Il Miracolo di Zappalà

Da Robydick

Zappalà di nome faceva Zeppolino, il papà alla sua nascita volle ironizzare sul suo destino già scritto per condizioni fisiche e sociali, e già che c'era cogliere un'occasione per mandare a fancristi il prete del posto che gli stava sul riproduttore. 55 anni e già 45 di lavoro sul groppone, 165 cm donati con parsimonia dalla natura manco costassero un tot l'uno, in compenso un tronco taurino costruito frequentando assiduamente il bodycenter "raccolta di ortaggi", palestra ecologicamente corretta sita nella piana di Sibari.
Dopo 10 anni di mazzo a tarallo nelle campagne la grande occasione del lavoro al Nord, in una mensa aziendale, 35 anni a lavar piatti, pentole e marmitte e trascinar ramazze sui pavimenti e spugne sui tavoli. Tartagliava un pochino il buon Zap/papa/p/p/palà, poi era timido e discreto, s'impappinava al bancone a riempir piatti dove provava disagio, quindi era contento così, mai rotto le palle a nessuno e guai a mancare di rispetto a quello che faceva, potevi dirgli tutto ma non dire che il suo lavoro era umiliante - Se io non la/lala/lavo e puuu/lisco qua che me/memer/merda vi ma/ma/mmm/mangiate poi voi? - e nessuno aveva da obiettare.
Per il resto mitezza assoluta, i bolli della pensione sudati uno ad uno senza un giorno di malattia. Lo chiamavano tutti Zazzà, anche alla stazione di Lodi, dove ogni mattina arrivava con la bicicletta dal suo rustico in campagna per prendere il locale delle 6:30 e recarsi a Milano. Volle andare a vivere in campagna d'accordo con Concetta, una bella donna napoletana ora più che in carne che mai fu magra, morbida e setosa come un bel guanciale, che aveva trasfuso il suo dialetto anche al marito. 4 figli gli aveva dato Concetta, che sa la miseria come mai erano tutti oltre il metroesettanta femmine comprese, tanto che Zazzà qualche dubbio sulla paternità ogni tanto se lo faceva scappare - Nè Cunce', ma comme caspita è che so' accussì alti 'sti guagliun? - (strano, col dialetto non tartagliava quasi mai) e quella sempre la stessa risposta - Song 'i yogùrt della coop, Zazzà! - e si facevano una risata. Concetta le era sempre stata fedele, e poi Zazzà, oltre ad essere devoto ed affettuoso, era un "trombateur" appassionato di prima categoria, col tarello non falliva una sillaba!
Oggi è un giorno speciale quello che si appresta a vivere Zazzà. In stazione è arrivato alle 8, non c'è fretta di timbrare il cartellino, è appena andato in pensione, tornerà a lavorare la terra, il suo orto stavolta, solo un passatempo, però oggi deve tornare, tutta l'azienda vuole fargli una festa, l'ha chiamato il direttore in persona, quello che alla fine di tutti i turni di mensa di operai ed impiegati andava a mangiare e invitava Zazzà a bere un bel bicchiere di rosso con lui. Che emozione! Prima festa in suo onore della sua vita, mai onorato nemmanco i compleanni se non con una lasagna di Concetta. S'era preparato di tutto punto eppure, arrivato alla stazione e parcheggiata la bicicletta, aveva la sensazione di aver trascurato o dimenticato qualcosa. Quel cambio di orario, la perdita del ritmo abituale, non sapeva cosa ma qualcosa, ormai ne era certo, non era a posto o mancava. Era una sensazione sgradevole.
Per quelle coincidenze che mai troveranno spiegazione, quel giorno alla stazione di Lodi prendeva servizio, primo giorno operativo dopo breve periodo di formazione, il giovane controllore Benito Zelante. Anche il suo nome non era casuale, essendo il padre tra quelli che commemorano i "morti di Salò" e Benito l'Ardito, come voleva farsi chiamare, ne andava particolarmente fiero e persino il parroco, nipote d'arte il cui tonacato zio fu passato e ripassato dai metacarpi partigiani e pure da qualche calcagno, lo battezzò con gran pompa.
