Libertà, anche in questa meravigliosa parola esiste una possibile negatività.
Siamo nati negli anni ’80, e di tutte le banalità o scontate verità dette, mi sembra lampante che tale generazione stia osservando il declino vivendolo con lucidità, perché la memoria la riporta agli anni del “benessere”, e via via ricorda i paesaggi emotivi vissuti all’interno della famiglia. Ogni porzione di realtà ricordata gli racconta con precisione come dal benessere si sia passati a qualcosa di inquietante, di deliberatamente destabilizzante. Dal contesto familiare, lo scenario si è spostato verso noi stessi, ciò che vorremmo fosse un nucleo a sé stante.
I nostri genitori hanno mediamente un’età compresa tra i 50 ed i 60 anni, hanno ricevuto un’educazione più rigida della nostra, hanno avuto meno libertà di noi, ed allo stesso tempo (come è ovvio che sia nell’evoluzione da una generazione all’altra) hanno imparato a concedere più libertà ai propri figli, più di quanta ne abbiano ricevuta loro. Noi, però, insieme ad una dose di libertà extra, abbiamo ricevuto un’altrettanta dose di instabilità psicologica e sociale.
Guardo mio padre, ha 63 anni ed è in pensione, adesso guardo me stesso e mi rendo conto che l’eredità genetica è davvero potente, sono una copia comportamentale di mio padre, il paragone generazionale è ancora più efficace. Diploma di ragioneria e poi trentacinque anni di lavoro presso un’azienda dove ha svolto il suo compito, ragioniere. Nel frattempo ha sposato mia madre, comprato casa, messo al mondo due figli.
Lo sguardo si rivolge ancora verso di me e mi chiedo: ma siamo sicuri che il “ragionier Fantozzi” fosse uno sfigato? Gli schemi, le costrizioni, il flusso vitale incanalato sono davvero delle disgrazie? Fantozzi viveva di desideri, di aspettative, continuava a sperare di conquistare la signorina Silvani ed intanto a fine lavoro aveva una famiglia dalla quale tornare.
Tornando alla “realtà”, noto che la mia overdose di presunta libertà (la nostra) mi sta portando verso una vita destrutturata, enormi palazzi costruiti senza impalcature, senza punti stabili su cui erigersi. I percorsi di vita (ed ovviamente lavorativi) avevano nei decenni precedenti un’impronta meno dispersiva, le vite erano meno diramate e più concrete.
Noi adesso abbiamo varie libertà, possiamo scegliere, possiamo scegliere tante (forse troppe) cose, i percorsi si sono moltiplicati in modo esponenziale creando una stratificazione vitale che può in alcuni casi sfaldare, polverizzare le esistenze sino a renderle inconsistenti. Ci stiamo fondendo con la tecnologia divenendo gli dei della pluralità esistenziale, presi da così tanti elementi che siamo dispersi come gocce in un oceano.
Immagino di essere un piccolo flusso vitale che invece di accrescere la sua forza sul letto di un fiume, si disperde in milioni di molecole in una vasta (troppo) pianura. Forse gli argini servono, forse c’è bisogno di un percorso anche solo lievemente tracciato, qualcosa che possa anche costringere il pensiero, per far sì che la forza aumenti e se c’è da straripare lo si farà. Invece credo che noi siamo esseri già straripati sul nascere, amorfi in un mondo amorfo, senza più confini netti, senza un sentiero appena visibile.
Forse la mano pesante di mio nonno che indirizzò mio padre oggi potrebbe essere vista come un soffocamento delle ambizioni e inclinazioni, ma il rapporto tra padre e figlio è solo un ristretto ritratto di un’intera società che ha plasmato negli ultimi anni la sua immagine sulla libertà, sulla flessibilità, sulla multimedialità, sulla multi identità, sulle molteplici (false) scelte.
C’è chi ha la forza interiore di non disperdesi anche in questo contesto, e chi invece si polverizza dividendo le proprie forze nei substrati dell’esistenza, fino a diventare tanti minuscoli se stessi. Un vigore diviso centinaia di volte sino a ridursi a poca cosa.
Vorrei dei confini da superare, degli argini da scavalcare, dei desideri da esaudire con ardore.