Il Natale che fu.
Credo che i riti natalizi veramente sentiti e partecipati nella mia infanzia fossero la preparazione del presepe, l’apprendimento mnemonico dei sermoncini da recitare il giorno di Santo Stefano sul primo ( ed unico) palcoscenico della mia vita, davanti all’altare , e la chiusura dei cappelletti, come si chiamano i tortellini qui in Romagna, stessa forma ombelicale e diverso ripieno.
Il primo, il presepe, coinvolgeva mio padre e noi bambini. In gruppo, con i compagni del vicinato, si partiva in esplorazione dei fossati delle campagne circostanti , alla ricerca del muschio più folto e verde. Sciamavamo allegri, a spiare le sponde dei fossati e qualcuno aveva già intuito che la sponda in ombra prometteva di più. Erano escursioni gioiose e giocose all’inizio, ma con il passare dei giorni e delle settimane il gioco di trasformava in competizione, ciascuno andava da solo, mentiva sul luogo e l’orario, teneva segreto la topografia del luogo che custodiva il suo muschio-tesoro.
E se aveva già nevicato un po’ e la neve si era già sciolta, si era sicuri di trovare del muschio soffice come lana e verde come smeraldo.
Quanto alla decisione di mettersi al lavoro per la costruzione del sito simbolico della Natività, spettava a mio padre.
In genere la comunicazione veniva data due/tre giorni prima , giusto il tempo di recuperare in soffitta le statuine dell’anno precedente; dopo il recupero si procedeva al loro censimento, la cura delle contusioni e il doloroso gesto di gettare quelle che proprio erano così malconce da essere inutilizzabili.
Già , perché allora le statuine erano di terracotta, friabili, delicate, preziose.
Quindi si passava in rassegna la reperibilità in casa di tutto il necessario per la composizione paesaggistica: pezzi di specchio, strisce di carta argentata conservata fra quella che avvolgevano le caramelle, i legni per la capanna, la carta da zucchero blu per il cielo, la carta dorata per la cometa. Un pugno di paglia si trovava sempre.
Il giorno prima dell’inizio dei lavori si procedeva all’espianto del muschio e si collocava in un canestro, una zolla sopra l’altra perché si mantenesse fresco; il canestro veniva poi tenuto all’aria notturna, fredda e umida.
Eccolo, infine, il presepe. Addossato all’angolo di due pareti del tinello , posato su due tavoli accostati.
Era occorso un giorno intero per allestirlo e più e più giorni perché lo si ritenesse concluso.
Sul laghetto d’argento si specchiavano le ochette, le pecorelle brucavano o annusavano l’aria, il fiume luccicava e qualche rara anatra lo navigava.
Sotto la protezione di tre/quattro ciocchi, abilmente appoggiati e cosparsi di neve, era deposta la Sacra Famiglia.
Sopra svettava la cometa d’oro. Poi, nei giorni, venivano aggiunte stelle di carta velina gialla, due nuove pecorelle, e , forse, una lavandaia.
Durante la notte della Vigilia, dietro la Santa Famiglia veniva acceso un lumino, abilmente nascosto e più tardi spento per evitare incendi rovinosi con tutto quel materiale di facile preda per le fiamme.
Era il presepe della famiglia, era la famiglia….
Ma anche i cappelletti di Natale erano la famiglia.
Mia madre preparava il ripieno ( in dialetto “il compenso”, compenso per un anno che se ne andava con le sue fatiche e con le sue gioie e un altro che si attendeva meno agro, compenso perché si era ancora insieme, riuniti, vivi…; naturalmente l’elaborazione semantica è personale; probabilmente il significato etimologico doveva appartenere al latino maccheronico “ cum plenus” ) . Il ripieno si preparava nel primo pomeriggio impastando in una ciotola quattro tipi di formaggio a quantità diverse e precise, un pizzico di noce moscata, la scorza grattugiata di un limone.
Poi, sgombrata la tavola, si posava il tagliere. Sulla candita montagna di farina scavava il cratere, aggiungeva un pizzico di sale e uova, tante uova, rotte con un abile gesto del polso sullo spigolo del tagliere. Una miscelata con la forchetta e poi …. mani in pasta.
Dalle mani lentamente sorgeva un sole dorato, morbido, perfettamente omogeneo.
Allora si metteva mano al mattarello.
Non ho mai capito come facesse mia mamma e tante donne di quella generazione a tirare fuori da quel sole una sfoglia sottile, quasi trasparente.
Poi finalmente toccava a me, in attesa inginocchiata su una sedia.
Tagliati quadratini di sfoglia con la rotellina dentata , io vi posavo un mezzo cucchiaio di compenso,
al centro, quindi sovrapponevo due lembi a triangolo e con abili gesti formavo il cappelletto, un ombelico perfetto. E dall’imitazione dell’ombelico sono convinta che nascesse la forma. Non ho mai visto cappelli a forma di tortello o cappelletto.
Si lavorava fino a notte, poi si appoggiavano in una stanza fresca ad asciugare . Nei giorni successivi li aspettava un tuffo nel brodo misto di manzo e gallina. Una delizia che si conserva ; io stesso li faccio poco prima di Natale, ed è l’unica volta in un anno in cui faccio la sfoglia. Figuratevela spessa, bitorzoluta, abrasa e con qualche slabbro. Ma i cappelletti sono ugualmente buoni. Chiedere a mio figlio o ai miei amici per verificare.
I sermoncini costituivanop un problema.
Non era la memoria che fallava, li memorizzavo dopo appena una letta, e neppure il pubblico mi emozoionava.
Sentivo la competizione, sentivo che un paio di amiche erano più fini dicitrici di me, sapevano far commuovere. Forse non riusci a mettere abbastanza fuoco in quei semplici versi di filastrocca.
Mi pareva di avvertire che fosse tutto molto complesso, che quelle era come una favoletta, un trastullo, un balocco per grandi e piccini.
Poi finiva Natale, che non si consumava in un giorno ma in un periodo di almeno una settimana , diciamo fino a Capodanno, per dare poi all’Epifania un colpo di coda, Ma quella era una giornata festosa, giornata di Befana, la strega buona che riempiva le calze di dolcetti, di mandarini e un paio di carboncini.
Era il Natale dei bambini.
Narda Fattori