IL NOSTRO è un Natale di fiori e di frutti. Le corone di fiori che le fanciulle portavano sulla testa per festeggiare il ritorno del sole, quando le giornate cominciavano ad allungarsi. I frutti che appendevamo all’albero come un anticipo di primavera. Nel cuore dell’inverno, intirizziti dal freddo, con le case semisepolte nella neve, osavamo coltivare la speranza che un giorno il sole ci avrebbe nuovamente baciato, che la terra ci avrebbe nuovamente nutrito. Riuniti davanti al focolare nelle lunghe serate invernali, cercavamo nell'affettuoso amplesso della famiglia il coraggio di affrontare le tenebre. L’equinozio d’inverno era la festa dell'amore.
POI SONO ARRIVATI i cristiani e hanno cercato di trapiantare in Europa la cammellitudine, ossia quell’insiene di tradizioni, ossessioni e credenze proprie del Medio Oriente. Non più la foresta ma il deserto, non più le renne ma i cammelli, non più il cappello ma il turbante. Ai nostri folletti hanno sovrapposto i loro spiriti. Si sono impadroniti del nostro Natale per farne la data di nascita del loro profeta.
MA LA VECCHIA EUROPA si è ribellata. Violentata dal trapianto, ha mobilitato i suoi anticorpi per rigettare il corpo estraneo. Le renne hanno scacciato i cammelli, la foresta ha scacciato il deserto, la speranza ha scacciato la paura. Un vecchio dalla barba bianca ha attaccato le renne a una slitta sulla quale viaggia per distribuire doni.
E ABBIAMO RIPRESO ad appendere frutti ai nostri alberi spogli. Ogni anno, perché la speranza non muore mai.
Dragor