Schiva, fragile, allucinata e amante della letteratura non solo come mestiere ma come arte; questa era Anna Maria Ortese e chi ha avuto la grande fortuna di conoscerla può confermarlo. Angelici Dolori, il suo primo volume edito da Bompiani, già nel titolo rivela molto della sua personalità tormentata e complessa. Nelle ultime righe del testo troviamo tali parole: “Sono ignorante. Non conosco né i greci né i latini: poco dei moderni; nulla o quasi dei modernissimi. D’Annunzio è per me, con reverenza, un Ignoto”. Candidamente ammette la sua ignoranza ma, con un sottile gioco contraddittorio che rispecchia il suo carattere, non manca di parlare del letterato abruzzese usando la lettera maiuscola.
Ermetica e contraddittoria, l’Ortese era sola. Una solitudine di cui era artefice e non vittima, scelta per sfuggire a quei circoli letterari di cui disprezzava la pomposità intellettuale, a un ambiente maschilista e alle apparizioni pubbliche.
“Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto”.
Ed esisteva eccome Anna Maria, solo che amava farsi da parte lasciando parlare i suoi scritti: letteratura fantastico-evocativa, scrittura teatrale, reportage, inchieste, persino un racconto del Giro d’Italia. Ed eccola, eclettica e a tratti infedele, incapace di restare legata ad un genere così come ad un editore. La sua voce era ascoltata troppo poco, così come troppo poco è oggi ricordata; doleva all’Ortese che i romanzi della “rivale” Elsa Morante venissero accolti con grida miracolose e recensiti con molto più piacere dei suoi oppure, semplicemente, che venissero capiti.
Ma la sua scrittura era allontanamento dall’immediatezza, era un percepire la realtà in modo sfocato, in un susseguirsi d’immagini quasi oniriche che le valsero l’appellativo di “Scrittrice visionaria”. Istintivamente refrattaria ad ogni programma o manifesto letterario, fu autrice estremista, come osservato da Geno Pampaloni, con un’insolita capacità lirica di far convivere verità e finzione, reale e surreale. Sfiorò forse davvero il neorealismo con i racconti de “Il mare non bagna Napoli”, testo nato dal suo incontro con una città uscita devastata dalla guerra, ma rimase sempre libera, nomade nelle scelte artistiche come nella vita. All’ abbandono della sua Napoli adottiva seguirono infatti gli anni milanesi, le difficoltà economiche in Liguria, il successo con il premio Strega, la possibilità di usufruire della legge Bacchelli. Un’esistenza costantemente priva di serenità la sua, al punto da definirsi “uno specchio macchiato. Perché le cose che vedo non sono né belle né veramente felici”. Un pessimismo che ben si riflette nelle parole di Elmina, personaggio protagonista de “L’Iguana” e de“Il cardillo addolorato”: “La felicità è male. Amare le creature è male. La vita è male”. Nei suoi testi e nelle sue riflessioni la Ortese chiede ascolto, attenzione, urla la necessità di vedere e sentire, in un mondo in cui questo non conta più. In cui si è ciechi. “La società intorno a noi non sente, non conta: lo stile, in questo tipo di società, non conta più nulla”. È lo stile, cara Anna Maria, quello che tu ci hai insegnato. Quello che oggi, dopo anni in cui alcuni hanno letto i tuoi libri e molti purtroppo no, puoi continuare a trasmettere.Articolo originale di Sentieri letterari.
Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore.
I contenuti sono distribuiti sotto licenza Creative Commons.