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Il mito di Narciso, o la dittatura dell’apparenza

Creato il 16 dicembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

515px-Benczur-narcissusdi Riccardo Alberto Quattrini. Il narcisismo, vociferano, è il male del nostro tempo. L’argomento, in apparenza, è una questione di pelle. Di fugaci ossessioni che vanno dalla testa ai piedi e attraversano la superficie di un corpo ritoccato per essere bello.

Cute piallata e levigata per dare un senso all’essere e all’avere in questo hamada arido di una  società debole, priva di valori. Come nel mito classico di Narciso, mentre langue immobilizzato ad ammirare la propria immagine riflessa nell’acqua, che magistralmente John William Waterhouse ne:  Eco e Narciso, ci ha regalato un’interpretazione estremamente incisiva, dove oggi molti uomini si rispecchiano ossessionati dalla propria immagine.

Nel monumentale libro di Sir James George Frazer “Il Ramo d’oro” (Newton Compton Editori pp.  816 € 14,90), nel capitolo XVIII dedicato all’anima come ombra e come riflesso, spiega che l’uomo primitivo considera come anima, principio vitale, l’ombra e l’immagine riflessa nell’acqua, o in uno specchio. L’anima, dice Sir James, attraverso il riflesso o l’ombra, può separarsi dal corpo o fondersi con qualcos’altro o essere addirittura catturata. La sua perdita provoca malattia o morte. Per questo motivo è meglio non specchiarsi nell’acqua: gli spiriti delle acque possono trascinare sul fondo il riflesso, o anima, della persona che in seguito a quella privazione può morire.

Forse questa è l’origine del mito di Narciso, analogo al riflesso nell’acqua il riflesso nello specchio.

Un usanza molto diffusa coprire gli specchi o rivolgerli contro il muro, quando qualcuno muore. Si teme che l’anima, proiettata nel riflesso dello specchio, possa essere portata via dal defunto che rimane nella casa fino al funerale.

Il mito di Narciso narrato nelle “Metamorfosi” da Publio Ovidio Nasone grande poeta romano (43 -18 a.C.); una delle storie più conosciute della mitologia greca. Narra le vicende di questo giovane la cui bellezza, pari a quella di un dio, fu la causa della sua stessa rovina. Narciso era figlio di Cefiso, dio della divinità fluviale e della ninfa Liriope (secondo un altra versione di Selene ed Endimione). Narciso era un bellissimo giovane, di cui tutti, sia donne che uomini, s’innamoravano alla follia. Tuttavia egli preferiva passare le sue giornate cacciando, non curandosi delle sue spasimanti, tra queste c’era la ninfa Eco, condannata da Era, moglie di Zeus che, notando l’attitudine di Eco al pettegolezzo, la spinse ad intrattenere la moglie in modo da distrarla dai suoi amori furtivi. Era si accorse dell’inganno, e la punì togliendole l’uso della parola e condannandola a dover ripetere solo le ultime parole che le venivano rivolte o che udiva. Eco, dunque, consumata dall’amore per Narciso ma rifiutata, si nascose nei boschi fino a scomparire restando solo un’eco lontana. Non solo la ninfa, ma tutti i giovani e le giovani rifiutate da Narciso supplicarono la vendette degli dei. Subito accorse Nemesi, dea della giustizia e riparatrice dei torti, fece sì che Narciso s’innamorasse della sua stessa immagine riflessa nell’acqua. Specchiatosi a una fonte, egli s’innamorò di sé. “Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d’avorio, il candore del volto soffuso di rossore. Oh quanti inutili baci diede alla fonte ingannatrice! Ignorava cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per quell’immagine …” Ovidio (Metamorfosi III, 420 e seg.). Disperato perché non avrebbe potuto soddisfare la passione che nutriva, si strusse in inutili lamenti, ripetuti da Eco. Resosi conto dell’impossibilità del suo amore, Narciso si lasciò morire.

