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Il monastero nel Medioevo: centro di spiritualità e diffusione del sapere

Creato il 04 giugno 2014 da Isabelje60754 @IsabelJE60754
Il monastero nel Medioevo: centro di spiritualità e diffusione del sapere
A partire dal V sec. d.C. il Cristianesimo, ormai diffusosi sia nell’Impero Romano d’Oriente che nei Territori Occidentali, forte anche della sua condizione ormai secolare di unico culto ammesso e riconosciuto (con l’Editto Teodosiano di Tessalonica, nel 380), conobbe una significativa spinta evolutiva grazie ad un fenomeno che, una volta preso piede in Occidente, in pochi decenni si diffuse in tutta Europa: il Monachesimo. Per la verità, le prime esperienze di vita ritirata, vissuta lontana dal caos e dalle perdizioni della civiltà, erano già state sperimentate a partire dal III sec. d.C., quando diversi cristiani avevano iniziato a condurre, specie in Oriente, una vita ascetica e in povertà, ritirandosi in luoghi sperduti e solitari e dedicandosi unicamente alla preghiera, alla meditazione e all’osservanza letterale degli insegnamenti evangelici, senza seguire alcuna regola dettata dall’uomo ma fedeli unicamente alla regola del Verbo. La vicenda dei primi eremiti (dal greco ἐρημίτης = colui che vive in solitudine) è attestata in Egitto, come quella di san Paolo di Tebe (230-335), che secondo la tradizione agiografica visse 90 anni nel deserto e ne è considerato il capostipite (è infatti conosciuto come “Protoeremita”), poi imitato da sant’Antonio abate (251-357) e dal discepolo di questi, sant’Ilarione di Gaza (291-371). 

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Monastero di Kutaisi, Georgia

Grandi asceti che consacrarono la loro intera esistenza al distacco dalla materialità corrompente e dalle comodità e i lussi legati alla contingenza terrena, per ricercare l’essenza interiore in un rapporto quanto più diretto possibile con Dio, servendosi unicamente degli insegnamenti incorrotti del Figlio. Il loro esempio ben presto si diffuse in tutto l’Oriente cristiano (Palestina, Siria, Anatolia, Ponto, Tracia, Macedonia, Tessaglia ma non solo) e dal IV sec., anche in Occidente, grazie soprattutto alla migrazione di diversi eremiti orientali in Europa. Proprio nel corso del IV sec., con la diffusione del fenomeno, gli eremiti iniziarono a costituire delle vere e proprie piccole comunità: non più uno, ma diversi cristiani desiderosi di preghiera e meditazione che, volendo allontanarsi dalla civiltà, iniziarono a vivere e a condividere le loro esperienze mistiche in “cenobi” (dal greco kοινός e βίος = vita in comune) o conventi, che però, specie a partire dal V sec., assunsero caratteristiche ben distinte in base all’area geografica di fondazione. I conventi orientali (fondati a partire da san Basilio nel IV sec.) ebbero carattere marcatamente ascetico-meditativo, in linea con l’atteggiamento di distacco contemplativo dei primi eremiti egiziani. Quelli occidentali invece, animati dallo spirito pragmatico e attivo della vivace Europa, si distinsero per industriosità e per la concretezza delle molteplici attività che in essi presero piede.

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Abbazia di Montecassino

Due tra i più rilevanti fondatori di comunità monastiche in Occidente, e nella fattispecie in Italia, nel corso del VI sec. d.C furono Benedetto da Norcia (480-547) e Cassiodoro (485-580). Il primo, dopo aver trascorso diversi anni in ritiro eremitico in territorio laziale, divenendo guida di alcuni monaci fondò nel 529 un cenobio presso Montecassino, a metà strada tra Roma e Napoli. Sarebbe diventata in pochi anni la celebre Abbazia conosciuta in tutto il mondo come centro spirituale e fondamentale germe di diffusione del Monachesimo in tutta Europa. Benedetto lì dettò la sua chiarissima Regola, disciplinando la vita e le attività manuali e spirituali dei monaci secondo il precetto “Ora et Labora”: i monaci, considerati tutti al pari livello indipendentemente dalla loro origine etnica (romana o barbarica) o dall’estrazione economico-sociale della famiglia di provenienza (nessun favoritismo né riconoscimento di autorità in base ad essa), si dedicavano a numerose attività di natura pratica, come la coltivazione dei campi, la bonifica di paludi, la cura dei malati e degli indigenti, la costruzione di mulini, di ospizi e foresterie per accogliere i pellegrini e tutte le anime cristiane che bussavano alle porte del convento in cerca di riparo e ospitalità. Il tutto fortificato dal sostegno della preghiera, una pratica ben disciplinata dalla Regola, che doveva accompagnare costantemente le attività conventuali da prima del sorgere del sole fino alla sera. 

