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Il movimento del 99% per cambiare

Creato il 03 gennaio 2013 da Tabulerase

Già dal 2011 il sito wearethe99percent.tumblr.com raccoglie le testimonianze di quel 99% della popolazione americana vittima della crisi iniziata nel 2008 e che rappresenta tutti i volti della nuova povertà. Una crisi che come un’epidemia si è diffusa in tutti i paesi occidentali svelando le conseguenze più nefaste di una globalizzazione finanziaria costruita da quella “cupola” di CEO, veri e propri predatori, che ha trasformato i mercati in dark pools, ossia pozze oscure prive di accessibilità, controllo e trasparenza. Tutto ciò, come afferma Ulrich Beck dalle pagine di la Repubblica nell’articolo Il movimento del 99% può cambiare il mondo del novembre 2011, si è abbattuto come un uragano sulle istituzioni sociali e nella vita quotidiana delle persone. Una vera minaccia finanziaria globale dalle conseguenze imprevedibili e imponderabili, percepita come “… un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti” rivelando legami strutturali tra i destini di diversi paesi e di diverse persone. Il fallimento del capitalismo finanziario neoliberista e deregolamentato, ostinatamente ritenuto come la panacea già dai tempi di Ronald Reagan, ma anche in tempi più recenti dal Tea Party americano e da politici europei come Angela Merkel, Giulio Tremonti e (seppur in forme più moderate) dallo stesso Mario Monti, è ormai certificato. Ma i costi di quel fallimento pesano tutti sulle nostre spalle perché i grandi istituti finanziari, dalle banche alle assicurazioni, quasi rinnegando se stessi e la loro visione del mondo, hanno ottenuto aiuti di Stato.

 Secondo Beck il movimentismo globale generato dalla consapevolezza di un destino comune apre nuovi scenari, nuove dimensioni dell’impegno politico ed intellettuale, nuove forme di partecipazione. Il punto di partenza è la consapevolezza della crisi e la condivisione delle preoccupazioni per i rischi e le minacce che la stessa crisi nasconde. Il passo più difficile, secondo il sociologo tedesco, risiede nella discrasia tra “… l’elevato potere e la scarsa legittimità del capitale e della politica e lo scarso potere e la grande legittimità di quelli che protestano in modo pittoresco … che, tuttavia, può essere superata attraverso un’alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta e la politica nazional-statale”. Questo salto potrebbe segnare il passaggio verso un progetto politico nuovo, autenticamente rispondente ai bisogni e alle istanze più profonde di una società sfiancata da anni di scandali politici e cicli economici  sfavorevoli, da una classe dirigente incapace e corrotta e da una agenda politica fortemente connotata in termini economici. E questo vale anche per il nostro Paese in cui il termine “antipolitica” si carica di una accezione negativa essendo rappresentata da quella politica saccente, arrogante e ottusa che, come affermano Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky, utilizza strumentalmente questa parola, in maniera “violenta e disonesta”, per esorcizzare la potenza e l’energia politica di movimenti e idee nuove tenendole lontane dal dibattito e dal sistema politico e stigmatizzandole agli occhi dell’opinione pubblica.

 A differenza che negli USA, mancano in Italia capacità e sensibilità per cogliere l’opportunità offerta dal momento di crisi, che sappiano capire le istanze del movimentismo di protesta, interpretarle e fornire loro una forma politica che le renda comprensibili e spendibili nel dibattito politico italiano che, forse mai come oggi, pare appiattito sulle misere, spasmodiche e compulsive discussioni che vanno dalla spartizione delle candidature alla lottizzazione delle istituzioni. Nessuna traccia dell’interesse collettivo.

 Dopo l’energia e la vivacità dimostrata dalla società civile durante i governi di centrodestra a tutela del diritto e della legalità con diverse forme di protesta spontanea e pacifica, oggi rischia di apparire deludente anche il “Movimento arancione” che – ideale punto di arrivo di quella protesta – pareva la vera novità del panorama politico italiano per la sua capacità di fare rete tra le diverse realtà associazionistiche e movimentiste italiane, dal “Popolo Viola” a “Se non ora quando”, dalla “Fiom” a “Libera”. La commistione promiscua inaugurata a metà dicembre 2012 a Napoli tra il Movimento arancione, che rappresenta la società civile, e quei partiti, come l’IDV di Antonio di Pietro, il PDCI di Oliviero Diliberto, il PRC di Paolo Ferrero ed i Verdi di Angelo Bonelli, che hanno perso il contatto con la realtà sociale, con i bisogni delle persone, con il territorio, si è configurato come un vero ossimoro che sfida il buon senso e la storia. Cancellando in un sol colpo un’idea di riscatto sociale che sembrava offrire nuove speranze a quella parte della società italiana che soffre di un disagio antico, che si sente tagliata fuori dalle dinamiche socio-politiche del Paese, che auspica nuove forme di partecipazione e di rappresentanza, che stigmatizza metodi e cultura del sistema partitico italiano ormai capace di rappresentare solo se stesso.

