Magazine Calcio
RACCONTO SCUDETTO
Anno 1970, la Sardegna entra in Italia. E lo fa prendendo a pedate una palla di cuoio. Non più pecorari, ma campioni di calcio. Il giorno della festa è il 12 aprile, quando, mentre la Juventus cade a Roma contro la Lazio dicendo addio ai propri sogni di gloria, Riva e Gori sconfiggono il Bari all'Amsicora (antenato del Sant'Elia, deve il nome al militare che guidò la rivolta delle città costiere della Sardegna contro i Romani del 215 a.C.). Le festa è grande, sa di riscatto, ed i festeggiamenti si protraggono per diversi giorni: celebrazioni pirotecniche, fiaccolate e clacson strombazzanti l'inno «Forza Cagliari». Persino i quattro mori sono in festa, Cagliari è la capitale del calcio.
Dietro il vittorioso epilogo si celano gli artefici dell'impresa. Gigi Riva, figlio adottivo della Sardegna, è la punta di un iceberg tenuto integro dalle parate di Albertosi e le diagonali di Martiradonna, parzialmente scalfito dagli inopinati autogol del prode Niccolai ma subito rimodellato da libero a sopresa Cera, inventato da Scopigno quale rimpiazzo dell'infortunato Tomasini. Il progetto, però, è tutto di Arrica: cede Boninsegna all'Inter, perché a forza di pestarsi i piedi con Riva ce li ha pieni di calli, e veste di rossoblu Domenghini e Gori e Poli. Nené, brasiliano di Sardegna, si riscopre centrocampista di qualità dopo il fiasco juventino; a fargli compagnia in mediana c'è Ricciotti Greatti. Zignoli fluidica, assieme a Mancin, mentre Brugnera sta in panchina perché, come dice Scopigno, «ha il culo stretto, e così stiamo più comodi» e fa compagnia al secondo portiere Reginato ed a Nastasio, protagonisti marginali sul campo ma rilevanti in spogliatoio: quello del Cagliari è un gruppo di cemento, forgiatosi tra poker, sigarette e cene al ristorante Corallo.
La cavalcata verso lo scudetto inizia alla quinta giornata, con il successo esterno sulla Fiorentina. I viola sono campioni d'Italia, l'anno prima si sono imposti con quattro punti di vantaggio proprio sul Cagliari, ma Lo Bello accorda prima un dubbio rigore che Riva trasforma e poi annulla un gol ai padroni di casa: l'arbitro sgattaiola via dal campo scortato dalla polizia, il Cagliari fugge in cima alla classifica inseguito da Fiorentina ed Inter. I rossoblu guidano agevolmente il campionato, in vetta al quale avevano concluso anche il girone d'andata l'anno precedente, ma in dicembre sbandano a Palermo: sconfitti 1-0 con rete di Troja, l'arbitro Monti annulla un gol su punizione a Riva per un ininfluente fuorigioco di Martiradonna; Scopigno dà di matto e ne dice di tutti i colori al guardalinee, rimedia cinque mesi di squalifica - poi ridotti - ma profetizza ai suoi: «Se non perdiamo a Bari domenica prossima, vinceremo lo scudetto». Va così, ma le peripezie del Cagliari non sono certo finite. La prima in ordine cronologico è l'infortunio del libero Tomasini, cui salta il ginocchio contro la Sampdoria nella prima di ritorno: Scopigno, saggiamente, arretra Cera in difesa al fianco dello stopper Niccolai, inserisce Brugnera a centrocampo, e la squadra riparte più forte di prima. Bonimba, nella sua nuova casa di San Siro, trova il modo di punire la sua ex squadra: 15 febbraio, Inter-Cagliari termina 1-0 e la Juventus si ritrova ad un punto. Si decide tutto un mese dopo, quando Lo Bello dà prova della propria autorità ulteriormente corroborata dalla convocazione agli imminenti mondiali messicani (cui prenderanno parte sei cagliaritani: Riva, Cera, Albertosi, Niccolai, Domenghini e Gori) fischiando a piacimento tutto e il contrario di tutto. Alla fine, è 2-2: un'assicurazione sullo scudetto. L'anno dopo c'è la Coppa dei Campioni e un titolo da bissare, ma un macellaio austriaco di nome Hof spezza tibia e perone a «Rombo di tuono» Gigi Riva ed i sogni di gloria del Cagliari vanno in frantumi come le ossa del proprio simbolo.
LA STELLA
Gigi Riva. Anzi, Giggirriva. Lombardo di Leggiuno, venuto alla luce in via San Primo 10 il 7 novembre 1944, sardo per caso e per sempre. Il padre Ugo muore quando Luigi ha 9 anni, e lui finisce in collegio: Varese, Viggù, persino Milano. Ma scappa, sempre, per indossare la maglia numero undici e scagliare bolidi mancini sul campo da calcio. A sedici anni ha messo dentro 66 gol in due anni con la squadra di Laveno, ai tempi settemila e rotti abitanti domicialiati cinque chilometri a nord di Leggiuno. Poi finisce a Legnano: una stagione appena, giusto il tempo di farsi notare. Succede che gioca all'Olimpico, con la Nazionale Juniores, e sugli spalti ci sono Silvestri, Tognon ed Arrica ad osservarlo per conto del Cagliari: nell'intervallo la firma, per 37 milioni. Perde anche la madre, Edis, e parte per l'isola. Orfano incazzato, preso a cazzotti da una vita perfida e chiuso in se stesso, in Sardegna trova un paradiso colorato di rossoblu.