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San Benedetto da Norcia

Una vita all’insegna dell’umiltà e della temperanza, ma senza le privazioni e le mortificazioni tipiche del Monachesimo orientale; persino la dieta alimentare era regolamentata, e se è vero che era vietata la cucina di lusso (compresa la “carne dei quadrupedi”), non si faceva certo troppa economia sulla quantità e qualità del cibo: Benedetto infatti, nella sua Regula (cap. XXXIX) aveva disposto la preparazione, per ogni mensa, di due pietanze tra cui scegliere, a cui poteva aggiungersene una terza (frutta o legumi), accompagnate da “una buona libbra di pane” al giorno. E se il lavoro della giornata si era rivelato particolarmente pesante, l’abate (ossia il superiore che amministrava il convento) poteva anche decidere di aggiungere qualche vivanda in più, evitando sempre gli eccessi “perché niente è così contrario in ogni cristiano quanto l’intemperanza nel mangiare e nel bere”. A ciò si univa anche un’importante attività intellettuale: Montecassino infatti è passata alla storia come una delle più grandi e preziose Biblioteche del Mondo Occidentale che, grazie ad una tempestiva e velocissima opera di salvataggio, la Seconda Guerra Mondiale non ha distrutto, a differenza di quanto purtroppo avvenuto nel 1944 con l’edificio in sé (poi ricostruito). A Cassino infatti, come in tutte le più importanti comunità conventuali europee dal VII sec. in poi, fu attivo uno scriptorium, all’interno del quale i monaci si dedicavano alla laboriosa e paziente ricopiatura di antichi codici non solo a contenuto sacro, ma anche profano.

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Castello di Squillace

C’è però da dire che, se l’Abbazia di Montecassino divenne famosa (e ben presto imitata) in Europa come esempio comunità industriosa dedita perlopiù ad attività di natura pratica al servizio di Dio, ci fu un altro cenobio meno conosciuto, che per antonomasia rappresentò il Monastero medievale inteso come centro pressoché unico di elaborazione e diffusione del sapere: la comunità monastica di Vivarium, presso Scolacium (Squillace, Calabria). La spinta propulsiva che animò la fondazione di questo cenobio fu costituita proprio dall’amore per la conoscenza e lo studio e la trasmissione dei testi classici, sacri e profani, vera testimonianza della grandiosità umana nel complesso disegno divino. Motore di questa nobile attività fu Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, fondatore della comunità. A differenza di Benedetto, la cui esistenza per sua scelta fu fin dalla più giovane età incentrata sulla preghiera e la meditazione sul Cristo anche attraverso esperienze ascetiche, la vicenda di Cassiodoro seguì un percorso assai diverso. Proveniente da una famiglia di alti funzionari imperiali (il padre aveva ricoperto ruoli di spicco nel disegno amministrativo del Tardo Impero, fino a divenire governatore provinciale della Sicilia e della Calabria sotto re Teodorico), fu avviato fin dall’adolescenza al cursus honorum: come testimoniato all’interno delle sue Variae, egli fu consiliarius (consigliere) e poi quaestor sacri palatii (assistente al monarca nell’elaborazione e attuazione di leggi) presso la corte di Teodorico (507). Dopo aver ricoperto la funzione di governatore di Lucania e Bruzio, è attestata l’ascesa al consolato nel 514, fino a divenire magister officiorum nel 523: ruolo di spicco, tra le più alte cariche orbitanti attorno al trono, se pensiamo che comprendeva la direzione degli uffici imperiali di segreteria (scrinia), dell’informazione e della sicurezza del sovrano, delle scholae palatinae (la guardia imperiale), dei servizi postali, del personale e delle cerimonie di corte, delle udienze reali, delle fucine militari, a cui si aggiunsero ben presto anche competenze ambasciatoriali e giurisdizionali. 

