In un mio precedente contributo, evidenziavo come la fragilità della coscienza nazionale italiana non fosse soltanto o principalmente riconducibile alla brevità del nostro percorso unitario e/o alle differenze di tipo culturale e storico tra i vari segmenti locali, quanto al trauma sociale ed antropologico scaturito dall’esperienza fascista, che aveva portato al confinamento del sentimento patrio e identitario ai margini della nuova architettura liberale e civile, etichettandolo come rigurgito e sinonimo di provincialismo, grettezza intellettuale e claustrofobia sociale. Fattori sinergici e solventi a/di questo fenomeno, erano e sono il portato internazionalista di stampo marxiano-marxista, peculiarità della sinistra comunista italiana (estremamente forte e condizionante la vita politica nazionale per oltre mezzo secolo) e l’universalismo cristiano di partiti come la DC, tutti elementi che avevano agito ad impoverire ulteriormente una percezione corale già di per sé incerta e frastagliata.
Esiste, però, nel nostro Paese, una forma di nazionalismo anticonvenzionale molto complessa, che si manifesta mediante una sua compartimentazione ed un suo frazionamento; non è, infatti, l’Italia nel suo insieme ad essere il fulcro della pulsione sciovinista ma le singole realtà territoriali, in special modo regionali. Questo perché , attraverso tale procedura cognitiva, il sentimento patrio si mostra fortemente diluito, camaleontizzato e frenato, non risultando, di conseguenza, più un tabù culturale. Si amo in presenza di in fenomeno che interessa in special modo la Sinistra e che ha come oggetto intenzionale il Meridione, in quanto più esposto, per la sua situazione di maggior disagio economico e sociale rispetto al Nord, al “poltically correct” e per questo meglio paradigmatico delle teorie marxiano-marxiste sulle iniquità del capitalismo. Ecco che i sardi diventano il “popolo sardo”, quasi a voler assegnare loro una dignità ed un’identità altre e antitetiche rispetto alla rimanente porzione del Paese e si attribuiscono loro doti e virtù in un esercizio agiografico che solitamente viene espulso dal nostro impianto normativo quando ci riferiamo all’ Italia nel suo insieme (il caso sardo sia estrapolato dall’eccezionalità emotiva della situazione post-alluvione). Ma non solo: il frazionamento e la compartimentazione dell’istologia culturale comunitario-unitaria diventano una risposta, essi stessi, al trauma-tabù del nazionalismo, mediante una prassi ideologico-politico-culturale che esilia dal centro per trasferirle nella periferia quelle esigenze e velleità di appartenenza intrinseche a chiunque rientri un sistema collettivo ristretto: proclamarsi abruzzesi, sardi, veneti o napoletani, sarà quindi un atto di orgoglio nonchè un’attestazione di apertura ed elasticità mentale, mentre proclamarsi, con la medesima intensità emozionale, “italiani”, sarà percepito come sinonimo e prova di offuscamento reazionario.
E’ interessante notare come nel XIX secolo, nel pieno svolgimento dei processi risorgimentali, questo assetto si presentasse del tutto invertito: le intellighenzie guardavano infatti, da Nord come a Sud, all’idea di stato unitario come ad un trionfo degli ideali di libertà e democrazia sviluppatisi fin dal centennio precedente e viceversa alle realtà regionali come a bozzoli di conservatorismo superato.