Il modello Ilva, sui pilastri delle schiene dritte?

Creato il 31 ottobre 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Allora ci sarebbe anche Vendola nell’Ilva Connection. Il governatore avrebbe fatto pressioni sul direttore dell’Arpa per favorire il colosso siderurgico accusato di aver avvelenato Taranto. Coinvolti anche il parlamentare di Sel Fratoianni, l’attuale assessore regionale all’Ambiente Nicastro, il consigliere regionale del Pd Pentassuglia. Un dolente Vendola rifiuta il teorema accusatorio e rivendica la sua “schiena dritta” davanti i padroni dell’azienda.

Ilva connection è l’efficace titolo che Loris Campetti ha dato al suo libre reportage che racconta il sistema di potere costruito da Riva, diventato padrone incontrastato della siderurgia italiana grazie alla magnanimità dello Stato.

Ma un amalgama di autoritarismo, paternalismo, clientelismo, corruzione ha bisogno di un intreccio fitto, della complicità di tanta parte della politica, delle istituzioni, dell’informazione e degli stessi sindacati, dalla cui sottomissione  subalterna alla proprietà e ostile alla magistratura si è dissociata la Fiom. Nessuno ha potuto o può dire di non aver saputo, di non aver immaginato.  Nessuno può chiamarsi fuori. Nemmeno il presidente con la schiena dritta che sottoscrisse  l’accordo firmato sulla pelle di cittadini e lavoratori che ha dato luogo a un’autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell’Ilva dalla ministra Prestigiacomo e che  fece dichiarare ai partner dell’intesa che a volte bisogna cambiare i valori segnati sul termometro, in modo da dichiarare la febbre ben oltre il 37 ufficiale e l’inquinamento ben oltre i limiti consentiti dalla legge e dal buonsenso.

 Nessuno può dire di essersi sottratto al ricatto come sistema di governo e di gestione delle relazioni industriali: cancro o occupazione, salute o salario, ambiente o crescita, diritti o paga, quando l’unico diritto concesso è rinunciare a tutte le prerogative e le garanzia in cambio della fatica. Nel migliore di casi, la dinastia dei Riva hanno gestito gli impianti dell’Ilva “a esaurimento”: investendo cioè solo l’indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all’estero, infischiandosene  dell’impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni, nel silenzio generale quando non nella correità.
Nessuno potrà dire di non essersi accorto che  dietro la gestione Riva, non c’era nessuna  strategia industriale che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile, grazie all’evidente sostegno di  una struttura parallela e illegale di “fiduciari”, di “consulenti”, di supporter incaricati delle operazioni, della “comunicazione”, delle  manomissioni e mistificazioni che sono all’origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell’inquinamento della città,  ma che non rispondevano e risono dono delle loro malefatte, perché ufficialmente  non esistono e che dialogavano e dialogano  con i vertici ancora al loro posto, con i Riva, con l’improbabile e inammissibile commissario.
Nessuno poteva non sapere in cosa consistesse il “modello” Riva. Eppure finché non è intervenuta la magistratura,  nessuno, né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né Regione, né governo, nemmeno la curia,  ha sentito il bisogno di denunciarne procedure, modi, misfatti, pressioni, evidenti come la polvere nera che si deposita sulla città, come i numeri delle patologie e la loro incidenza sui lavoratori e i cittadini .

Eh certo, un’acciaieria non è un salotto, ha detto qualcuno. Fumi e polveri  sono un effetto “naturale”,  lavorarci dentro è faticoso e pericoloso eppure è stato il sogno di varie generazioni in Puglia e altrove:  all’Italsider si è forgiata una classe operaia, il salario ha permesso a molte migliaia di persone di mandare i figli all’Università, di comprare l’automobile e la casa.

Nessuno però può negare  che il maggiore benessere è stato pagato da un crescente inquinamento, dalla comparsa di malattie, alcune mortali, così come nessuno può negare   che è possibile   produrre acciaio con un minore inquinamento e con minori danni per la salute, abbattendo una parte dei fumi, delle polveri e delle sostanze nocive. Ma si tratta di misure che   comportano un incremento dei costi di produzione, minori profitti per l’imprenditore, sia esso un padrone pubblico, come lo Stato ai tempi dell’Italsider, sia esso un padrone privato come dopo la vendita dell’Italsider trasformata in Ilva.

Nessuno quando si parla di privatizzazioni dovrebbe dimenticare quanto ci è costata a ci costa l’Ilva: un gioiello tecnologico di Stato svenduto a una famiglia spregiudicata e già compromessa che aveva fatto la grana con i rottami di ferro, cui venne offerto a basso costo da governi complici motivando il passaggio di mano con  le cattive prestazioni  del settore imputate alle ingerenze della politica. E ci si dovrebbe ricordare anche che i Riva, che sono tra i principali azionisti privati di Alitalia,  si presero quello che definirono un “peso morto” in cambio della possibilità di inquinare, malversare, corrompere, con l’acquiescenza di un sistema di sostegno intorno, scellerato quanto loro. Che era quello il loro diritto acquisito, mentre ai cittadini di Taranto restava solo quello di subire e morire.


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