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Flavio Magno Aurelio Casiodoro

Al servizio degli Ostrogoti, Cassiodoro conquistò la fama di ministro fidato e colto, a cui si aggiunse il riconoscimento, grazie ad opere di carattere celebrativo (tra cui una Historia Gothorum pervenutaci solo in frammenti), di storico “di corte”. Sotto Atalarico arrivò a ricoprire la carica di Prefetto del pretorio per l’Italia, ma con lo scoppio della Guerra Gotica (535-553), sentendosi minacciato in quanto funzionario devoto di Teodorico, di fronte all’avanzata bizantina cercò riparo dapprima a Ravenna, poi a Costantinopoli al seguito e sotto la protezione di papa Vigilio (550), fino al ritiro definitivo dalla vita pubblica nel 554 a Scolacium, dove presumibilmente aveva trascorso gli anni dell’infanzia attendendo agli studi. Ed è proprio qui che, forse seguendo l’esempio benedettino ma di sicuro animato da una dedizione assoluta per le lettere (testimoniato, oltre che da scritti a carattere storico-cronachistico, anche da opere di dissertazione politica e religiosa) Cassiodoro fondò il suo Vivarium. La datazione è incerta: si parla del 555, anche se lo storico Franco Cardini sostiene l’ipotesi di una probabile fondazione già nel 544, in piena Guerra Gotica, di ritorno da un suo viaggio da Costantinopoli. È anche possibile che un primo abbozzo di comunità cenobitica esistesse già negli anni precedenti, e che Cassiodoro ne abbia ampliato la struttura sia a livello architettonico che operativo. Quel che è certo, è lo scopo primario perseguito dal Monastero e dal fondatore stesso: preghiera e lavoro intellettuale, improntato principalmente allo studio e alla trascrizione dei testi. E a differenza di Benedetto, che nella sua Regula parla poco di “lectio”, dando molto più spazio al lavoro manuale, Cassiodoro organizza nel dettaglio l’attività intellettuale a cui i monaci devono dedicarsi durante l’intera giornata. Le sue Institutiones divinarum et saecularium litterarum, che impropriamente possono esser considerate la “Regola” cassiodorea, rappresentano un vero e proprio programma di studio distribuito ora per ora, materia per materia: nel Liber I vi sono capitoli dedicati alle riflessioni sulle Sacre Scritture e le Vite e le Opere dei Santi, l’organizzazione del cenobio e le mansioni da svolgersi al suo interno; il Liber II è invece dedicato alla descrizione delle Arti liberali, sia quelle del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) sia quelle del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), il cui studio verrà considerato, specie nei secoli a venire, come indispensabile per la formazione dell’uomo colto. Cassiodoro afferma espressamente che “l’ozio è nemico dell’anima” e che quindi i monaci devono dedicarsi “in determinate ore al lavoro manuale”, in altre “alla lettura dei libri sacri”. E quest’ultima attività viene tenuta in primaria considerazione e scandita non soltanto nell’arco della giornata, con lo scoccare delle ore e la recita delle Preghiere, ma anche mese per mese, diversificandone la distribuzione a seconda del periodo e della variazione di ore di luce e di buio legata allo scorrere dell’anno solare. 

