Il primo ricordo di John è il risveglio nella luminescenza pallida della luce che penetra dentro la cella minuscola dell'alveare attraverso la trasparenza di pergamena della cera che ne chiude l'entrata: il primo gesto la grazia istintiva con la quale, riappropriandosi dei muscoli, scivola fuori da quell'utero secco di dimenticanza e soddisfazione.
Il primo sguardo di John incontra la linea rossa dell’orizzonte con lo sgomento dell’immensità conclusa.
La città si stende ai suoi piedi, torri slanciate dalla forma di conchiglia marina, passaggi arabescati d’ombra e portici di merletto, e più in là lo sbadiglio azzurro dei laghi, e più in là ancora il verde sontuoso di boschi e foreste, e spingendosi avanti i contrafforti rocciosi dei monti sfumati dell’azzurro della lontananza, fino alla linea rossa.
Il muro si stende nella sua immensità conclusiva a contrarre un mondo, e sembra che sia il giro di braccia di un gigante che stringa a sé tutto il conosciuto piegandosi per nascondere la possibilità alle proprie spalle.
Non c’è un attimo di vita che John ricordi in cui il muro non incomba sulla coscienza pressandola con la propria mostruosa immanenza, ritmando l’esistenza in eco che ritornano rimbalzando all’indietro, grida che riverberano infrangendosi sui mattoni cotti che si sovrappongono in un ritmo di allucinante continuità.
Non dovrebbe esistere nulla di tanto immenso, eppure la sua dimostrazione è la tangibilità con la quale si accende di riflessi ramati al sorgere e al calare del sole: non ci sono tramonti o albe totali, negati dal muro. La prima decisione di John è partire, raggiungere la superficie di mattoni scabri e passarci sopra le mani dure di calli e stanchezza, appoggiare la fronte al calore di fornace e capire cosa vibri nell’argilla che racchiude tutto il mondo che conosce.
Ci vogliono giorni per lasciare la città piena di fontanelle ridenti e donne che cantano stendendo i panni al sole. Ci sono lunghe giornate di cammino costeggiando i laghi che riflettono l’azzurro implacabile dei cielo, rari contadini che salutano da lontano con un cenno, odore di animali al pascolo e colpi del martello dei fabbri soffocati dalla distanza.. Ci sono stanchezza, e dubbi, e strade senza uscita per attraversare i boschi, e notti senza stelle, offuscate dall’intreccio dei rami sotto i quali dormire. E c’è il dolore di ogni muscolo che grida di sofferenza per scalare le montagne con la lentezza paziente del ragno e l’indomita necessità di andare avanti. Ogni volta che sale un crinale, ogni curva improvvisa, fanno ondeggiare di lontano nella calura opprimente il rosso caldo e accecante del muro che pare arrotondarsi come l’orlo di una giara verso il cielo vuoto di nuvole.
Ci sono canzoni all’inizio, fischiate o cantate a mezza voce per scandire il passo, e verso la fine solo il mormorio ossessivo con il quale frusta sé stesso per spingersi avanti come il contadino frusta il somaro per trascinare l’erpice. Quando ci arriva l’acqua è finita da molto, e la lingua si appiccica al palato rinsecchita. Giorni di cammino hanno asciugato in John ogni traccia di grasso o morbidezza, tanto che la sua figura dinoccolata è carne salata, pare l’ombra proiettata dal sole al tramonto lungo i mattoni. Anche i suoi occhi sono seccati, stretti in due fessure insanguinate per guardare e toccare quel muro che sembra assorbire il calore del cielo e riversarlo in ondate roventi sul terreno. Poggiare la fronte contro i mattoni è ustionante al punto da lasciare una vescica bulbosa sopra gli occhi dalla quale trasuda lento il liquido: John alza la testa, gettando indietro la nuca per seguire l’innalzarsi abissale di quei mattoni che sembrano restringersi verso l’alto e ride, ride vorticando su sé stesso a braccia allargate improvvisando una giga saltellante.
Visto da vicino il muro sembra antico e nuovo allo stesso tempo: la progressione dei mattoni che si innalzano ha una scansione ritmica di vertigine e allucinazione, ma sembra che John non abbia interesse a considerare la filosofia di un artefatto talmente gigantesco da essere incongruo, che non voglia vederlo quando cerca la prima connessura con la punta dello stivale spellato, spingendosi verso l’alto con il ghigno ebete dell’alienato che si lecca le labbra e urla alle stelle.
Graffiano la pelle le sporgenze, staccandola in brandelli dove il gocciolare del sudore diventa un’incandescenza e ogni istante della salita è la lenta agonia dei muscoli contratti, è lo zigzagare improvviso del crampo che costringe lo scalatore ad appiattirsi di gemiti contro l’argilla, senza poter nemmeno massaggiare la massa dura del groppo che blocca il muscolo.
Appeso per volontà e desiderio a ogni minuscolo spazio, arrancando mentre uno scarafaggio solitario passeggia nell’orecchio facendolo urlare di frustrazione disperata John continua a salire con la stolida lentezza del ragno, le unghie strappate dal muro che pulsano di un sordo trasudare di sangue. E’ l’ultimo ricordo di John, quell’emergere dall’alveare alla consapevolezza, quando cade infrangendosi ai piedi di un muro che non può essere valicato.
Indifferente, uno scorpione passeggia sugli occhi orribilmente aperti a guardare un cielo vuoto che non vedranno mai più.