In mostra a Spazio Tadini le opere di Veronique Dalschaert presenti nel film “Diario di un maniaco per bene” presto nelle sale cinematografiche per la regia di Michele Picchi, interprete principale Giorgio Pasotti. LEGGI Scheda Film
SCRIVE IL REGISTA MICHELE PICCHI:
«Diario di un maniaco perbene» è una commedia amara che ruota attorno ad un quarantenne in crisi, e proprio per questo ironico verso il mondo esterno e verso se stesso. E’ facile affezionarsi a Lupo, il protagonista di questo film, interpretato da Giorgio Pasotti, un personaggio divertente, sarcastico, maniacale, drammatico, a volte tenero, altre ridicolo. Un personaggio “da film” eppure così reale, un artista non romano che vive a Roma quasi da straniero, un artista in difficoltà che proprio per questo spesso fa sorridere ma che all’improvviso sa anche turbare ed emozionare.
Lupo apparentemente ha uno sguardo seducente e modi dolci e affabili che non lasciano trasparire nulla, o quasi, della sua crisi. Anche nei momenti più drammatici riesce a rassicurare il mondo. Il problema di Lupo è che lui in realtà non è così, anzi. All’inizio del film lo troviamo che sta per impiccarsi dopo essere stato lasciato da due donne consecutive: ma appena appende la corda a una trave del suo studio da pittore, viene interrotto dalla telefonata di un’amica che via skype gli chiede consigli d’amore. Nel finale, Lupo scioglie in filamenti di corda il cappio con cui intendeva impiccarsi, e crea l’opera artistica che dà avvio al suo rilancio creativo.
Tende i filamenti di corda da un margine all’altro di un telaio, e forma una specie di reticolo sul quale appare la figura di un cervo di carta. Le nevrosi si sciolgono in nuvole di creatività, come neve al sole. La disperazione si tramuta di colpo in leggerezza, come se il baratro e il soffio vitale fossero due modi opposti di osservare le stesse cose. Come per generazione spontanea, nascono nuovi quadri, nuovi animali: sono le tele a olio di Véronique Dalschaert con la loro esplosione di colori accesi e squillanti, con la loro combinazione surreale di animali e cose.
Un grande volatile che tiene un violino arancione per il becco… Una rana marrone e una libellula blu che si osservano… Un tavolo con sopra dei pesci di colori sgargianti che volano sotto a un lampadario fantastico che pende dal cielo… La testa di una grossa mucca che ci osserva… Una giraffa, una rana, un cinghialetto…
Queste opere raccontavano in modo così intenso la rinascita del pittore in crisi interpretato da Giorgio Pasotti, da averne preceduto l’ideazione, contribuendo a farlo esistere nella scrittura e poi durante le riprese. Grazie a questi animali concreti e fantastici sgorgati dal suo io, nel film Lupo trova una chiave di lettura dell’universo che lo circonda. Il surreale si rivela nella sua semplice necessità, divenendo osservatorio inedito che dà senso e bellezza alle cose. Qualcosa dentro di Lupo si apre, un nodo profondo prende a sciogliersi, trovando un insperato varco verso l’esterno.
Il vortice pauroso e indomabile dei suoi pensieri lascia spazio a un paesaggio pieno di vita e di familiarità. Il paesaggio sospeso e sublunare di Véronique Dalschaert. Una nuvola di caos incandescente e colorata se ne va dalla sua mente per trasferirsi sulle sue tele, qui fissandosi per l’ultima volta, con l’esclusività e l’impazienza d’un amore appena esploso.
E’ quasi come se questa improvvisa nuvola creatrice di pittore ispirato, fagocitasse non solo la sua, ma tutta la follia benefica del mondo – assorbendone ogni nebbia e ogni fumo – perché a Lupo il naif, il pesce fuor d’acqua, resti da vivere una realtà più chiara, razionale e leggibile. La storia di questo film è anche la storia di un pittore che lentamente esce dal suo letargo di consapevolezza di sé e si vede finalmente costretto a “ricordarsi” di essere un artista.
Per questo la scena clou della sua rinascita pittorica è il momento in cui dettagli delle sue tele appaiono davanti ai suoi occhi, ancora prima che lui le abbia dipinte. Prima di rimettere un solo colore sulla tela, Lupo sente dalla finestra del suo studio il rumore di un aereo e si volta a guardare il cielo, dove egli già vede un aereo dipinto sospeso in un cielo dipinto. Le tele, le pennellate di colore delle sue opere già lo circondano, quasi lo attendono, prima ancora di essere dipinte dal suo pennello…E l’espressione della mucca che lo fissa dalla tela sembra avere una coscienza propria, che Lupo non potrà più dimenticare.
Quei due occhi celesti del ritratto dell’animale, più familiari e umani di qualsiasi essere umano, lo salutano come un monito pacato, definitivo, alludendo alla consapevolezza di un magico segreto, che da questo istante i due condivideranno per sempre. E gli rivelano una nuova grammatica possibile, una nuova lingua con cui rivolgersi al mondo”.
Di Melina Scalise
La pittura di Veronique Dalschaert si avvicina alla corrente surrealista e richiama, per il particolare uso della luce, per l’attenzione al dettaglio e l’esclusivo uso dell’olio, la pittura fiamminga. L’effetto è la creazione di un mondo onirico, fiabesco dove gli animali popolano un universo improbabile, che non rispetta le leggi della fisica: dalle equazioni gravitazionali alle proporzioni fino alle collocazioni spazio temporali. Un mondo dove saltano le logiche cognitive, dove viene sovvertito il pensiero logico-matematico per invitare l’osservatore a percorrere una nuova dimensione attraverso giochi simbolici e colori.