Nel suo caso occorre dire che pure il cognome è fatalmente profetico. Fallito in più o meno tutte le iniziative giovanili intraprese sia di studi che professionali, cresciuto al credere/obbedire/combattere, aveva sempre avuto il sogno d'indossare una qualche divisa e di ricoprire un ruolo che portasse ordine in questa società smidollata, come la definiva. Il titolo di terza media non dava grandi opportunità, allora tramite il padre riuscì a fare il corso e finalmente eccolo lì, fiero come una faina, orgoglioso come una pantegana, petto in fuori e schiena dritta manco avesse preso di quarti un palo della luce cadendo dall'alto, il nostro Benito Zelante (guai a chiamarlo con vezzeggiativi!) salire sullo stesso treno testé preso dal buon Zazzà, pronto a fare da diga a qualunque furbetto avesse tentato di svicolare il pagamento del biglietto. Incutere timore e rispetto era il massimo degli orgasmi a lui possibile, essendo ormai ridotto ad una sostanziale impotenza d'origine cerebro-somatica (il prefisso psico per lui è eccessivo), causata dal suo primo ed unico rapporto sessuale che risultò particolarmente traumatico. Benito, causa il chiodo fisso che aveva in piena, ed onanisticamente iperattiva, adolescenza, aveva mal compreso uno dei più famosi motteggi fascisti di sempre, ed era convinto che recitasse: "chi si estrae dalla gnocca è un gran fijo de na mignocca!". Ora, cazzo volesse dire "mignocca" se lo domandava spesso ma si vergognava a chiederlo ad altri, lo riteneva un termine romanesco di scarso apprezzamento verso la di cui madre, ed in fondo non deviava dal significato originale. Non "estrarsi dalla gnocca" era invece di chiarezza cristallina: il rapporto sessofecondativo va consumato per intero, senza borghese lattice d'inframezzo e senza disperdere il seme; pur percependo una flebile incoerenza con le seghe con cui si spellava mani e pimpinello, era un'affermazione di totale, anzi totalitaria, cattocoerenza imperativa categorica. Fatto sta che, come dicono in Albione, one shot one goal (traduzione contestualizzata: 'na trombata 'na ingallata). Fu un casino, Benito ingravò quella gran zoccola della Bice Meretrice, nipote del prete suo quasi-padrino e (voci di paese dicono) quasi-padre della Bice, figlia d'arte, da stragrandissima zoccola concepita. Avrebbero potuto incolpare mezzo paese e circondario del fattaccio, ma lui fu il solo a non negare la copula, e per la vergogna si chiuse in casa per mesi i quali produssero gli effetti di oggi e già li abbiamo detti. Ogni danno che si rispetti è sempre accompagnato dalla beffa e la simpatica Bice, abortito un marzianello di collettiva paternità, mise la favella al servizio del vilipendio per il colpevole Benito, che cessò di essere "l'Ardito" diventando "lo Zito", con chiaro riferimento al Suo spessore, quello virile non quello morale. D'altronde Bice era la cartina tornasole di tutti i cazzi del lodigiano, scoparsela significava confrontarsi coi grandi numeri e quando ella decretava paragoni fra gli attributi dei suoi avventori nessuno dubitava della sua competenza.
Trum trum trum trum... i passi di Benito cogli anfibi chiodati da parà, ben oltre il mocassino d'ordinanza, cominciavano a farsi sentire lungo i corridoi già dal primo vagone. Zazzà, alla carrozza 5 di seconda classe, forse stimolato da quel terremotare del pavimento, finalmente realizza il motivo della sua inquietudine: ha dimenticato il portafogli di finto coccodrillo a casa, e si ritrova in giro senza soldi ma è il meno, senza documenti e già comincia a farsi seria la situazione, senza il biglietto del treno a/r che aveva fatto la settimana prima e qua la faccenda diventa gravissima per un paladino dell'onestà qual lui è.
Trum trum trum trum... cominciano a giungere voci tra i passeggeri su quel trummare marziale e pesante, s'è percepito anche qualche urlo dalle carrozze precedenti. Sul fatto che siano i piedi proditoriamente calzati del nuovo controllore non ci sono più dubbi, su quello che stia combinando invece giungono voci a metà tra il pittoresco ed il violento. Pare abbia già beccato un senegalese provvisto di biglietto non obliterato, cosa che ai beniti-occhi è fin peggiore della mancanza del biglietto stesso, perché vuol dire che sei un furbo, che vuoi viaggiare ad ufo fino a quando un controllore (non lui, mai!) te lo segnerà a penna e sarai costretto a comprarne un altro, sempre quasi in regola. Qualcuno dice l'abbia picchiato, altri addirittura che l'abbia scaraventato fuori da un finestrino tra Tavazzano e S.Zenone. In realtà il giovane africano è sceso mesto mesto a S.Zenone per timbrare ed aspettare il treno successivo per salire, non gli ha procurato nemmeno tutta questa soddisfazione, come sparare sulla croce rossa dal suo punto di vista. Com'è come non è, Benito sta già diventando un Mito, ed ha pure trovato un nuovo sostantivo con cui far rima.
