (l’aliquota oggi in Italia oscilla tra il 7% e il 4%, a seconda che si tratti di idrocarburi gassosi o liquidi estratti in mare, mentre in terraferma è del 10%) scordandosi che nel resto del mondo le aliquote oscillano dal 20% all’80% del valore del prodotto estratto e che l’industria estrattiva nel nostro paese gode di uno scandaloso regime di esenzioni e il costo delle concessioni per la coltivazione è risibile: 1. non vengono pagate allo Stato le aliquote sulle prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma e le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, come i primi 25 milioni di smc di gas in terra e i primi 80 milioni di smc in mare; 2. le concessioni di coltivazione, sia pur adeguate nel tempo, partono, a valori 1996, dalle 5 mila lire a Kmq per i permessi i prospezione, alle 10 mila lire a Kmq per i permessi di ricerca, alle 80 mila lire a kmq per i permessi di coltivazione. Questo significa in concreto che su 136 concessioni di coltivazione in terra di idrocarburi liquidi e gassosi, attive in Italia nel 2010, solo 21 hanno pagato le royalties alle amministrazioni pubbliche. Su 70 coltivazioni a mare, solo 28 le hanno pagate. Su 59 società che nel 2010 hanno operato in Italia solo 5 hanno pagato le royalties. Solo questo regime speciale fa dell’Italia un Far West per i petrolieri: infatti il petrolio in Italia è poco e di scarsa qualità: la produzione italiana di petrolio equivale allo 0,1% del prodotto globale e il nostro Paese è al 49° posto tra i produttori. È per questo che gli ambientalisti definiscono l’Italia un paradiso per i petrolieri: nel 2011 sono 82 le istanze di permesso di ricerca e i permessi di ricerca di idrocarburi liquidi o gassosi in mare (74 dei quali nelle regioni del Centro-Sud, 39 nella sola Sicilia) presentati al ministero dello Sviluppo Economico; e 204 le istanze di ricerca e i permessi di ricerca in terra (89 al Nord pari al 44%, 61 al Sud, pari al 30% e 54 nel Centro Italia,pari al 26%).