Il 17 e 18 maggio, nel centro congressi nel cuore della città sul Bosforo, si sono confrontati e a volte dialetticamente affrontati – in una due giorni di dibattiti e di conversazioni – politici, diplomatici, docenti, intellettuali, attivisti, imprenditori provenienti dai cinque continenti: sui temi più scottanti dell’attualità globalizzata, dal nuovo ordine mondiale alla crisi del debito, dalla primavera araba a Kyoto, dall’energia al ruolo delle donne, dalle potenze economiche emergenti all’istruzione come strumento di emancipazione, dalla Nato all’Iran.
Il Forum politico mondiale di Istanbul, che aspira ad affermarsi con alternativa al forum mondiale – economico, ancor prima che politico – di Davos, nella sua seconda edizione dopo quella del 2011 ha però fatto un significativo passo indietro: probabilmente per dissidi sulla scelta degli ospiti, come ha fatto intuire l’ideatore Ahmet Eyüp Özgüç nella sessione plenaria introduttiva, si è consumata una antipatica frattura col governo turco e né il premier Erdoğan né i numerosi ministri previsti fino all’ultimo nel programma sono poi intervenuti; defezioni in serie che hanno sconvolto la composizione dei panel e sostanzialmente abbassato il livello delle discussioni: ma che non hanno scoraggiato la partecipazione entusiasta di un pubblico soprattutto giovane, turco e non solo. Gli scambi di idee sono poi sistematicamente continuati nei corridoi, tra una pausa e un’altra: “il mondo nuovo e più giusto” di cui ha parlato Özgüç, capace “di sconfiggere le ineguaglianze globali e di dare dignità ai meno ricchi”, può nascere anche così.
Nel corso del forum, un tema in particolare ha appassionato e offerto spunti collettivi di riflessione, la primavera araba, le tumultuose transizioni verso la democrazia – almeno si spera – in Tunisia, Egitto, Libia, Siria: affrontata sotto i molteplici punti di vista della politica, dei giovani e dell’attivismo di piazza, del ruolo futuro della religione, dei nuovi mezzi di comunicazione, dell’economia. Per il professor Paul Taylor della London School of Economics, la matrice anche economica della primavera araba è evidente: perché “chi viene sistematicamente escluso dal progresso e dai suoi benefici finisce col protestare e col ribellarsi”; e gli ha fatto eco il collega Stephen Walt di Harvard, famoso per il suo libro di denuncia della lobby sionista negli Usa e forse per questo particolarmente applaudito, che non ha trovato per nulla sorprendenti le rivolte in società fondate sulla diseguaglianza, politicamente ed economicamente stagnanti ma si è detto particolarmente colpito dalla velocità forsennata – lui la piega con la tv via satellite, più che coi social network – del contagio dopo la prima scintilla in Tunisia; mentre Gideon Levy, coraggioso giornalista anti-establishment del quotidiano israeliano Haaretz ha lamentato l’assenza nel forum di un’analisi sistematica di quanto sta accadendo in Palestina: analisi secondo lui indispensabile per comprendere appieno il meccanismo esclusione/repressione/rivoluzione che si è scatenato lo scorso anno praticamente in tutto il Medio oriente e che spera porterà alla fine dell’occupazione e a una democrazia autentica – senza differenziazioni su base etno-religiosa – in tutti i territori dal Giordano al Mediterraneo.
In termini di lucidità politica, l’intervento più interessante e apprezzato di tutto il forum è stato senza dubbio quello di Fouad Siniora, primo ministro – musulmano sunnita – del Libano, dal 2005 al 2009: che ha parlato della “fine dell’eccezione araba” (le popolazioni mediorientali privi di rappresentatività, di libertà, di opportunità di sviluppo) e delle caratteristiche di quella che ha definito la “democrazia sostenibile”. In primo luogo, ha citato la Turchia come esempio da manuale di stato che ha saputo rendere compatibile l’Islam – nell’ultimo decennio sotto la guida dell’Akp di con “la modernità, la crescita, il progresso”: e ha sostenuto che i partiti islamici degli altri paesi, per decenni perseguitati e oggi chiamati a responsabilità di governo, “si dimostreranno capaci di adattarsi alla realtà”; in secondo luogo, ha avanzato l’idea che il rischio di settarismo e di guerra civile dilagante è solo uno strumento di ricatto dei vecchi regimi, perché invece la diversità – religiosa, etnica, culturale – dei paesi mediorientali è una fonte di forza e di connessioni globali; inoltre, ha sottolineato che una soluzione equa e duratura del conflitto palestinese – magari “grazie a pressioni internazionali su Israele – è indispensabile per disinnescare politiche populiste basate sul risentimento e sull’odio; infine, ha spiegato in modo particolarmente convincente come solo la crescita e lo sviluppo – istruzione, protezione sociale, stato di diritto, “50 milioni di nuovi posti di lavoro” – consentiranno di consolidare il progresso di cambiamento e di orientarlo verso una democrazia sostenibile, si passare da sistemi basati sul governo di “un uomo, una famiglia, un partito” a stati civici – inclusivi e integrati regionalmente e globalmente – “che proteggono i diritti di ogni singolo cittadino”. Per Siniora, applauditissimo, la sfida può essere vinta, “la transizione è incerta ma irreversibile”: il sostegno dell’occidente, generoso e disinteressato, è però necessario.
Dai politici di professione ai giovani, entusiasti e a volte ingenui: una generazione di ventenni e trentenni provenienti da Tunisia, Egitto, Libia, Siria e persino Yemen, dalle idee politiche variegate e dall’impegno in piazza costante, indicati come esempio di rinnovamento ma in fin dei conti incapaci – sia dal palco, sia in chiacchierate informali – di articolare visioni e di immaginare futuri coerenti e possibili. Walid Ayadi, tunisino, ha parlato di una rivoluzione – nel suo paese – “spontanea, non pianificata, resa possibile da Facebook e da twitter, guidata dai giovani,”: giovani istruiti e dinamici, ai quali il passato regime negava modernità e opportunità, che si sono capaci di mobilizzare il resto del mondo. Ahmed Harara, egiziano, prim’ancora di parlare ha portato sé stesso come simbolo e sintesi della primavera araba: ha perso la vista – prima un occhio e poi un altro – nelle manifestazioni di piazza Tahir (“ho perso la vista, ma non la dignità o la speranza”), ha guadagnato la copertina del settimanale Time, ha raccontato le trasformazioni di un movimento nato dal nulla e desideroso di giustizia e di democrazia in “una voce che grida forte”, ha condiviso le preoccupazioni per una transizione lenta e timida; mentre un altro attivista egiziano, Amr Mohamed, ha ricostruito con emozionante passione i momenti più significativi della rivoluzione che ha regalato questa opportunità però incerta di cambiamento (“non voglio che il nostro sogno ci venga rubato”), ha individuato nella solidarietà contro ogni discriminazione la chiave per conquistare una democrazia effettiva, ha ammesso la necessità di una visione politica organica – oggi assente – affinché i giovani attivisti possano continuare ad avere un ruolo che oggi di fatti è sfumato. Ceren Kenar, turca che studia a Beirut, moderatrice del panel e animatrice del netowrk internazionale di attivisti Nahda (che ha come motto “le rivoluzioni straordinarie di eroi ordinari” e ha recentemente organizzato, a Bursa, una eccellente conferenza internazionale sulla Siria), ha così commentato: “gli attivisti chiedono una democrazia autentica, almeno hanno contribuito a rovesciare i dittatori” – un contributo non da poco.