Ci siamo ormai. E' alla carrozza 4 e in questo preciso istante non si sente trummata alcuna, segno che è in quel passaggio tra un vagone e l'altro il cui casino copre il rumore dei suoi scarponi come coprirebbe persino il rombo di un panzer. Zazzà, colpito da un conflitto d'interessi tra il panico e la prostata, deve correre in bagno, non ha scelta, che si trova dalla parte opposta del vagone rispetto a dove sta entrando Benito, che fa in tempo a scorgerlo mentre trafelato entra nella ritirata e subito gli si accende una lampadina d'allarme al zelantissimo Zelante. Un controllo quasi distratto ai pochi passeggeri del treno degli impiegati, perché a quell'ora quella è la clientela, tutti con abbonamenti luccicanti in foderine lux-plexiglass, esercito in giacCamiCravatta, dopobarba all'essenza "che-si-sappia-che-ho-messo-il-dopobarba", gente che Benito rispetta perché dignitosi ed a lui, così il neo-mito ritiene, estremamente inferiori seppur rispettabili perché ordinati, puliti e prevedibili. E quello dal bagno non esce, e sempre là ha la testa Benito - quanto potrà resistere lì? - si chiede, allora agisce d'astuzia, lascia la carrozza ma fermandosi nello spazio tra la 5 e la 6, scrutando attraverso il vetro l'uscita del furbetto dal bagno.
Zazzà esce, da prostata prostrato, da angusti spazi accaldato. Non s'era imboscato, è che urinare a stillicidio richiede tempo. Ehi! - urla Benito - fermo lì non ti muovere! - e tutto il vagone viene travolto dalla sua scossa di collera. Zazzà sobbalza, si gira e vede un incrocio tra un berretto verde ed un balilla, con tracce quasi indistinguibili di divisa ferroviaria, piombargli addosso con occhi spiritati - Che succede, dice a me? - chiede sommessamente - Ah ... Ah ... Ah! - ride Benito, sillabando - fa anche lo spiritoso, certo che dico a lei, mi ha preso per uno stupido? ho visto che s'era nascosto nel bagno e scommetto il busto del dux (mano al cuore ed occhi al cielo mentre Lo cita) che tengo vicino al water che non ha pagato il biglietto, vero? - al che il buon uomo risponde - vero, ma non m'ero nascosto, il biglietto l'ho dimenticato a casa con tutto il portafogli, abbia pazienza, sono 30anni che faccio questa linea ma è la prima volta che ... - ma è come una goccia d'acqua in un altoforno. Taccia! non mi racconti panzane, continua a ritenermi uno stupido mollaccione? ma beeeneeee, quindi non ha nemmeno il portafogli, ma braaavooo, ed immagino che non può perciò pagare il biglietto sovrapprezzato sul treno, e vediamo se indovino: sicuramente non ha nemmeno un documento d'identità! - e con questa Benito aveva sferrato il colpo di grazia, Zazzà aveva capito che non aveva via di scampo e si giocò istintivamente un'ultima carta - senta signor ufficiale - non sapeva come chiamarlo ed involontariamente colpì l'amor ego del Benito che si ammorbidì un po', ma fu solo un attimo - guardi, provi a chiedere sul treno, mi conoscono tutti - peccato che non era il treno che prendeva di solito, se ne ricordò poi, quando già il primo passeggero, interrogato dall'ufficiale di pongo, affermò di vedere quell'uomo per la prima volta, indicandolo con uno sguardo carico di biasimo che umiliò definitivamente l'anziano uomo ormai chino su sé stesso. Non c'era più nulla da fare. Breve telefonata alla PolFer di Rogoredo, dove Zazzà e il suo zelante ufficiale scesero legati, polso destro Zazzà e sinistro Benito, da una corda che il neo controllore s'era portato per ogni evenienza. Prese generalità ed espletate formalità varie, dopo aver attraversato una fiumana di gente ben vestita e dopobarbata dagli orari sconosciuti a Zazzà i 2, sempre legati, prendono il treno che torna a Lodi, perché non fidandosi di quel personale della stazione a lui sconosciuto Benito esige ed ottiene di accompagnare personalmente il signor Zappalà alla polizia di Lodi, che conosce e chiama col cellulare personale - per la Patria ed il suo Onore, sono soldi che spendo volentieri! - dice, parlando a lungo pur di avere la certezza che al suo arrivo 2 poliziotti lo attendano alla banchina e lo accompagnino poi in caserma.
