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La cassiera non sa se chiamarmi ragazzo o signore.
Ho 29 anni e non c'è una parola per me - non perlomeno per i rapporti rapidi e funzionali del supermercato.
Me ne accorgo dopo aver constatato un'altra grave mancanza: un verbo che indichi l'azione del mettere la spesa sul nastro - in un momento in cui tra l'altro la spesa non è ancora tale, ma è solo un ammasso di prodotti selezionati per i quali si ha intenzione di spendere.
Non sono neanche sicuro che si chiami nastro, e in ogni caso mi troverei in imbarazzo a dire a qualcuno "ehi, metti le cose sul nastro".
Suona proprio male.
E non si parla nemmeno di un momento neutro del vivere quotidiano: mettere le cose sul nastro implica un rapporto delicatissimo con chi ti precede e chi ti succederà.
Chi ti precede è quasi sicuramente una vecchina tignosa che non aspetta altro che poter delimitare la sua spesa sul nastro con quei divisori di plastica (trovate un nome anche a questi, please), nel timore che tu possa infilare una caciotta nel suo conto e farla franca.
In effetti, credo nessuno ci abbia mai nemmeno provato, ma per qualche motivo quel nastro risveglia le peggiori paranoie degli over 60.
Quanti sacchetti? Pago e scivolo verso la coda della cassa, che complessivamente vista da sopra probabilmente deve ricordare una portaerei.
Mi prendo un altro "ma va là che sei giovane" dalla cassiera, che raccoglie cenni d'assenso tutt'intorno - escludendo tout court dalla conversazione un'età di mezzo che possa veramente definirsi tale.
Quando finisco di essere giovane divento direttamente vecchio?
Lacune linguistiche di questo genere sono il riflesso del profondo disagio di un Paese tenuto in mano da gente che potrebbe far coppia con mia nonna a bridge.
E con la quale ahinoi dobbiamo comunque cercare di comunicare.
Il problema è che in Italia il codice lo decidono loro, e si tengono stretti le loro parole quasi quanto le poltrone.
Puoi inventare slang e gerghi d'ogni sorta, ma solo per cospirare senza essere capito: le strutture linguistiche con le quali l'Italia pensa se stessa non sono nelle tue mani.
Finisce che per restare a tavola devi far tue quelle parole, e man mano che le mastichi ti dimentichi di chi te le ha messe in bocca.
Finisce che alle feste dell'Unità d'estate i giovani decidono di chiamare il loro risicatissimo angolo di libertà "Spazio Giovani".
Finisce che per rivendicare i tuoi diritti, usi le categorie e le espressioni di chi te li sta togliendo.
La musica, che in Italia è più che mai considerata il grande trastullo dei giovani, ignari di ciò che li attende, soffre più che mai di questo monopolio.
Il paradigma della maturità regna incontrastato nell'analisi di qualsivoglia fenomeno musicale: addetti ai lavori di lunga data - la maggior parte dei quali ormai senza lavoro - dibattono su quale sia il grado di maturità raggiunto da una band o da un artista su un misterioso Maturometro governato da criteri il più delle volte ignoti e in mano a gente così matura da vivere scrivendo di gente che suona.
Il processo del Maturometro vuole che per un periodo non meglio specificato si galleggi in una sorta di lento divenire - che tende genitorialmente a valori vaghi e tutt'altro che millenari come la sobrietà, la misura, il gusto, il contegno.
Più o meno gli stessi che, a modo suo, ha in testa la vecchietta tignosa.
Raggiunta la suddetta maturità (che poi, per qualche motivo, sembra irreversibile: si è mai sentito di un artista maturo che all'improvviso ha smesso di essere tale?), si possono continuare a fare dischi uguali uno all'altro, o all'occorrenza uno più brutto dell'altro, senza dipendere più da alcun tipo di giudizio.
Semplicemente si è diventati vecchi, ovvero padroni della lingua e di tutto quello che ne consegue.
Nella mia città anche i ritmi di sonno e veglia sono decisi da chi su questo mondo ha già passato molto più della metà del tempo a sua disposizione.
Il ritornello è che sono stati giovani anche loro, che divertirsi va bene ma, che la musica è bella ma la musica non il baccano, che a quest'ora si dorme.
Le conseguenze concrete sono sotto gli occhi di tutti, ma anche le parole ne risentono.
Succede che molte band, pur di suonare da qualche parte, cerchino nuovi vestiti con cui presentarsi ai locali.
Il vestito prediletto prende il nome di in acustico - termine vago come le mie interrogazioni di matematica al liceo che vorrebbe contrapporsi idealmente a in elettrico.
Tecnicamente acustico in questa accezione è un retronimo, ovvero un neologismo atto a compensare un significato modificatosi nel tempo in virtù - in questo caso - di processi di costume e di progressi tecnologici.
In senso stretto, dovrebbe indicare che il suono si propaga senza l'ausilio di alcunché di elettrico.
Situazione che ovviamente non si presenta quasi mai, situazione che includerebbe la batteria (propriamente acustica) - generalmente invece esclusa dal magico mondo In Acustico.
In realtà infatti il significato in italiano dell'espressione è "a dirla tutta, noi vorremmo fare altro ma siccome non ce lo lasciate fare vi veniamo incontro e suoniamo a volumi più bassi, con le chitarre acustiche e l'ovetto, così non vi accorgete neanche di noi e siamo tutti contenti".
Viceversa elettrico suona per buona parte degli adulti della penisola come qualcosa di discendenza satanica o semplicemente da non toccare - come i fili col cartello col teschio sopra.
Per qualche tempo, è circolato anche il temibile elettro-acustico - che indicava, nell'involontario lessico delle band disperate, quelli che scendono solo qualche scalino della scaletta del compromesso. Una via di mezzo fattasi parola, fallita in breve e malamente perché mai piaciuta né ai localanti né a chi l'ha intrapresa.
E così, non ci rimangono altro che chitarre acustiche benedette da ddio - che in qualche modo dovremo pur microfonare o elettrificare ma con quel bel color legno che tranquillizzi le sciure, memori forse di qualche pic-nic sociale del ventennio.
Mentre finisco il ragionamento, la cassiera mi sposta quel pezzo di plastica basculante che divide il fondo della cassa dalla spesa di quello che non è ancora riuscito a mettere la roba nei sacchetti e quella di chi è nel mezzo della compravendita (dio mio, qualcuno si occupi di nominare le componenti di un supermercato).
Penso che domani ho un concerto dove non suonerò la chitarra elettrica ma quella acustica, anche perché suonerò in una stanza con un riverbero nemico di qualsiasi distorsione - a meno che non suoni nei My Bloody Valentine.
Penso che suoneremo in elettrico ma con una chitarra di legno vuoto dentro e michi che pesta meno e divi che non schiaccia il pedalino e effe con una rickenbacker.
Alzo gli occhi verso la cassiera mentre incastro il succo d'ananas.
Guardi, mi chiami come la fa sentire meglio.
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