IL MISTER
Filosofo, sul campo e nella vita. Manlio Scopigno, friulano di nascita ma reatino d'adozione, Platone e Socrate, Hegel e Kant li studia per davvero. Onesto terzino destro, raggiunge la Serie A. Ma, nella partita in cui segna il primo gol con la maglia del Napoli, si rompe i legamenti del ginocchio. Dice addio al calcio giocato, e pure allo studio: preferisce lo stadio. Inizia a Rieti, poi segue Lerici sulla panchina del Vicenza. Quindi il Bologna, per un solo anno, e l'approdo a Cagliari nel '66. Amante della pittura e del whisky, dei buoni libri e delle sigarette, Scopigno abolisce i ritiri e posticipa gli allenamenti al pomeriggio. Asseconda i suoi, li responsabilizza. E non lesina battute pungenti. Inventa Cera libero d'impostazione, si becca undici giornate di squalifica per aver consigliato ad un guardalinee un luogo alternativo in cui mettere la bandierina, lascia Cagliari nel 1972. Un anno sabbatico, poi Roma e Vicenza. Gli va male, perché sta male. Un infarto se lo porta via nell'autunno del '93.
IL PERSONAGGIO
Comunardo Niccolai, il difensore col vizio dell'autogol. Nato a Uzzano, in Valdinievole, i primi calci li tira nel Montecatini. È un fuscello, i compagni lo soprannominano «agonia». Lui se ne frega, fa i bagagli e parte per la Sardegna. Un anno a Sassari, nella Torres, poi la chiamata del Cagliari: debutta in A, è il 1964. Discreto stopper, 37' a Messico 1970 prima che la caviglia lo tradisca in un contrasto con lo svedese Kindvall; Scopigno, esterrefatto per la sua presenza in campo, ha modo di esclamare: «Tutto mi sarei aspettato nella vita, fuorchè vedere Niccolai via satellite». Di lui fanno storia il nome, omaggio del padre alla Comune di Parigi, e le autoreti. Ne segna sei in carriera, cinque in campionato ed una in Coppa dei Campioni. La più bella, però, gliela nega il compagno Brugnera che parando una micidiale conclusione dello stopper salva Albertosi. Già, Albertosi: vittima preferita di Niccolai, che spenderà uno dei quattro gol segnati in carriera come «avvertimento» per Ricky, ai tempi tra i pali della Fiorentina. Nulla da fare, perché Albertosi si presenterà a Cagliari qualche tempo dopo: per subire autogol, e vincere uno scudetto.
CURIOSITÀ
Finanche in galera, pur di assistere alla partita dello scudetto. Nel giorno di Cagliari-Bari sugli spalti dell'Amsicora, ribollente catino omologato per 26mila uomini, siedono persino due latitanti. Disposti a tutto pur di essere presenti nel giorno in cui la matematica cucirà idealmente il tricolore sul petto dei rossoblu, la coppia di banditi concluderà la giornata in prigione, non prima di aver reso grazie ai propri beniamini. Poi, una volta scovati e debitamente incatenati dalla polizia, i due malviventi vennero allontanati dallo stadio tra lo sbigottimento generale dei calciatori cagliaritani, a dir poco sorpresi da quest'inatteso avvenimento.
DOMENGHINI, IL RISCATTO
Angelo Domenghini, al Cagliari assieme a Gori e Poli in cambio di Boninsegna: cosa pensò appena atterrato in Sardegna?
«Ero un professionista, il mio primo pensiero fu quello di gettarmi a capofitto in questa nuova avventura con l'obiettivo di far bene e prendermi una rivincita sull'Inter, che non aveva creduto in me. Sbagliando».
Come si ambientò nello spogliatoio del Cagliari?
«Bene, molto bene. Quello era un grande gruppo, ed io contribuii con la mia esperienza e la mia voglia di rivalsa: avevo ancora fame di vittorie dopo i successi con l'Inter (due scudetti, una Coppa dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, ndr) e la Nazionale (in gol nella vittoriosa finale dell'Europeo '68, ndr). Mi misi a disposizione dell'allenatore, ed i risultati mi diedero ragione».
L'allenatore: Manlio Scopigno. Che uomo era?
«Una brava persona, senza dubbio. Grande conoscitore di calcio, ci metteva poco a capire come farci rendere al meglio in campo».
Scopigno è noto soprattutto per l'appellativo di allenatore filoso e le battute dissacranti, ma era un gran tecnico. Ci dica, come giocava il Cagliari campione d'Italia?