Per quanto breve, il viaggio da Rogoredo a Lodi fu un calvario per il povero Zazzà, ormai incapace di profferire parola e chiuso nei suoi pensieri. Mentre Benito lo gonfia di pistolotti sul dovere civile e sull'importanza delle ferrovie per qualunque stato, tale da meritare il massimo rispetto deferente di ogni cittadino che voglia chiamarsi tale, egli riflette sulla meschinità della sua attuale condizione ed in generale della sua esistenza. Non gli era importato mai niente di nulla, aveva sorvolato su ogni umiliazione, anche adesso se voleva con la forza che aveva in quelle braccia poteva prendere quello stronzo integerrimo di Benito e farne carne macinata per corvi, ma sapeva che poteva solo aggravare ulteriormente la sua situazione. Una vita spesa per il lavoro e la famiglia, la sola forza che aveva era l'onore e la dignità di lavoratore instancabile e cittadino onesto, che per una cazzata da niente stavano per venir distrutte. La festa, la sola della sua vita, era andata a bagasce, nemmeno era riuscito ad avvisare e poi cosa gli avrebbe detto, che era in una specie di stato di arresto per una merda di biglietto da pochi euro? Avrebbe tartagliato con tale ansia da risultare incomprensibile persino a sé stesso. Niente, il solo vero momento di grande gioia professionale, quello dove tanti colleghi che aveva contribuito a nutrire in mensa con igiene e decoro volevano festeggiarlo tributandogli il dovuto onore, era andato perso irrimediabilmente, e certe feste si sa, funzionano quando nascono veloci e spontanee, ogni tentativo di replica sarebbe risultato inefficace. Il giorno forse più bello della sua vita stava diventando un giorno da dimenticare. Ancora non aveva visto il finale, ma già qualcosa d'importante dentro di lui s'era spezzato.
All'arrivo a Lodi ad un orario che la rende colma di studenti al ritorno alle rispettive abitazioni, Benito fa in modo di dare grande enfasi al suo trionfo. Sempre legato a Zazzà che cammina come un cane bastonato, urla fra la folla di sbarbati - Fate largo pregoooo! Faaaate largoooo! - ed ancora, anche qua, nessuno che conosce Zazzà tra la folla, tranne uno dei suoi figli, Alfredo, che aveva accompagnato la fidanzata a prendere il treno per tornare a Casalpusterlengo - Papà papà! Cos'è successo? - Tuo padre pensa che non si debba pagare il biglietto, lo sapevi? - risponde Benito, sempre urlando, e una serie di stronzo, pezzo di merda, carogna cominciano a levarsi dalla folla di ragazzetti, che scherniscono ridendo il brav'uomo che non ha il coraggio nemmeno di guardare in faccia Alfredo, un bravo ragazzo istruito e studioso, fiero ed orgoglioso del padre, per il quale non può trattenere, incredulo, le lacrime per quanto gli sta accadendo. Conservando però lucidità sufficiente a non perdere la testa, Alfredo corre a chiamare il capostazione - Venga subito, la prego, ci dev'essere stato un enorme equivoco, non è possibile che mio padre venga trattato come un ladro voi lo conoscete bene, venite subito! - ed il capostazione, amico del padre di Benito tanto quanto di Zazzà, egli stesso personalmente espostosi per aiutare lo sciagurato a prendere il posto di controllore, non si fa pregare...
Alla stazione di polizia non venne mai portato il povero Zazzà, al quale, per scusarsi, il padre stesso di Benito, fascista sì ma non testa di cazzo come il figlio, offrì personalmente il grugno del proprio erede, pregandolo di ammollargli - 'na pizza di quelle che se la doveva ricordare vita natural durante ogni volta che da quel giorno si fosse guardato allo specchio! - così disse. Ma Zazzà era in condizioni al limite dell'autismo, non sentiva né capiva più nulla, malapena sosteneva il corpo sulle gambe e dovettero accompagnarlo a casa i poliziotti, alla bicicletta pensò Alfredo. Non si fecero invece pregare più di tanto i camerati del padre, fascisti sì ma non teste di cazzo come suo figlio, che conoscevano tutti l'apolitico Zazzà e, anche se lo sfottevano un po' ogni tanto, ne stimavano disciplina e virtù. Oggi Benito il Trito, come lo chiamano, che non si spiega ancora perché a Lodi tutti conoscevano Zazzà tranne lui, ha una mascella spezzata che non è più tornata in asse, il naso suino, schiacciato come da una pressa con due narici deformi che ti guardano dritte negli occhi e cammina col bastone per un colpo di mazza da baseball che gli ha fracassato un ginocchio. Per il resto, da tutti gli altri traumi e fratture, si è ripreso abbastanza bene, ma da Lodi se n'è dovuto andare, dove non si sa e nessuno ha premura di saperlo.