Troviamo pesci fuor d’acqua e uccelli in un acquario, animali collocati in spazi domestici o oggetti casalinghi ad arredare prati e paesaggi. Dentro e fuori si confondono, l’ambiente dell’uomo, la casa, e l’ambiente naturale dell’animale sono tutt’uno. L’uomo è presente attraverso i suoi oggetti, strumenti di cui si serve nella sua quotidianità, un piatto, un ventilatore, una sedia, un tappeto, una candela. Oggetti che, abbandonati a se stessi, senza l’uomo, diventano proprietà degli animali, trasferiti in uno spazio nuovo in cui perdono il loro senso originario, lo scopo. È una visione decisamente non antropocentrica quella di Veronique, gli animali sono gli unici abitanti del suo mondo e si muovono liberi tra terra e cielo, tra dentro e fuori in scenari totalmente impossibili e carichi di simbolismi da scoprire.
Tra gli animali ricorrenti troviamo la renna, l’oca, i pesci, le libellule, gli uccelli, il serpente; tra gli oggetti, la sedia, il tavolo, il tappeto, il violino; tra gli elementi naturali i fiori, gli alberi, l’acqua, il prato, le montagne.
La libellula è l’animale più presente nei suoi quadri. È simbolo di trasformazione, di forza vitale che dall’acqua, attraverso un numeroso susseguirsi di metamorfosi, si eleva fino a diventare alato animale del cielo. Portatrici di una loro brillantezza, di una loro forza nonostante l’esile presenza, le libellule nei quadri sembrano accompagnare con il loro volo l’osservatore nell’esplorazione del mondo di Veronique e lo fanno con i loro occhi già abituati a cambiare velocemente punti di vista e prospettive tra terra e cielo, tra dentro e fuori. Il quadro della rana con la libellula diventa allora una sorta di dialogo sulla metamorfosi e sulla straordinaria capacità del mondo animale di esperire contesti diversi con molta più duttilità rispetto all’uomo. I piatti, i bicchieri e le tavole apparecchiate nelle tele di Veronique sono per l’animale che s’interroga con gli stessi occhi di un uomo forse a sottolineare che il pensiero complesso potrebbe non appartenere solo al genere umano o, che forse, la complessità sta solo nei punti di vista, compreso il modo di “guardare” degli animali. Singolare poi la presenza dell’oca o degli uccelli dal becco lungo, presi dall’habitat acquatico, essi catturano con il loro becco tanto un violino quanto un pesce. La loro azione si sostituisce alla parola e il suono, la musica, sembra riportare il dialogo relazionale a una dimensione possibile tra tutti gli esseri viventi in una sorta di linguaggio per un ambiente universale.
Il racconto di Veronique ha la simbologia della fiaba e, come una madre, l’artista intesse i fili delle storie rivolgendosi ai grandi con la delicatezza che è d’uso al bambino. Un rispetto verso la vita alla quale si avvicina con la piena consapevolezza della sua fragilità e, lungi dallo sconvolgere, Veronique invita, accompagna, suggerisce, sussurra. I suoi lavori su carta esplicitano questa sensibilità. Lì le sagome dei suoi animali sono tenute insieme da fili di spago all’interno di una trama che non ha nulla a che vedere con la consistenza del tessuto, ma tutto con la fragilità di cui sono fatti i sogni.
L’ARTISTA SU SE STESSA
Ho deciso di nascere in Belgio, nelle fiandre. Sotto un’immensa distesa di pini, un pò persa li in mezzo, c’era la casa bianca che si è presa cura di me fin dalle prime luci della mia vita. Me la ricordo ancora quella luce, filtrava da molto in alto, dal cielo, a fatica scivolava giù fra gli aghi di pino, per cadere poi diritta sul prato verde del mio giardino. Daini, scoiattoli, conigli e volpi erano tutti li, ma non si vedevano perché si nascondevano dietro gli alti fusti degli alberi. Ero piccola, ma i primi quattro anni passati lì sono rimasti indelebili dentro di me. Un braccio rotto scendendo le scale con una mela in mano, il suono del violoncello di mio padre quando studiava le suite di Bach, quello del violino di mia madre, una barca riempita di sabbia dove giocavo con mio fratelo. Le giornate scorrevano tranquille, dove la musica era bella e il silenzio pure. Poi, un viaggio lungo tre giorni in una due cavalli grigia, ed eccoci qui trasferiti per sempre in Italia. A fatica varcammo le Alpi, non avevo mai visto montagne cosi alte. Erano giorni di giugno e il sole abbagliava in un cielo immenso e blu. La mia nuova casa ora dominava il paesaggio. Dietro, lontane, le montagne, intorno le colline e davanti il lago. Li, imparai a nuotare. Mia madre ci portava, da maggio in poi, quasi ogni giorni dopo la scuola, il sabato e la domenica non andavamo, c’era troppa gente. Mi piaceva tuffarmi ed esplorare i fondali del lago,tra il torbido delle profondità lacustri insieme ai pesci e le alghe; tornavo cosi al silenzio ovattato del bosco fiammingo, con la stessa luce che filtrava dall’alto.
BREVE BIOGRAFIA
Nata in Belgio, si trasferisce in Italia e si diploma in scultura all’accademia di Brera con Alik Cavallieri. Dalla scultura passa presto alla pittura coltivando in parallelo il suo amore per la musica tanto da frequentare il Conservatorio e insegnare in privato, da anni pianoforte. Ha partecipato a collettive, tra cui Raccolte d’arte, Orto d’Artista, alla biblioteca Chiesa Rossa a Milano e tra le sue personali quella di Firenze presso lo studio Longo Bellesi.