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Monaci a cena

Altro aspetto interessante, le Institutiones prevedono anche che uno o due monaci più anziani svolgano mansioni di vigilanza all’interno del convento, controllando che tutti i religiosi, nelle ore previste, si dedichino alla lettura e allo studio e non ci siano invece frati pigri e in ozio o che, con le loro chiacchiere, disturbino quelli coscienziosi e diligenti, prevedendo rimproveri e addirittura penitenze in caso di perseveranza nell’errore. Viene persino fatto divieto, ai monaci, di riunirsi tra loro al di fuori degli orari previsti. Si nota un’attenzione quasi esclusivamente dedicata alla pratica intellettuale, più che un cenobio è come trovarsi di fronte ad una vera e propria istituzione scolastica, con tanto di programma formativo e regolamento disciplinare. Lo studio anche di autori pagani, necessario per comprendere al meglio la portata di quelli cristiani e il messaggio delle Scritture; l’otium letterario, inteso alla latina ma permeato di cristianità. Cassiodoro aveva visto precipitare il suo mondo, in cui era stato educato e aveva fatto carriera, nel giro di qualche decennio: la Guerra tra Goti e Bizantini, il tramonto della vicenda gotica e poi le prime invasioni dei Longobardi lo avevano probabilmente convinto a fuggire da quella realtà fatta di tensioni e di incertezze e di votarsi unicamente ai suoi studi, animato comunque dallo spirito di “curiosità cristiana” che traspare dalla sua “regola”. Le attività di studio che animavano il suo Vivarium comprendevano, tra l’altro, una pratica in cui il centro eccelse facendone uno dei principali poli di diffusione culturale per l’epoca, nonché uno dei massimi modelli per i secoli a venire: l’attività propria dello scriptorium, quella della ricopiatura dei testi. A questa mansione è dedicato un intero capitolo delle Institutiones (XXX, De antiquariis et commemoratione orthographiae), in cui Cassiodoro candidamente afferma: “Io confesso che, fra tutti i lavori fisici da voi svolti, preferisco non senza una giusta ragione quello dei copisti, quando ovviamente scrivono senza errori, poiché essi, leggendo le divine Scritture, istruiscono in maniera salutare la loro mente e scrivendo seminano in lungo e in largo gli insegnamenti del Signore”. E l’elogio della scrittura continua, in quanto “santa attività”, che consente di “predicare agli uomini con la mano” e combattere “con penna e inchiostro” contro Satana, che riceve “tante ferite quante sono le parole del Signore scritte dal copista”. E ancora: “I copisti sono degni di lode perché sembrano imitare in un certo qual modo l’azione del Signore che scrisse (…) la Sua legge col Suo dito onnipotente” e forzandone l’origine etimologica, egli descrive i librarii (copisti, appunto) come coloro che servono la libra (“bilancia”) del Signore, maneggiandone e soppesandone con cura le parole (in realtà librarius deriva da liber, “libro”, non da libra). E proprio per evitare che tali parole o le singole lettere fossero ricopiate erroneamente, che il copista doveva tenere in grande considerazione le regole sull’uso di vocali e consonanti, aggettivi e sostantivi e sulla loro collocazione all’interno delle frasi o dei singoli termini dettate dagli “antichi scrittori di ortografia”, tra cui Velio Longo, Curzio Valeriano, Papiriano, Adamanzio Martirio, Eutiche e Foca, che lo squillacese ebbe cura di raccogliere in un manuale ad uso pratico dello scriptorium assieme ad un prontuario da egli stesso scritto, intitolato “De orthographia”. Il tutto per garantire un lavoro accurato e per evitare che errori di scrittura potessero suggerire interpretazioni fuorvianti del testo.

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Amanuensi nel X secolo


Ma, vista la portata spirituale attribuita da Cassiodoro all’attività del copista, al di là del lavoro pratico di scrittura, è spontaneo chiedersi: qual era il modus operandi dell’amanuense? Come era organizzata la sua mansione? Quali erano i luoghi e gli strumenti di lavoro?
Gli scriptoria erano enormi sale, annesse al convento, in genere ben illuminate da ampie finestre anche se spesso, nelle giornate con poca luce o quando il lavoro si protraeva nelle ore notturne, si faceva largo uso di lucerne e candele. Ciascun amanuense lavorava seduto, come attesta la maggior parte delle raffigurazioni medievali, di norma su un leggio inclinato per rendere, per quanto possibile, più comodo il lavoro ed avere una visione completa della pagina. Ma da alcune illustrazioni miniate si deduce che nell’Alto Medioevo l’amanuense più spesso lavorasse poggiando il foglio direttamente sulle proprie ginocchia: probabilmente ciò avveniva in assenza di scriptoria non ancora adeguatamente attrezzati, oppure nel caso in cui l’attività scrittoria veniva svolta all’interno della propria cella anziché in spazi comuni. 

