«Mario, c’è un mistikeis nel tuo skill-set. Fasati con gli altri per un upgrade del tool JS e fissa il bug. Poi uplodda il file col tuo know-now e postati un reminder per il briefing via call».
Non riporto un brandello di conversazione tra me ed un esponente della tribù dei Pashtun afghani del Pakistan occidentale ma una frequente richiesta che giunge da qualche mio collega d’ufficio. Perché l’informatico parla per acronimi ed i termini inglesi spopolano, peggio quando italianizzati oppure pronunciati in contesti inopportuni.
Aggiungo un ulteriore aggravio: ogni lavoro presenta il suo gergo linguistico ma la tecnologia è il regno dei termini globalizzati.
Clic, touch, download, app, mouse, whatsapp,chat, tweet, share e like sono comprensibili nel remoto villaggio della regione del Pashtunistan e nei moderni uffici del Freedom Tower di New York. E poi, durante una conversazione è più fico «ho acquistato un nuovo hard disk dallo shop on-line con PayPal» oppure «ho comprato una memoria di massa in Rete ed ho pagato con la carta di credito»?
Il sottoscritto preferisce esprimersi in italiano, evitare di storpiare le parole, dribblare le sigle ed utilizzare i paroloni stranieri se necessario e nei modi (e tempi) giusti. Non è patriottismo sfrenato, purismo assoluto o chiusura alla inevitabile evoluzione della lingua di Dante bensì preferisco la bellezza della semplicità al pacchiano, l’immediatezza al prolisso, la linearità all’ambiguità. Perché l’uso dei vocaboli anglosassoni alla moda crea conversazioni fumose e – se mal pronunciati – si rischia la figuraccia, proprio come indossare un vestito kitsch ricco di colori appariscenti e sgargianti alla festa di beneficenza della parrocchia.
Dopotutto, (anche) il modo di esprimersi è una questione di stile e chi ha gusto evita imbarazzanti mistikeis.
MMo