Oggi quel mito prosegue, accade cioè che molti uomini siano ossessionati dalla propria immagine, incapaci di creare legami stabili in quanto concentrati esclusivamente sul proprio aspetto. Un fenomeno alimentato dai “persuasori occulti” che ne esaltano lo stile di vita proponendolo come nuovo modello maschile. Il quotidiano The Indipendent, coniò nel 1994 la parola Metrosexual, nel linguaggio giornalistico il termine serve a indicare una nuova generazione di uomini, eterosessuali, single, benestanti, residenti in città, curatissimi nell’aspetto. Il Metrosexual frequenta le palestre, si fa la lampada, si depila e fa ampio uso di cosmetici, sono appassionati di shopping e tendenzialmente salutisti. Li hanno paragonati ai grandi seduttori del passato, come Don Giovanni o Casanova, figure più interessate a collezionare prede che all’amore autentico. Il filosofo Umberto Curi non è d’accordo su questa semplificazione dell’uomo “sciupafemmine”, con l’analogia di Narciso, uomo che non ha legami con nessuno. Dice: “Il nostro narcisismo deriva dall’interpretazione del padre della psicoanalisi, Simun Freud. Narciso si specchia e muore non per il troppo amore di sé, ma per essersi “visto”, cioè essersi conosciuto nel profondo. E’ l’emblema della fragilità della condizione umana”. L’analogia con un dongiovanni è calzante, egli ha paura di guardarsi dentro ma soprattutto di farsi guardare dentro, è per questo che Don Giovanni è sempre raffigurato con una maschera. Nella versione originale di Tirso de Molina, un religioso drammaturgo spagnolo (Madrid, 1584 – Almazàn, 1684), nella sua opera “L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra” Don Giovanni dichiara: “Io sono il burlador di Siviglia e il mio massimo piacere è ingannare le donne”. Ingannarle non è conquistarle. L’autore, che era per l’appunto un frate, nella sua commedia cercava di rispondere a un quesito teologico che in quegli anni, nella controversia tra cattolici e protestanti, andava per la maggiore: convertirsi in extremis può salvare l’anima? Dunque la vera colpa del personaggio non era l’affronto alla donna, ma l’affronto a Dio. Quando a distanza di trent’anni il commediografo Molière, riprese il personaggio, aggiunse un altro elemento: in una scena Don Giovanni è pronto a dare l’elemosina a un mendicante se questi è disposto a bestemmiare. Nella seconda metà dell’Ottocento venne diagnosticata dai medici la “sindrome di Don Giovanni” cioè l’attitudine a cercare continuamente nuove partner, oggi viene definita “compulsione sessuale”. Forse anche perché alla figura letteraria di un Don Giovanni, si è frapposta una reale figura di Giacomo Casanova (1725-1798). Avventuriero, seduttore, playboy ante litteram. Questa è la figura che tutti noi abbiamo di Giacomo Casanova sedicente cavaliere di Seingalt, come lui amava fregiarsi. Casanova, dunque, era un vero seduttore? Lui lo era in quanto il suo obiettivo, era quello di godersi la vita senza stancarsi troppo per sbarcare il lunario. Scrivere e raccontarne le storie, quindi lo si può considerare un collezionista erotico. Casanova non aveva nulla di falso quando seduceva le donne, egli si mostrava per quello che era, senza indossare nessuna maschera. Ricorda qualcosa di James Bond, l’uomo che conquista le donne senza fingere né tantomeno travestirsi, è sufficiente che si presenti: “Il mio nome è Bond. James Bond”.

Dimentichiamo spesso il lato ambivalente della seduzione che rimane sempre in bilico fra attrazione e inganno. Il fatto che oggi “dongiovanni” e “casanova” siano diventati sinonimi dovrebbe allarmarci. Forse varrebbe la pena di riscoprire l’intelligenza e l’irriverenza di quell’esteta amato da uomini e donne che sedusse i salotti vittoriani nell’Inghilterra dell’Ottocento e porta il nome di Oscar Wilde, il quale invitava a diffidare delle certezze. In uno dei suoi numerosissimi aforismi, ancora oggi molto citati, egli diceva di essere superficiali per non badare alle apparenze, o di resistere a tutto fuorché alle tentazioni.
Geniale.

