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Fra le innumerevoli cose che ho imparato su mia moglie in dieci anni di matrimonio c'è il vizio di isolarsi nei momenti di dolore. All'improvviso diviene inaccessibile, non permette a nessuno di consolarla, mi costringe a restare lì, spettatore inutile della sua sofferenza - una ritrosia che ho scambiato talvolta con una mancanza di generosità.
Non ci resta altro da fare davanti alla morte di qualcuno, se non inventare delle attenuanti, attribuire al defunto un ultimo gesto di premura che ha voluto riservare proprio a noi, disporre le coincidenze secondo un piano di senso.
- Mi manca il modo in cui ci dava coraggio. La gente è così avara di coraggio. Vogliono soltanto accertarsi che tu ne abbia ancora meno di loro.
A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo.
Mi domando se la fede avrebbe sul serio attecchito in nostro figlio, nel caso la signora A. avesse avuto più tempo per curarla. Magari sarebbe stata una fortuna per lui: un credo qualunque, sensato oppure no, complesso o semplice a seconda dell'occorrenza, è pur sempre meglio di nessun credo. A volte ho l'impressione che noi ragazzi educati nel dominio della coerenza rigida, all'interno dello steccato del rigore scientifico, facciamo più fatica degli altri: vediamo troppo dell'infinita propagazione degli errori che si dirama nel mondo, fra individui ed eventi e generazioni, ma vederlo non significa che sappiamo farci qualcosa. Può darsi che avesse ragione la signora A. ad affidare parte del suo umore al divino, così come all'oroscopo radiofonico delle sette di mattina. Può darsi che abbia ragione Nora a portare al collo il suo rosario con leggerezza.
In aereo leggo un libro di Siddhartha Mukherjee, L'imperatore del male. Mukherjee, indiano-americano, dopo aver esplorato per anni il paludoso territorio d'intersezione fra l'ematologia e l'oncologia, ha compilato una storia romanzata del cancro in settecento pagine fitte di riferimenti, e subito vinto il premio Pulitzer. Ogni paragrafo mi presenta in controluce il riflesso della signora A. e mi sottrae un altro milligrammo di speranza per lei. Una guerra a tutto campo quella descritta da Mukherjee, una guerra segnata da qualche successo a cui è stato dato enorme risalto, ma in fin dei conti un'impresa fallimentare.
In fin dei conti, non si è quasi mai felici o infelici per ciò che ci succede, si è una cosa o l'altra a seconda dell'umore che ci scorre dentro, e il suo è argento fuso, il più bianco fra i metalli, il migliore fra i conduttori, il riflettente più spietato. Il conforto di saperla così forte si mescola alla paura di non essere davvero indispensabile per lei e di esserle attaccato, fra gli innumerevoli modi in cui le sono attaccato, come una sanguisuga che succhia la vita altrui, una specie gigantesca di parassita.
- Sette per uno? - Sette. - Sette per sei? Emanuele conta sulle dita, lentissimo. - Quarantaquattro. - No, quarantadue. Sette per zero? - Sette. È ironico, anzi no, è sadico: con una laurea in fisica teorica, una specializzazione in teoria quantistica dei campi e una generale dimestichezza con il formalismo più avanzato del calcolo simbolico, non sono in grado di trasferire nella testa di mio figlio il motivo per cui un numero qualunque moltiplicato per zero dà come risultato zero. Mi sembra di vedere l’interno del suo cranio, il cervello fluttuante in una nebbia dove le affermazioni si disperdono senza costruire alcun senso.
Le persone che si prendono cura di noi non hanno quasi mai l'accortezza di farlo nel modo in cui ci piacerebbe, ma bisogna accontentarsi: è già molto così.
Basta arrendersi una volta per scoprire di non possedere più il coraggio necessario.
L'innamoramento, immagino, resterà sempre per me qualcosa di molto affine all'essere stanato.
Ero sicuro che l'argento di Nora e il mio nero si stessero mischiando lentamente e che lo stesso fluido metallico e brunito avrebbe infine percorso entrambi.
Ci sono avventure che hanno il loro epilogo scritto nell'inizio. Forse qualcuno, compresa la signora A., ha pensato anche solo per un minuto che le cose potessero andare diversamente da così? Qualcuno ha scomodato per lei la parola «guarigione»? No, mai. Al massimo dicevamo andrà meglio, ma non credevamo neppure in questo. Il suo declino era racchiuso per intero nell'ombra polmonare impressa sulla prima lastra toracica. «Tutte uguali le storie di cancro». Forse. Ciò non toglie che la sua vita è stata unica, meritevole di un racconto tutto per sé; la sua vita è stata degna della speranza, fino all'ultimissimo istante, che il destino potesse riservarle un'eccezione, un trattamento speciale in cambio dei servigi che lei aveva reso a tanti.
- Allora mi raccomando, - le ho detto. Lei mi ha sorriso. Non c'era più bisogno di fingere, la morte era già lì, insieme a noi, occupava la metà vuota del letto, ma se ne stava calma ad attendere.