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Il Nilo sfocia a Palermo

Creato il 31 maggio 2014 da Francosenia

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Le acque della Sicilia
di Leonardo Sciascia

«La mia terra è sui fiumi stretta al mare». Non solo «tagliata dall’acque», la Sicilia, ma come sollevata: dalle acque di quei fiumi «cui il nome greco è un verso a ridirlo, dolce». L’Anapo («alle sponde odo l’acqua colomba, Anapo mio»); il Gela («le bianche acque del siculo Gela»); l’Imera («Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, di eucalyptus…»); il Platani («dai pianori d’Acquaviva, dove il Platani rotola conchiglie sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli»). Nella poesia di Quasimodo la Sicilia si configura come una mappa corsa e intersecata da vene azzurrine, isola che i fiumi ritagliano in isole. Affrontiamo questa immagine a quella del geografo: «I fiumi, in genere, risultano più o meno ricchi, più o meno lunghi nel corso e di portata più o meno costante: in rapporto alla ricchezza delle sorgenti che li alimentano; ai terreni, più o meno permeabili, sui quali scorrono; alla regolare distribuzione delle precipitazioni entro l’anno. Quindi, è assai facile intendere come qui, in Sicilia, i fiumi debbano essere pochi e spesso brevi nel loro corso, per la scarsa distanza tra lo spartiacque e il mare. E siano, inoltre, quanto mai capricciosi nella loro portata, che talora li fa grossi come l’Adige, talora li fa essiccare del tutto o ne lascia vivo solo un rivoletto tra i bianchi sassi. Una buona parte dei corsi d’acqua non sono neppure fiumi, bensì torrenti: le tipiche fiumare» (Ferdinando Milone, Sicilia. La natura e l’uomo, Boringhieri, Torino 1960). E cioè: in Sicilia i fiumi sono poveri, di breve corso, di portata incostante perché povere le sorgenti, permeabili i terreni su cui scorrono, irregolare la distribuzione della pioggia; e ovviamente poca distanza corre, dentro il perimetro dell’isola, tra la sorgente e la foce di ciascun fiume. Il più lungo, il Salso-Imera, non corre per più di centocinquanta chilometri; quello di maggior portata, il Simeto, ha una media di diciotto metri cubi al secondo: ma è una media che sta tra i quaranta dell’inverno e l’uno dell’estate.
Eppure da Abu Abdallàh Muhammad ibn Muhammad ibn Idrís, comunemente chiamato Edrisi o Idrisi (un richiamo idrografico si annida per noi nel nome), geografo arabo al servizio di Ruggero II, a Salvatore Quasimodo, l’immagine della Sicilia ricca di fiumi, ricca di sorgenti, specchiata e come circonfusa d’acque, ha la meglio su quella che l’uomo di scienza assevera; che il nostro sguardo percorre; su cui il contadino al doppio fatica, e imprecando. Mai contento, dicono del contadino quelli che fanno altri mestieri o nessuno; e mai contento sempre riguardo all’acqua: e gli dà ragione l’uomo di scienza.
Di Palermo, città oggi assetata, Idrisi dice: «Le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni… All’esterno del Borgo scorre sul lato meridionale il fiume Abbàs che ha un corso perenne ed è cosparso di mulini» (il Borgo è un quartiere oggi piuttosto fatiscente). E muovendo da Palermo: «A Trabia scorre il fiume Termini, largo e copioso di acque, in cui si pesca a cominciare dalla primavera un pesce della specie del salmone»; a Cefalú sono «cascate d’acqua che, dolce e fresca, serve anche per il fabbisogno degli abitanti»; Tusa, Caronia, San Marco, Naso, Patti, Milazzo hanno «acque abbondanti», «acque copiose», «acque irrigue»; Messina si adagia tra giardini e frutteti «e lungo i fiumi dalle acque copiose sono sistemati molti mulini» a Taormina i fiumi «scorrono abbondanti» (e su di uno vi è un ponte «di fattura straordinaria»); vicino Catania, «le acque sorgenti e fluviali sono copiose», e c’è a ponente il Simeto «fiume ragguardevole che abbonda di pesci tanto grandi e saporiti come non se ne trovano altrove»; Lentini ‘la un fiume che «abbonda di ogni specie di pesci pregiati, veramente impareggiabili, che si esportano in tutte le località di questa zona»; a Siracusa, la sorgente dell’Anapo veramente straordinaria, che scaturisce da una roccia «proprio in riva al mare»; a Noto i «fiumi perenni hanno acque abbondanti e sono disseminati di mulini»; Scicli, oltre ai fiumi, ha una «fonte delle ore, cosí detta perché, fenomeno veramente singolare, l’acqua vi scorre solo nelle ore delle preghiere e si prosciuga nelle altre»; Ragusa ha un fiume che prende il suo nome; intorno a Butera scorre «uno dei maggiori fiumi dell’isola, lungo il quale si allineano i giardini»; e presso Licata sfocia il Salso, «che abbonda di pesci saporiti, grassi e di gusto delizioso». La descrizione del resto del litorale, fino a ritornare a Palermo, dice ancora di fiumi, sorgenti, giardini irrigati, mulini ad acqua; né diversamente sono descritti i paesi dell’entroterra. Anzi, quei fiumi che sul litorale ha incontrato di n solo nome, all’interno, rameggiando gli affluenti, ne prendono diversi. Da notare, come curiosità, che parlando di Aci, «terra di antica civiltà», Idrisi non fa menzione del fiume omonimo: forse a contestazione del mito classico. C’è da credere che proprio da Idrisi, geografo, sia sorta la favola delle acque siciliane, della Sicilia copiosa di acque, della Sicilia canto e lume di acque. Solo che Idrisi era, appunto, un geografo: non poteva essersi inventato fiumi, sorgenti, orti irrigui, pesca fluviale e persino il gusto dei pesci. Una certa esagerazione, una certa enfasi: va bene. Ma al re che gliel’aveva commissionata non avrebbe osato consegnare una descrizione fantastica della Sicilia. E l’attendibilità di quel che descrive, è confortata da un piccolo particolare: quello della fonte delle ore, da dove il credente musulmano vien fuori, poiché certo non vuol dire delle ore della preghiera cristiana. Con tutta la tolleranza che al re normanno si attribuisce in fatto di religione, a convalida della verità della propria, Idrisi non si sarebbe certo attentato a raccontargli un fenomeno non verificabile. Gli ha raccontato una cosa vista; e oggi crediamo spiegabile (e forse anche ieri).

