Mario Turco
Come tutti i giovani cinefili di diciassette anni scoprii Joseph Conrad dopo aver visto Apocalypse Now. Lessi Cuore di tenebra (da cui il film è tratto) relegandolo nel mio cantuccio di lettore come un mediocre canovaccio che Coppola aveva saputo innalzare e innestare nello sporco Vietnam. A molti anni di distanza da quella acneica e arrogante formulazione trovo invece che nemmeno la splendida fotografia espressionista di Vittorio Storaro abbia saputo trasporre su grande schermo tutta l’allegoria dell’opera conradiana. L’occasione per una definitiva rivalutazione dell’autore inglese (che sia nato sotto le insegne di un blasone polacco e che abbia imparato l’inglese come terza lingua dopo i vent’anni non deve farlo minimizzare col titolo di “ospite illustre”di quella letteratura poiché Conrad oltre al cognome ne prese anche la cittadinanza) l’ho avuta leggendo Il negro del Narciso, pubblicato recentemente da Edizioni Libreria Croce e tradotto da Salvatore Asaro che ha profuso un impegno notevole nel rendere in italiano una precisa terminologia nautica. Un encomio va tributato anche al nome della collana, Participio passato, che intende avvalorare la scelta di grandi classici letterari che continuano ad avere un effetto su questo lacrimevole presente. Il romanzo è introdotto da un breve articolo di Italo Calvino, I capitani di Conrad, apparso su l’Unità il 3 agosto 1954. Lo scrittore italiano si laureò proprio con una tesi sull’opera del collega di origini polacche e, da lettore attento e curioso qual era (il che rende inspiegabile, almeno per me, la scolasticità dei suoi scritti), ci regala un paio di buone intuizioni. Egli ricorda innanzitutto l’approvazione critica che tanta letteratura post-moderna ebbe per Conrad eleggendolo a proprio (inconsapevole) precursore. La pusillanimità dei suoi eroi, l’oscurità misteriosa delle loro anime, la densità delle sue allegorie e l’eleganza della sua prosa che, senza rinunciare ai suoi propositi commerciali, lo avvicina allo stile decadentista, ne hanno fatto un celebrato superatore del romanticismo e un conclamato indagatore delle irrazionalità che da lì a poco avrebbero travolto la vecchia Europa. Calvino tuttavia non si esime dal puntare il dito sul feroce conservatorismo di Conrad e, pur non approvando molte delle sue idee sociali, continua a leggerlo poiché pur in un obnubilante contesto pessimistico alla fine l’umanità dei suoi personaggi emerge sempre. Non è quindi così distante dalla novecentesca ideologia comunista dell’autore italiano questa insopprimibile fiducia nelle capacità dell’uomo e, come ha detto egli stesso in un’altra intervista, Conrad è «uno degli scrittori in cui più si dovrà riconoscere un’umanità che vanti la propria unica nobiltà nel lavoro».
