Giorgio Luppino 1 aprile 2005
Mi chiamo Giorgio Luppino e di mestiere ho fatto il centrocampista. Di quelli tosti,molta corsa e pochi fronzoli. Questione di sostanza, la vita come il calcio, mi ripeteva mio padre mentre si ritornava dalla campagna verso casa. Mi chiamo Giorgio Luppino e quando sono arrivato a Catanzaro mi aspettavo fatica, sacrifici e un po’ di soldi per la vecchiaia.Ho trovato una vita, un popolo che da dieci secoli cercava un motivo qualsiasi per concimare l’orgoglio, una terra che si rialzava sulle nostre spalle. Erano gli anni ’70, qualcuno dice anni terribili, io mi ricordo soprattutto le grandi speranze e la fiducia in un futuro migliore. Finalmente giusto.La domenica correvo, falciavo, lanciavo, sudavo, lottavo e gli altri giorni mi perdevo per le strade, mi infilavo nei bar e nelle parole di questa gente.Io veneto e contadino riconoscevo le rughe, assaporavo il vino caldo del sud e diventavo un tifoso di questa terra. Ma lo sai, mi ripetevano tutti, lo immagini almeno che cosa significa per noi vincere con l’Inter, con il Milan, con la Juve? Lo studente mi diceva Luppino, quel pallone che parte dai tuoi piedi è un portatore volante di felicità collettiva, il politico comunista mi prendeva in disparte e mi spiegava voi non siete una squadra siete una speranza schierata su un prato verde, il meccanicomi abbracciava e mi raccontava di suo fratello che lavorava a Mirafiori ed ai cancelli agitava la sciarpa giallorosa e per dieci minuti non si sentiva né emigrato, né sfruttato, né incazzato, i vecchi mi svuotavano il bicchiere e salvaguardavano la mia forma fisica, mentre una città intera ripeteva: ne valeva la pena, aspettare tanto. Cha Cha Cha, capoluogo e serie A, come un ritornello che scardina il futuro, come un mediano che sradica il pallone dai piedi del centrocampista avversario, e lo sentivi tutto nella testa l’orgoglio che arrivava a zaffate, ne avvertivi l’odore che riempiva le strade come quando mio padre mi raccontava di quella volta che non avevano abbassato la testa davanti al padrone, quella volta che si erano ripresi la dignità e l’ignoranza. Siamo noi a far ricca questa terra, siamo noi la loro abbondanza, me lo sussurravo nella pancia dello stadio quando già percepivo il fremito della curva, quando l’adrenalina mi schizzava fino alla testa mentre mi infilavo in quella magliettina stretta stretta a righe gialle e rosse.Non ho mai capito il loro dialetto ma ho riconosciuto nei loro occhi quelli di mio padre. Lo stesso modo di guardare un campo e di scrutare nell’erba il tempo che viene. Qui ho smesso di fare un mestiere e sono tornato a essere un uomo. È vero, non vincevamo soltanto: li vendicavamo. Facevamo la rivoluzione in calzoncini rossi, con i parastinchi e con un numero sulle spalle. È vero ci divertivamo un sacco.Il calcio ormai lo seguo poco, mi fa un po’ tristezza, e in Calabria ci torno raramente, quando capita mi prende un’angoscia che poi non mi lascia più. Non è per la sporcizia o per la povertà che resiste al progresso, non è per gli abusi edilizi o per i piccoli soprusi che diventano ogni giorno più grandi, non è nemmeno per la mafia che si mangia la speranza, è che non vedo più negli occhi delle persone quella dignità che dava loro luce e incanto.Come se gli abitanti di questa terra si fossero arresi a un destino di quarta serie.Ci sono cose che non ho mai capito di Catanzaro. Tutto quel vociare della gente e poi quei silenzi assoluti su alcune vicende. Oggi è il primo di aprile, esattamente quarant’anni sono trascorsi da quando uccisero Luigi Silipo in una stradina del centro storico. L’ho scoperto alla fine dei miei anni giallorossi, quasi per caso. E nessuno ne sapeva nulla. Silipo, per tutti, era solo Fausto, il nostro terzino destro. I ragazzini e gli anziani, i ricchi e i poveracci recitavano a memoria Pellizzaro, Silipo e Maldera, Braca, Ranieri, Vichi e via dicendo, ma nessuno, mai nessuno che pronunciasse il nome dell’altro Silipo o del povero Malacaria, fatto a pezzi dalle bombe neo-fasciste. Solo i vivi, solo i forti, solo noi che vincevamo esistevamo per questa città. Ma la fuga dalla morte ora è una fuga dalla vita, e tutti si affannano a levare un pezzo di gloria a questa terra. Non c’è nessuna squadra possibile senza il sacrificio dei mediani, senza la dedizione dei terzini, senza il fiato delle ali, senza il supporto delle riserve. Non c’è nessuna vittoria possibile se ognuno gioca per sé.Il mio nome è Giorgio Luppino, amo gli stopper rudi e i mediani di fatica, le squadre di provincia ed i popoli oppressi, credo che le vittorie della mia squadra siano state impastate di umiltà, abnegazione e volontà, resisto sui gradini degli stadi di periferia e ricordo da solo, a mille chilometri di distanza, un comunista catanzarese ucciso quarant’anni fa.