Il monaco

Da Paride

Il monaco a caccia di libri in una casa abbandonata dagli infedeli trovava in un baule uno strano cono di cuoio con due lenti di vetro di circonferenze diseguali alle estremità. La luce vi passava attraverso e il monaco puntava istintivamente l’estremità più grande verso un fiume lontano, alle cui sponde si notava del movimento. Altrettanto istintivamente posava l’occhio all’estremità più piccola e dopo aver socchiuso l’altro gli si materializzò davanti una giovane donna senza vestiti nell’acqua fino alle ginocchia. Indulse a guardarla bagnarsi ripetutamente il petto e passarsi l’acqua tra le coscie bianche. Passato un lunghissimo minuto realizzava il suo peccato. Lo strumento dell’infedele era un’arma del demonio. Come tale andava distrutta.
Partiva per un pellegrinaggio con altri monaci. Si festeggiava il ritorno di quelle terre sotto la corona cattolica. Nottetempo il monaco si perdeva volontariamente in una zona desertica, lontana da qualsiasi occhio umano. Tirava fuori dalla bisaccia lo strumento che “vedeva come Dio”, che portava gli occhi più lontano da dove Dio avesse deciso che potessero arrivare. Ne calpestava le lenti e lacerava il cuoio. Scavava numerose buche e vi depositava i pezzi dello strumento. Si inginocchiava a pregare gli venissero perdonati i suoi peccati e stette in quella posizione per sette giorni e sette notti.
All’alba dell’ottavo giorno la vista del sole lo commuoveva, ma non si sentiva ancora contrito. Il suo peccato era stato troppo grande. Capiva che non avrebbe potuto continuare a vivere con quella colpa. Allora si cavava gli occhi per espiare. Stette altri sette giorni e sette notti in ginocchio, in preghiera. All’alba dell’ottavo giorno sentiva il sole sulla pelle e si commomueva nuovamente, ma nessuna lacrima scendeva lungo le sue gote. Singhiozzava e si vergognava della sua puerilità. Si strappava allora la lingua per evitare altri gemiti infantili. Rimaneva altri sette giorni e sette notti a pregare per espiare la sua grandissima colpa.
All’alba dell’ottavo giorno veniva a piovere. L’acqua cadeva fitta e lo purificava della polvere e lo dissetava dall’arsura che aveva consumato la sua bocca muta. Rimaneva a contemplare il suono delle gocce sulle foglie degli alberi intorno a lui, sulle pietre, sulla polvere ormai fango. Intuiva un’armonia segreta di cui mai aveva sentito parlare e di cui mai aveva trovato traccia nei libri, nonostante ne avesse letti quanti ne erano stati scritti. Ne era degno? Per risposta si tagliava le orecchie. Dopo altri sette giorni e sette notti, all’alba dell’ottavo giorno, proprio sotto il suo mento sbocciava un gelsomino, poco più in là riconosceva la malva, dietro di lui una roccia antica ospitava una ginestra. Il ronzare degli impollinatori gli sfiorava il viso e le mani giunte. La vita lo tentava con tutte le sue passioni. Ne era degno? In risposta si tagliava il naso.
Passavano altri sette giorni e sette notti di preghiera per la salvezza della sua anima. All’alba dell’ottavo giorno sentiva delle piccole punture alle piante dei piedi che interrompevano la sua richiesta di grazia. Cercava di alzarsi, ma le poche forze che gli rimanevano glielo impedivano. Tutt’intorno a lui il suo sangue raggrumato aveva attirato un esercito di formiche che espugnavano il suo corpo, come un castello senza difese. Il monaco cercava di strapparsele di dosso, ma non le vedeva. Sentiva ogni piccolo morso e centinaia di morsi tutti insieme, ma non poteva più gridare. Non udiva il grido dell’avvoltoio, né sentiva il profumo della polvere quando stramazzò. Non gli fu di viatico il pensiero terribile dell’inappellabile condanna che il suo Dio dall’occhio onniveggente gli avrebbe comminato dopo la morte per la sua imperfetta condotta.


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