Ci sono uomini che, come Zazzà, forti come tori da corrida, hanno degli Invisibili Fili che tengono unite le parti essenziali della loro moralità che è tutt'uno con la loro fisicità. Sottili ed impercettibili, quasi inviolabili, sono il loro punto debole ma possono essere distrutti solo inconsapevolmente e solo da altri. D'importanza quindi vitale, sostengono un'impalcatura di convinzioni, rigore, danno ordine ad una integrità dell'uomo altrimenti allo sbaraglio, permettendogli di affrontare anche i momenti più duri e penosi con quel minimo di elasticità unita alla fermezza di spirito, ché se non ci fossero, quei Fili, la struttura di un uomo di quel tipo diventerebbe un monolite rigidissimo, e di monoliti di quel tipo ce ne sono, pessime persone che vivono solo di questioni di principio e quattro regole di merda imparate a memoria e poi applicate, gente orribile, non paragonabile a Zazzà, che era un Uomo ricco, possedeva gli Invisibili Fili. E' il caso che decreta chi può spezzare quei preziosi e delicati ricami, non una particolare abilità, ed il caso per Zazzà è stato Benito, uno tra i più miserabili membri della specie umana.
Non si riprese più, nonostante le amorevoli cure di Concetta, la vicinanza dei figli che lo adoravano, persino le premurose attenzioni delle istituzioni locali che un po' per pietà, un po' perché bisogna sempre cavalcare la notizia che ti fa apparire sui giornali, si occuparono del "Caso Zappalà-Zelante" e bisogna ammettere che operarono oggettivamente bene, con discrezione e costanza. Il cuore di Zazzà di fermò irrimediabilmente 10 giorni dopo il fattaccio, senza alcuna possibilità di rianimarlo, era una batteria che aveva perso la ricarica, non c'era energia. S'erano rotti i Fili, Zazzà dentro di sé lo sapeva già durante il viaggio di ritorno da Rogoredo, non c'era una spiegazione logica, quando si rompono si rompono, nessuno li può ricucire.
Il funerale fu curiosamente allegro nel finale, dopo il decoro e lo strazio iniziali. Avvenne una strano fenomeno che ancora oggi gli stessi protagonisti faticano a spiegarsi. Parteciparono spontaneamente, a titolo personale, camerati del padre e gruppi dell'estrema sinistra, tutti presenti per scelta individuale ma poi raggruppatisi nel corteo per legge gravitazionale. Ad un certo momento i fascisti cominciarono ad intonare canti del ventennio, con voci forti e potenti, tra i quali una Faccetta Nera da concorso canoro. Al termine, senza interrompere la prestazione, attaccarono i comunisti con  I morti di Reggio Emilia, solo le prime strofe, ed una O Bella Ciao che strappò applausi a scena aperta. Dopo gli applausi ed un teso momento di silenzio, molti cominciarono a ridere, per l'incredulità, avevano assistito ad una cosa mai vista, e non era finita, cominciarono a ridere anche i membri dei 2 cori spontanei. Non avevano cantato per perorare la loro causa, avevano cantato per onorare Zazzà, con le canzoni che conoscevano meglio, che sapevano cantare con cuore e convinzione, non potevano cantare altro, ed i membri dei 2 cori, prima del resto dei partecipanti, compresero bene questa cosa. Si ritrovarono tutti in osteria, e ci sono ancora le foto appese a muri ed architravi, con camicie nere e camicie rosse che si abbracciano e brindano in continuazione al povero defunto, alla pace della sua anima, sia essa in cielo o polvere in terra poco importa, un qualcosa da chiamare Anima doveva esistere, era la sola spiegazione sensata a quella splendida giornata e serata.
Se vi capita andate a Lodi, è una bella ed accogliente cittadina che merita una visita, e chiedete dell'osteria dove è avvenuto il Miracolo di Zappalà, ve la sapranno indicare tutti.

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