«Nessun tatticismo esasperato, a quei tempi il gioco era più semplice: si marcava a uomo, e chi vinceva il duello individuale vinceva la partita. Io agivo sulla destra, mentre Gori era il perno centrale dell'attacco e Riva, leggermente decentrato sulla sinistra, con i suoi micidiali tagli metteva in crisi le difese avversarie. Poi le tre mezze ali Nené, Greatti e Cera, i due stopper Niccolai e Martiradonna, Zignoli o Mancin e Tomasini libero. Quando si fece male lui, Scopigno arretrò Cera in difesa ed inserì a centrocampo Brugnera, che era un grandissimo fantasista. Un giocatore fantastico, la cui qualità giovò sensibilmente alla manovra della squadra, che era finalizzata a mettere Riva nelle condizioni migliori per far gol: ne mise dentro 21, e vincemmo lo scudetto».
Lei invece ne segnò 10. Il più importante?
«Mi lasci innanzitutto dire che quasi tutti i gol che segnai quell'anno arrivarono sullo 0-0: a quell'epoca sbloccare il risultato era davvero difficile, e per me segnare per primo era motivo d'orgoglio. Il più importante, oltre che il più bello, per me resta quello segnato contro il Brescia alla terza giornata: eravamo in dieci a causa dell'espulsione di Nené, ma in apertura di secondo tempo segnai con un bolide da trenta metri che non lasciò scampo al portiere. Poi Riva arrotondò il risultato: finì 2-0».
Quando capiste che lo scudetto lo avreste vinto voi?
«Il 15 marzo, dopo aver pareggiato a Torino contro la Juventus. Fu una partita durissima, giocata con la consapevolezza che un'eventuale pareggio avrebbe consentito ai bianconeri di raggiungerci in testa alla classifica. Pareggiammo, e quel giorno capimmo che saremmo certamente stati noi i campioni d'Italia».
Ed infatti il 12 aprile vi diede ragione anche la matematica. Cosa ricorda di quel giorno?
«Ricordo l'entusiasmo dell'Amsicora, uno stadio stupendo: piccolo, sì, ma caldissimo. Venire a giocare lì era un incubo per chiunque. La gente, vicinissima al campo, ci dava una carica incredibile: poi le partite le giocavamo noi, ovviamente, ma i tifosi diedero un contributo sensibile alla vittoria del campionato».
Il vostro ciclo, però, si chiuse lì. Quali furono le cause?
«Avremmo potuto vincere di più, questo è certo. Si trattava di un'ottima squadra, ma alcuni eventi fecero sì che quella fosse la nostra unica vittoria. Il più importante, secondo me, fu il trasferimento della squadra al Sant'Elia: troppo grande, troppo dispersivo, non sentivamo il calore della gente come nei bei momenti vissuti all'Amsicora. E poi Gigi (Riva, ndr) s'infortunò in Nazionale».
JUVE FERMATA, RIVA PROTAGONISTA
15 marzo 1970, la Juventus attende il Cagliari al Comunale. Lo stadio è gremito, sugli spalti ci sono settantamila persone in delirio per la partita che si appresta a decidere le sorti del campionato. Quando Concetto Lo Bello mette bocca al fischietto per decretare l'inizio dell'incontro piove a dirotto, ma in campo nessuno sembra rendersene conto: la posta in palio è troppo alta per preoccuparsi delle condizioni atmosferiche. Nervi tesi, e il primo gol lo segna Niccolai... nella sua porta però, anticipando Albertosi su un innocuo cross dalla destra di Furino; «Bel gol», sentenzia un per nulla scosso Scopigno. Ora appaiate in vetta alla classifica, Juventus e Cagliari continuano a darsi battaglia per il primato: Gigi Riva, in chiusura di prima frazione, s'inventa il pareggio e riporta i suoi a più due in classifica. Nel secondo tempo Lo Bello prende in mano la partita, decretando un rigore più che dubbio in favore dei bianconeri. Sul dischetto si presenta Haller, Albertosi para. Il Comunale si ammutolisce, ma ci pensa il direttore di gara a ridar fiato alla frangia bianconera del tifo: il rigore si ripete, sentenzia, e Albertosi scoppia in lacrime. Anastasi, affatto impietosito, stavolta gonfia la rete e riporta avanti i suoi. Sembra fatta per la Juventus, ma un calcio di punizione dalla destra di Domenghini trova il fischietto di Lo Bello: è rigore, fallo su Martiradonna. Gigi Riva, che pochi istanti prima avrebbe strangolato l'arbitro, adesso si presenta sul dischetto. E segna, mettendo il pallone alle spalle di Anzolin.
TABELLINO
JUVENTUS-CAGLIARI 2-2
MARCATORI: 29' Niccolai (aut.) 45' Riva, 66' Anastasi (rig.), 82' Riva (rig.).
JUVENTUS: Anzolin; Salvadore Furino; Roveta, Leoncini, Cuccureddu; Haller, Vieri, Anastasi, Del Sol, Zigoni (55' Leonardi). All.: Rabitti.
CAGLIARI: Albertosi; Martiradonna, Mancin (74' Poli); Cera, Niccolai, Nenè; Domenghini, Brugnera, Gori, Greatti, Riva. All.: Scopigno.
ARBITRO: Lo Bello (Siracusa).
Antonio Giusto
Fonte: Calcio 2000