Il modello tedesco: non è tutto oro quel che luccica

Creato il 27 luglio 2013 da Unstableeconomy @UnstableEconomy
Originariamente pubblicato su Economia Per I Cittadini Il fantastico modello tedesco è un modello da emulare. Lo sostengono tutti, da Beppe Grillo a Draghi. Ma è realmente tutto oro quel che luccica? L’editorialista del Financial Times Martin Wolf ha un’opinione diversa, e in un articolo del 7 maggio scorso spiega esattamente in cosa consista il decantato modello tedesco: “La Germania ha fatto funzionare questo modello stabilizzando l’economia attraverso la bilancia dei pagamenti: l’attivo cresce quando la domanda interna è debole e viceversa. L’economia tedesca è, a prima vista, troppo grande per affidarsi a un meccanismo che è invece tipico di economie piccole e aperte. Eppure è riuscita a farlo, perché si è affidata al suo eccellente comparto manifatturiero orientato alle esportazioni, e alla sua capacità di comprimere i salari.“ Ne consegue che: “Un tale modello di stabilizzazione funziona bene solo se il Paese che esporta trova mercati esteri vivaci.“ Si deve osservare, innanzitutto, che il comparto manifatturiero tedesco supera in efficienza tutti i concorrenti intra-europei, grazie anche alla possibilità fornita alla Germania di spalmare gli ingenti costi della riunificazione sui novelli cugini europei. Lo afferma velatamente il rettore della Bocconi Mario Monti nel 1992, davanti alla Commissione Bilancio e Tesoro:

Il problema della finanza pubblica italiana è grave per il motivo, ben noto, delle dimensioni del debito. Il 1992 è stato per la Cee un anno di disavanzi pubblici elevati, anche a causa della riunificazione tedesca. Però se (…) nel resto della Cee il disavanzo corrente è stato dello 0,7% del Pil, quello italiano (6,2%) è stato di 8,9 volte tanto“.
Non quindi una locomotiva, ma piuttosto un “rimorchio”, come ha ironicamente chiosato il blogger Piero Valerio.

In secondo luogo, non ci si può dimenticare della vera chiave di volta del successo dell’export tedesco: politiche di moderazione salariale come le riforme Hartz, con le quali si è ottenuta una forma estrema di concertazione sindacale e si sono introdotte forme di sussidio diretto ed indiretto al sistema della piccola-media impresa. Quindi più flessibilità (con meno ipocrisia si dovrebbe dire “più precarietà”), meno potere negoziale dei sindacati e salari stagnanti, ma compensati da aiuti statali nella forma di trasferimenti e sussidi: un “neoliberismo dal volto umano“.
E questo poiché salari più bassi o che comunque crescono più lentamente della produttività, come spiega Wolf, consentono di deprimere la domanda e i consumi interni, creando le condizioni per massimizzare lo sfruttamento della domanda estera.

A questo punto, tuttavia, viene da chiedersi come una ricetta simile possa essere applicata alla totalità dei Paesi dell’Eurozona, come vorrebbero la Troika e gran parte dei politici nostrani. Se ogni Paese dell’Eurozona è costretto a puntare sulla domanda proveniente dagli altri Paesi membri, mentre ognuno si impegna a deprimere la propria domanda, come potranno tutti esportare contemporaneamente più di quanto importano?

Per chi è in buona fede, si tratta di una fallacia di composizione: se ci si alza in piedi allo stadio riusciamo a vedere meglio la partita, ma se lo facciamo tutti nessuno vede meglio. Fuori dal parallelismo calcistico, è evidente che le ricette fondate sul successo di un soggetto a discapito degli altri non possano essere applicate che da uno solo di essi; il più forte, logicamente.

Per chi è in mala fede, invece, si tratta della svendita degli interessi nazionali alle logiche del neoliberismo europeo.

Tags: crisi, euro, eurocrisi, Germania, macroeconomia, minijob, modello tedesco, riforme hartz, salari

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