 Certamente Antonio Ingroia è tra le personalità istituzionali maggiormente meritevoli di stima e riconoscenza per aver contribuito alla difesa di un principio di giustizia e legalità nel nostro Paese, nonché per la sua discesa nell’agone politico che rivela spirito di abnegazione e sacrificio per l’affermazione di un ideale di giustizia sociale ed equità redistributiva. Ma l’energia vitale del suo Movimento non ha resistito all’urto dirompente di una politica violenta e arrogante che in maniera opportunistica sta sfruttando il sentimento di speranza e di passione creatosi attorno agli arancioni. Cercando di utilizzare la sua componente intellettuale e ideale col fine poco nobile di sbarcare il fatidico sbarramento del 4% e piazzare in Parlamento le solite figure, scelte con metodi discutibili di selezione – come accadde per Razzi, Scilipoti o Maruccio, fino a Lo Monte per le elezioni regionali siciliane scorse (il cui curriculum politico racconta di pregresse organicità prima alla DC e poi all’MPA di Raffaele Lombardo) – prive di ideali, consenso e capacità progettuale.

Né è bastato il tentativo di Antonio Ingroia di rassicurare l’assemblea del 21 dicembre scorso al teatro Capranica di Roma proponendo un progetto, alternativo al PD, al PDL ed al M5S, di fusione delle componenti politiche e “laiche” capaci di ricomporre in una visione d’insieme idee, volti nuovi ed esperienza, e chiedendo ai leader dei quattro partiti di fare un passo indietro. Le speranze di tanti sono state deluse. Infatti, i quattro segretari di partito hanno imposto la loro presenza in lista, limitandosi ad abbandonare i propri simboli. Saranno, addirittura, secondi al capolista Antonio Ingroia nelle regioni a più alta probabilità di elezione.

Ecco perché Marco Revelli, intellettuale di profilo – che insieme a Luciano Gallino, Chiara Sasso e Livio Pepino con la rete “Cambiare si può” ha creato le condizioni per la nascita del movimento di Ingroia – il 29 dicembre scorso ha dichiarato all’Huffington Post Italia che “… la sensazione è che anche questa sia stata un’occasione perduta … per i quattro segretari di partito sarebbe stata un’occasione buona di recupero della stima sociale, se solo avessero fatto il passo indietro che chiedevamo … per dare un segno di cambiamento, riavvicinare la gente alla politica, alla sinistra … invece hanno risposto con arroganza … ”. Confermando opinioni e sentimenti diffusi nel Paese sulla politica italiana e sui suoi esponenti.

 Ripensando al movimento delle Suffragette di Emmeline Pankhurst e alle Trade Unions, a Rosa Louise Park ed al movimento per i Diritti civili di Martin Luther King, al movimento Anti-apartheid di Nelson Mandela e al movimento del Maggio parigino del ‘68 mi sovviene solo una riflessione. Il vero mutamento politico e culturale delle società non è mai passato attraverso la rappresentanza politica che dietro l’alibi della “necessità della sintesi” ha prodotto le peggiori nefandezze, negando ogni cambiamento di rilievo utile all’ampliamento della sfera dei diritti e al miglioramento della qualità di vita delle persone.

Qualunque governo succedutosi dal ’46 ad oggi nel nostro Paese ha agito rispondendo ad una “ragion di Stato” che, nei fatti, celando interessi di politica internazionale, durante la guerra fredda, e di economia globale, dopo il crollo dei regimi comunisti, ha negato ai cittadini il diritto ad un sistema democratico di garanzie civili e diritti sociali. Un sistema politico che, come afferma lo storico Angelo del Boca in La storia negata. Il revisionismo ed il suo uso politico del 2009, ha raggiunto la sua massima espressione nei danni “… provocati dall’occupazione integrale della società italiana fatta dal berlusconismo, con un micidiale impasto di populismo plebiscitario, di odio per la politica, di fastidio per la questione morale, di diffusione della volgarità, di narcisismo traboccante … contro il rischio di una totale e interessata falsificazione della storia”. Perfino la sinistra del Partito comunista italiano, sopravvissuta al crollo del muro di Berlino, con un gravoso debito con la storia per la sua indeterminatezza politica e per la sua incapacità di ripensarsi in maniera aderente alla nuova realtà culturale, non è rimasta indenne alla rivoluzione berlusconiana. Inchieste della Magistratura e scandali politici della Seconda Repubblica ne sono la testimonianza.

 In sintesi, i veri cambiamenti sono nati dal basso, dal popolo, dalle persone e dal loro disagio, che attraverso le piazze hanno sollecitato le necessarie sensibilità nelle classi dirigenti costringendole all’adozione di provvedimenti e politiche coerenti con i momenti di crisi. La storia dell’uomo insegna che il movimentismo di protesta deve essere altro dalla politica. Deve esortare, sollecitare, costringere le società alla riflessione e alla critica sui temi legati alla vita delle persone. Ha il dovere di facilitare la trasformazione della vecchia politica in una nuova “biopolitica”, rifiutando il compromesso e rivendicando l’indipendenza dai partiti. Solo in questa maniera sarà possibile avviare un processo virtuoso di cambiamento del sistema decisionale, rifiutando la contaminazione con la politica attuale e con i suoi apparati di partito, con le sue logiche ed i suoi metodi. Una politica arcaica, caratterizzata da una cultura antidemocratica, da stili e strategie opportunistiche e da un approccio vecchio a problemi nuovi ed emergenti, avvezza alle strumentalizzazioni e avversa al confronto, indecente nelle sue manifestazioni pubbliche, corrotta nell’animo e sensibile alle pulsioni più egoistiche. In sintesi, una politica che non è in grado di rappresentare gli interessi collettivi e che rappresenta l’esatta negazione del suo mandato.


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