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Afrodite e Adone, vaso Attico a figure rosse, ca 410 a.C., Parigi, Louvre
Nell’antica Grecia vigeva un tempo un mito che ricorda vagamente la nostra Pasqua intesa come rinascita, risveglio della natura e della primavera. Per rendercene conto dobbiamo attingere ad un’opera enciclopedica vergata da James Frazer: “Il Ramo d’oro”. Il titolo del libro lo dobbiamo alla leggenda che vede la Sibilla consigliare a Enea di fornirsi di un ramo d’oro (probabilmente un rametto di vischio reciso), per poter ritornare nel regno dei vivi dopo la sua famosa catabasi (la discesa nel regno degli inferi). Ma sorvolando sul racconto virgiliano, addentriamoci ora nel mito di Adone il cui antico nome era Tammuz, il dio venerato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria, che i Greci adottarono agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Nella tradizione babilonese Tammuz appare come il giovane sposo di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura. Sulla nascita di Adone, che personifica la bellezza maschile, s’impernia un’altra leggenda che si deve alla fantasia del poeta epico Paniassi: Afrodite, adirata con Smyrna (Mirra) per la sua scarsa devozione, la costrinse ad innamorasi del padre Teia, un re assiro che giacque con la figlia per ben dodici notti prima che gli venisse in mente di accendere un lume e scoprirne l’identità. Teia, scoperta finalmente l’identità dell’amante, venne preso dall’ira e l’avrebbe di certo ammazzata se Dei pietosi non l’avessero trasformata in un albero dalla resina profumata, l’albero di Mirra. Trascorsero nove mesi, Mirra fu colta dalle doglie tanto che il suo tronco s'incurvò e Ilizia, la dea protettrice delle partorienti, mossa a pietà dai suoi gemiti, s'avvicinò all'albero e posò le mani sulla corteccia pronunciando la formula del parto. Subito s'aprì un piccolo varco, da cui affiorò il piccolo Adone. Le Naiadi lo raccolsero e lo allevarono amorosamente ungendolo con le odorose lacrime di sua madre. Ne venne fuori un giovine così bello che la stessa Afrodite se ne innamorò tanto che lo nascose in una cassa per preservarlo dai mali del mondo. Anzi, per maggior sicurezza, affidò la cassa a Persefone, la regina degli inferi. La dea infernale, vistone il contenuto, si innamorò del bel bambino che non volle più restituire alla dea dell’amore. Ne nacque una violenta disputa tra le due dee per sanare la quale intervenne Zeus che affidò Adone per sei mesi a Persefone che c’impone ancor oggi l’inverno e l’autunno e sei mesi ad Afrodite, che ci restituisce la primavera e l’estate. Insomma noi dovremmo la fertilità della terra ed il suo risveglio, a questa saggia decisione, ma tutta la storia degli antichi miti e delle religioni è imperniata sul risveglio di madre natura, sulla rinascita, sulla resurrezione. In onore di Adone si celebravano in Grecia, dopo l’equinozio primaverile, le feste adonie, simbolo anch’esse, di fertilità. La storia di Adone non ha però un lieto fine perché egli venne sventrato da un cinghiale inviatogli contro dalla gelosia di Ares o di Efesto (non si capisce bene dalle mie fonti) e, a dar retta ad Ovidio, dal suo sangue nacque un fiore: l’anemone che dopo pochi giorni muore come i germogli delle piantine che ancor oggi noi poniamo nei sepolcri il giorno del giovedì santo. Ma anche allora si pensò alla resurrezione. Nei santuari di Astante a Byblo dopo le lamentazioni per la sua morte, se ne canta gioiosamente la resurrezione e l’ascensione al cielo. Dino Licci
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