Questo è il caso appunto del romanzo breve Il negro del Narciso a cui lo scrittore stesso dà una prefazione divenuta celebre tra i suoi studiosi perché vi delinea chiaramente la sua visione dell’arte. A un fine narratore non corrisponde spesso un fine esteta: questa regola vale anche per Conrad che delle sue finalità narrative dà un sunto tutto sommato superficiale, imbevuto di genericità auto-concilianti e che esaltano con troppa pedanteria un certo moralismo d’antan. In fondo, l’alto concetto di Conrad si può desumere da certi ispirati stralci del romanzo stesso: «Il problema dell’esistenza sembrava troppo grande per essere racchiuso nelle forme del linguaggio umano. Per questo, con il consenso di tutti, venne affidato al mare sconfinato che, sin dagli albori, lo aveva accolto fra le sue braccia immense». O ancora: «Il mare immortale si stendeva vago e immenso, simile all’immagine della vita, con una superficie scintillante su abissi cupi». Il libro è pieno di simili metafore e analogie marine, una specie di filosofia dell’acqua che invade tutti gli aspetti e i pensieri di chi vi trascorre quasi tutto il suo tempo. Il titolo del romanzo accentra l’attenzione su Jimmy Wait, l’unico marinaio di colore della nave Narciso. È una scelta precisa e fuorviante al tempo stesso. La narrazione è infatti composita, con una pluralità di personaggi che si scambiano senza soluzione di continuità il ruolo di momentaneo protagonista. Ognuno lo è a suo modo e, tanto per fare un esempio pratico, il vile Donkin, «l’uomo che non sa fare la maggior parte delle cose e non vuole fare il resto», compare più frequentemente del nero. Cionondimeno soltanto l’entrata in scena di Wait si staglia sulle altre dal punto di vista dell’azione. Mentre i suoi compagni vengono presentati con gli accenti sferzanti dei tipici componenti di una ciurmaglia, egli si manifesta come un tetro fantasma nella notte. Ad eccezione di un fugace accenno ad una ragazza che lo starebbe aspettando, nulla si sa del suo passato, mentre di tutti i marinai alla prima apparizione, secondo una modalità classica di narrazione, vengono fornite notizie su esperienze pregresse, affetti e particolarità caratteriali. Jimmy è più presente nei pensieri di chi naviga con lui che sulle sartie della nave. Viene infatti ben presto confinato in una cabina ma ciò che è nascosto alla vista acquista rilevanza nel cuore degli altri passeggeri del Narciso che si auto-investono di mansioni quasi femminee per i loro standard pur di coprirne l’assenza lavorativa.
È quindi questa presenza non prevista, deleteria prima e metafisicamente iettatrice dopo, a costituire il focus modale di quest’opera di Conrad. Jimmy wait the death: ecco cosa fa di lui un assurdo catalizzatore di cataclisma. I lupi di mare che Conrad alla fine del primo capitolo aveva descritto con asciutta epicità marina non si arrendono mai di fronte alla nera falciatrice pur dovendola affrontare con spiacevole frequenza nel corso della loro vita. Si veda la tempesta che nel terzo capitolo rischia di far naufragare il Narciso. Gli ufficiali si comportano come tali, dando continuamente ordini e mantenendo il polso duro fino allo scampato pericolo; i marinai mostrano il loro indomabile stoicismo (il vecchio Singleton tiene il timone per trentasei ore di fila). In questo spaventoso frangente la scrittura dell’autore raggiunge il suo inarrivabile vertice: al lettore pare di vivere il ciclone in presa diretta, di essere al centro di una tragedia dalle proporzioni omeriche. C’è da sottolineare che anche Donkin, la cui forbita eloquenza puzza di sagacia da terraferma, è un virus all’interno del corpo/nave. La sua potenziale nocività viene però subito attenuata, riconoscendone l’origine galeotta e la sua natura che, dietro a rivendicazioni di sapore sindacale, nasconde un’anima parassitaria. Jimmy allora resta il vero e unico vulnus del Narciso. Vuoi per il colore della pelle (si può discettare quanto si vuole sul razzismo o no di Conrad, rimane il fatto che egli credeva nella superiorità dei bianchi), vuoi per la sopraccitata passività nel confronto con la Morte (si veda la parossistica reazione quando i compagni cercano di liberarlo), vuoi per la sua incapacità di marinaio (significativamente egli non opera alcuna azione nautica), egli diventa il simbolo dell’impossibile integrazione dell’Altro. Per arrivare a terra il Narciso dovrà sbarazzarsi, gettandolo in mare, dell’unico corpo a lei estraneo. Un messaggio cupo ma non disperato perché alla fine i sopravvissuti avranno la loro paga, fatta di donne, bevute e ritorno alle loro famiglie. Il fascino ambiguo di questa morale ha incantato e continua ad ammaliare lettori impegnati socialmente. Per una volta si può essere d’accordo con un cliché: è proprio questa la grandezza di Joseph Conrad.