Nell’oscurità ci stava proprio bene. Il nero era il suo colore preferito, è la negazione del colore stesso. Qualcuno ha detto che: “rappresenta l’assoluto confine oltre cui la vita cessa, e così esprime l’idea del Nulla, dell’Estinzione…Il nero rappresenta la rinuncia, l’ultima resa o l’abbandono…Esprime rivolta contro il Fato, il proprio Fato”.
Dal piano di sopra era passato a quello di sotto. Il buio era totale, gli giungevano le voci dei contadini che lavoravano nell’oliveto alla raccolta, chiacchierando e ridendo. Sentiva vicinissimo il raschiare del seghetto sui rami che si afflosciavano nelle reti col loro prezioso carico verde e nero.
Ora era in buona compagnia: viti, batterie, fili, chiavi, mentre al piano di sopra non c’erano che corde e materiale idraulico. Qui la sua curiosità poteva essere soddisfatta: poteva salire sulle lampadine, scivolare lieve sulle loro rotondità e scendere giù in picchiata sugli interruttori come su di un otto volante. Poteva avvertire il brivido del vuoto sotto di sé, causato dai fori delle prese elettriche e giocare ad accendere e spegnere i vecchi bottoni alla ricerca di una luce ormai per sempre perduta per lui. Soprattutto era lì che si mimetizzava meglio il colore del suo vestito.
Fece qualche passo in avanti, trascinandosi lentamente. Il suo corpo piatto ben si adattava al poco spazio disponibile. Lì stava bene, era in un capanno fatiscente, completamente in rovina, in cui in disordine erano ammucchiate cassette per le olive ripiene di ogni tipo di oggetti. Aveva passato molto tempo in buona compagnia. Era un grande osservatore, attento ai dettagli che sapeva cogliere al volo, avendo intuizioni che colpivano spesso nel centro.
Quello delle voci dei contadini non era stato il solo rumore che aveva accompagnato la sua solitudine. Da un po’ di tempo altri accenti si aggiungevano, confondendosi: quello di una donna piena d’entusiasmo e quello di un uomo che andava e veniva dal capanno, accompagnato da un gran chiasso. “A me non interessa cosa stanno facendo”, pensò Sko. Già aveva sentito uno strattone al piano di sopra ed un colpo secco.
Non aveva una bella reputazione e, per consolarsi del suo Destino nero come lui, rifletté che presto fuori sarebbe stata notte e si sarebbe potuto specchiare nel cielo. Pensò che la sua natura era solo pungere, ispirare orrore, causare fastidi e malanni e questo lo rendeva triste. In fondo si riteneva un buono e, se faceva del male, era soprattutto rivolto a se stesso. Si ricordò di quella volta in cui la padrona della casa, là nel bosco, l’aveva trovato nel suo letto e si era messa ad urlare come una pazza. Non aveva mai capito il perché. Tra poco il sogno si sarebbe avverato e Antares, suo cuore gigante, brillante e violento, sarebbe sceso fino a lui, sarebbe entrata nel suo petto e così il rosso e il nero si sarebbero ricomposti. Lì avrebbe battuto Calbalacrab, in arabo antico “guardiana del cielo”, con ritmi serrati che gli avrebbero tolto il respiro. Il “Rivale di Marte” avrebbe incenerito il suo minuscolo cuore. Già in passato Sko aveva ucciso Orione, diceva la leggenda, con uno scopo nobile, è vero, punirlo per la sua vanità, ma non bastava e ora erano condannati a non vedersi perché in posizione opposta.
Sentì un rumore violento ed una voce vicinissima. Una mano robusta aprì il cassetto: “Ma anche qui c’è uno scorpione!” gridò il contadino, che aveva un solo dente, con accento strascicato.
Con un colpo secco d’ascia schiacciò Sko sul fondo del cassetto.