Wilde, un uomo di grande intelligenza e con la battuta sempre pronta. Un dandy tutto votato al culto del bello. Un seduttore malinconico che diceva: “Il grande dramma della mia vita? E’ quello di aver messo il mio genio nella mia esistenza, tutto quello che ho messo nelle mie opere è il mio talento” E’ nella vita stessa che stava l’arte, non nei libri, questo per Oscar Wilde. Wilde era nato a Dublino nel 1854, visse negli anni più moralisti della storia inglese. Sul trono era assisa la regina Vittoria; guardava con orrore gli eccessi e condannava gli omosessuali alla prigione e a volte all’impiccagione.
E Wilde era eccentrico e omosessuale.

Seduttivo fin da bambino, Oscar apprese di piacere. Per stupire la madre poetessa – che vantava un’inesistente discendenza da Dante – cominciò a comporre poemi in greco e latino. Mamma Jane Frances Elegge, che si faceva chiamare Speranza, era a sua volta un’eccentrica borghese che inseguiva strampalate aspirazioni artistiche, amava i salotti e a Dublino era nota per le sue doti oratorie. Il padre invece, oculista di fama, era un donnaiolo incallito, condannato per stupro. Un background che non poteva lasciare il segno.
Senza freni, sedusse adolescenti e uomini. Quando l’omosessualità rischiava di diventare un  problema, pensò di sposarsi. Dopo tre anni di fidanzamento impalmò la berlinese Constance Lloyd nel 1884. In seguito ebbe due figli, per loro scrisse nel 1888 Il principe felice e altri racconti, ma di certo non fu sufficiente a farne un buon padre. Quando decise di citare in giudizio, per un biglietto ricevuto, chi lo accusava di essere un ruffiano e un sodomita, iniziò la sua fine. Il mittente era Sir John Sholto Douglas, il padre del suo amante Alfred Bruce Douglas, soprannominato Boise. Wilde perse la causa e fu incriminato per omosessualità.
L’ipocrita moralità di quell’epoca era salva.

Fu condannato a due anni di lavori forzati. Lavorava sei ore al giorno a un mulino, con poco cibo e poca acqua, riducendosi (lui che era grassottello) all’ombra di sé stesso. Quando nel 1897, uscì di prigione tutti lo evitarono e la relazione con Boise finì un paio d’anni più tardi.

Dopo aver compiuto qualche viaggio all’estero, si trasferì a Parigi dove terminò di scrivere “La ballata del carcere di Reading, (The Ballad of Reading Gaol) un celebre componimento poetico, dove il tema principale attorno al quale gravita il racconto è la pena di morte, congiunta al senso di alienazione di ogni detenuto.

Senza denti, malato di sifilide, il suo ultimo malinconico aforisma porta le seguenti parole: “Viviamo tutti nel fango, ma alcuni di noi hanno gli occhi rivolti alle stelle”.

Era il 30 novembre 1900, un venerdì, quando in Rue des Beaux-Arts 13, all’età di quarantasei anni, Oscar Wilde cessò la sua travagliata, ma intensa, esistenza di grande drammaturgo.

Vittorino Andreoli nel suo ultimo libro: “L’uomo di superficie” (Rizzoli, pp. 216, € 17,50) scrive: “L’uomo di oggi galleggia su una società liquida, scivola sulla propria pelle, non ha più anima. E rischia di morire: di bellezza, di stupidità, di potere, di denaro. Eppure non è questo l’uomo e non è questo il mondo. La gioia si cala nel mistero che portiamo nascosto dentro”.

Cos’è dunque successo all’uomo, alla nostra civiltà? Tutti concentrati su un apparire puramente  corporei e materiali. Se dapprincipio l’uomo relazionava mediante il corpo e i sensi, che percepivano i colori, i sapori, i profumi e acquisivano in tal modo le loro esperienze esistenziali, ora, abbiamo ucciso quelle capacità di relazioni e di padronanza, delegando all’effimera bellezza e all’apparenza, contrapposta alla via dell’essere e della verità, ricercata dai filosofi presocratici, la nostra unica religione. Non abbiamo più sogni, non coltiviamo progetti, non tolleriamo il silenzio, facciamo quindi rumore per sopportare la solitudine e le nostre paure.

Featured image, Benczúr Gyula (1844-1920), Narcissus (1881), Magyar Nemzeti Galéria, Budapest.

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