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Pergamena rigata

Il materiale su cui si procedeva alla scrittura era costituito da fogli di pergamena (il papiro era troppo delicato e di difficile reperibilità, mentre la carta sarebbe stata introdotta solo nel XII sec. dall’Oriente), preziosissimi in quanto ricavati dalla pelle bovina (quella dei vitelli da latte era la più preziosa, perché più morbida e quasi priva di difetti), adeguatamente lavata, trattata con idrossido di calcio (la “calce spenta”), essiccata su un apposito telaio, raschiata e assottigliata con un particolare coltello a mezzaluna, per poi essere ulteriormente levigata con uso deciso della pietra pomice, al fine di eliminare pelame ed irregolarità residui. Dopo essere stata nuovamente lasciata essiccare, si procedeva al taglio del foglio con riga e squadra. Il foglio, a seconda delle dimensioni del volume finale, poteva essere piegato una o più volte, dando così il nome ai formati legatori ancor oggi in uso: in folio (se piegato una volta), in quarto (due volte), in octavo (tre volte) ecc.. Il foglio, comunque, prima della scrittura vera e propria era sottoposto a rigatura, per consentire la stesura uniforme e omogenea del testo. In epoca più antica, e presumibilmente al tempo di Cassiodoro, si procedeva tracciando solchi direttamente sul foglio, avvalendosi di punctoria, ossia punteruoli in ferro. Era sufficiente sovrapporre più fogli e procedere ad una buona pressione sul primo, per ottenere una tracciatura visibile anche sugli altri fogli sottostanti. A partire dal X-XI sec. invece si preferì stendere le righe di testo attraverso lapis in piombo o più raramente grafite sui singoli fogli, consentendo in tal modo di variare lo spessore e la lunghezza del tratto, delimitare con precisione lo spazio necessario per miniare e decorare, ecc.. Dal XII-XIII sec. al piombo o grafite iniziò a preferirsi l’inchiostro colorato, per un risultato più chiaro e definito.

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Gli strumenti dell'amanuense

 Il càlamus era la “penna” con cui si scriveva, una volta intinta nell’inchiostro: si trattava di una cannuccia sottile di lunghezza tale da essere facilmente impugnata dalle tre dita dello scrivente, ricavata da steli di giunco ben essiccati. La punta veniva intagliata obliquamente (verso destra o sinistra) o in forma piatta, a seconda dello spessore che voleva darsi alla scrittura, e anche l’angolo di intaglio poteva variare per lo stesso motivo. Il calamo fu senza dubbio lo strumento di scrittura più antico ad essere utilizzato (le testimonianze risalgono addirittura a Sumeri ed Egizi), ebbe larghissimo uso nel corso dell’Alto Medioevo, affiancato a partire dal VI sec. e poi dall’XI progressivamente sostituito dalla penna d’uccello (oca in genere) la quale, oltre all’immediata reperibilità, presentava una punta più morbida e malleabile, consentendo una maggiore variabilità nelle dimensioni delle lettere e ben prestandosi al tratto sottile e leggero. Lo scalprum era invece il temperino utilizzato per affinare le punte sia dei calami che delle penne d’oca. L’inchiostro più comune utilizzato in epoca medievale, ma noto fin dall’età romana, era il “ferrogallico”, ricavato da un infuso di “galle” (escrescenze nodose che si formano sui tronchi di alcuni alberi, come la quercia) a cui si aggiungevano solfato ferroso (vetriolo verde) e gomma arabica o bianco d’uovo. L’infuso era a base acquosa, ma spesso venivano utilizzate, per la loro proprietà fissante, anche aceto, vino e birra. Il ferro gallico era un inchiostro sicuro e praticamente indelebile, ed è per questo che in caso di errore la sola spugna inumidita non bastava a rimediare, e si doveva procedere con la novacula o rasorium, un piccolo raschietto che cancellava l’errore. Il colore poteva variare, a seconda della concentrazione di pigmenti, da un nero più scuro ad un nero seppia. La stessa tonalità scura poteva anche essere ricavata dal nerofumo, estratto dal carbone triturato diluito in soluzione acquosa. Altri tipi di inchiostro di origine minerale meno diffusamente utilizzati erano il cinabro e il minio, di tonalità rossicce e noti anche, almeno in tempi più recenti, per la loro tossicità: l’avvelenamento da contatto (e talvolta da ingestione involontaria, per esempio leccando le punte per pulirne il tratto), c’è motivo di crederlo, non era così infrequente in epoca medievale. Il tono d’azzurro cielo che spesso si vede risplendere nelle miniature dei codici più preziosi era ricavato, come per i dipinti, dai costosissimi lapislazzuli di provenienza orientale. Altre tonalità potevano essere ricavate anche da infusi di origine vegetale (fiori, foglie e bacche), a cui si aggiungevano spezie o estratti minerali per allungarne la conservazione e migliorarne il fissaggio. Stesso dicasi per i lucenti inchiostri d’oro e d’argento, il cui utilizzo si affermò soprattutto nel Basso Medioevo, specie per decorare le iniziali e i titoli. Gli inchiostri, sia quelli scuri che quelli più preziosi, erano contenuti negli atramentaria, i calamai del tempo, vasetti in terracotta dalla bocca stretta e di altezza tale da consentire a calami e penne di essere temporaneamente riposti, dando modo al copista di voltare una pagina completata, di pulirla da eventuali macchie e correggere eventuali errori con spugna o raschietto, o semplicemente di riposarsi. Sì, perché il lavoro del copista era lungo, paziente e assai faticoso e le testimonianze dirette, a tal proposito, non mancano di certo.

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Miniatura della scuola del Vivarium

Con il radicarsi e il diffondersi dell’attività, nel corso dei secoli le maestranze all’interno di uno scriptorium iniziarono a differenziarsi: oltre allo scriptor propriamente inteso, si attesta la presenza di un corrector, specializzato nella rilettura del testo per individuare e correggere eventuali errori, nonché del miniator, addetto alle decorazioni delle iniziali, dei titoli e del bordo pagina il quale raggiunse, specie verso il Tardo Medioevo, vette di eccellenza straordinaria tanto da essere considerato un vero e proprio artista. Per fare un esempio, pensiamo ai tre Fratelli Limbourg, miniaturisti fiamminghi attivi nella prima metà del XV sec., che al servizio di Jean de Berry, duca di Valois (1340 – 1416) raggiunsero fama di decoratori eccezionali: il loro Libro d’ore Très riches heures du Duc de Berry (1412-1415) rappresenta una vera opera d’arte, il massimo esempio di perizia e impiego talentuoso delle tecniche e dell’inventiva miniaturistica di stampo tardo-gotico. Un ruolo importante era anche quello del lector, il cui compito era chiarire dubbi relativi alla lingua del testo o all’interpretazione dei brani di difficile lettura in quanto mal trascritti o con evidenti errori grammaticali. Oltre, naturalmente, alle maestranze artigiane che realizzavano i fogli e le rilegature dei volumi, o che erano chiamate a impreziosirne le copertine anche con metalli preziosi e pietre dure. Bisogna infatti tener presente che talvolta i codici erano commissionati da nobili o alti prelati abbienti o ricche abbazie, e che un singolo codice poteva rappresentare un patrimonio non solo dal punto di vista culturale, ma anche economico.
Un lavoro faticosissimo, dicevamo. Nel freddo salone, specie durante le lunghe giornate invernali, rimanere piegati per ore su un foglio stringendo il calamo tra le dita e impiegando la massima concentrazione, data la preziosità dei materiali e del contenuto del testo, non doveva essere per nulla facile. E ce ne danno testimonianza talune annotazioni che gli stessi copisti lasciavano in calce sulle pagine. Una formula spesso utilizzata dallo stanco copista, che riscontriamo in numerosi Codici risalenti al XIII-XV sec., tra cui un Codice realizzato da un certo Iohannes de Mediolano nel 1392, un Codice opera di Iacobus Such di Eslingen del 1454 e nel Codice Cassinese n.5, recita:
“Scribere qui nescit, nullum putat esse laborem;
tres digiti scribunt, totum corpusque laborat.”

Ossia: “Chi non sa scrivere, considera questo come un lavoro da nulla; tre sole dita scrivono, ma l’intero corpo si stanca”.
Un copista del X sec., Leone da Novara, vi aggiunge gli effetti della fatica scrittoria: “Rende curva la schiena, fa rientrare le costole nel ventre, arreca ogni sorta di fastidio al corpo” e perciò invita il lettore ad essere delicato con il libro, maneggiandolo con la massima cura e pulizia delle mani. “Meum nomen non pono, quia me laudare nolo”: “non pongo il mio nome, poiché non voglio lodare me stesso” annota l’anonimo copista del Codice Cassinese n.227. Ma è proprio grazie al paziente ed estenuante lavoro di tanti anonimi come lui, che oggi il patrimonio letterario d’Italia, d’Europa e dell’intera umanità può dirsi tanto ricco.
Andrea Zito
BIBLIOGRAFIA
- F. Cardini, Cassiodoro il Grande. Roma, i barbari e il monachesimo, Milano, Jaca Book, 2009
- G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo, Milano, Jaca Book 2009
- A. Rapetti, Storia del monachesimo medievale, Bologna Il Mulino 2013
- A. Brancati, Popoli e civiltà 1, La Nuova Italia 1995
- Cassiodoro, Le Istituzioni, a cura di Mauro Donnini, Città Nuova, 2001
- G. Andres, Lettera dell’abate Giovanni Andres al sig. abate Giacomo Morelli sopra alcuni Codici delle Biblioteche Capitolari di Novara e di Vercelli, Parma Stamperia Reale, 1802

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