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Quello che è per noi favola, mito, non era dunque tale per Idrisi. Ci sarà stata, in quel tempo, una più regolare distribuzione delle precipitazioni nel giro di ogni anno; e più abbondante anche. E diverso era il rapporto tra il numero degli abitanti e la terra, l’acqua da irrigare e da consumare, i prodotti. Gli arabi, speculativi e sagaci anche in fatto di idrica, avevano creato una Sicilia di orti e giardini, una Sicilia ortofrutticola. Quale, praticamente, è rimasta per tanti secoli e fino a noi: sia quantitativamente, nell’estensione del coltivato e nel volume della produzione, sia qualitativamente, nel modo di coltivare e nel tipo del prodotto. Se ne può trovare riscontro nel fatto che in molti paesi siciliani la località che quasi interamente soddisfaceva la richiesta di frutta e verdura, il fabbisogno degli abitanti, è denominata «saraceno»: indubbiamente perché i saraceni vi si erano insediati, avevano cercato l’acqua e dato inizio a un tipo di agricoltura prima ignoto. Naturalmente, oggi la richiesta si è moltiplicata: la produzione locale non basta più, si consuma tanta più frutta e, in quanto ad ortaggi, la produzione e conservazione industrializzate hanno la meglio sulla produzione stagionale. Ma gli orti del «saraceno» al mio paese (e credo anche in altri paesi) ci sono ancora: lavorati di zappa, pazientemente irrigati ogni sera attraverso un reticolo di piccoli canali che due colpi di zappa bastano ad aprire o a chiudere, in modo che l’acqua arrivi, una «casella» dopo l’altra, ad irrigarle tutte equamente. Per quanto possa sembrare incredibile, in fatto di ricerche idriche ben poco si è fatto in Sicilia dopo gli arabi: vale a dire dal secolo XI al xx. Grandi e piccole sorgenti che oggi alimentano le reti idriche cittadine, le poche fontane che restano e gli abbeveratoi nelle campagne, nella maggior parte sono stati loro a scoprirle: e lo testimoniano i nomi, che spesso si estendono a tutta una località.
Non mitiche, dunque, le acque siciliane per Idrisi. La ricchezza e bellezza della Sicilia lui le vedeva come sorgere dalle acque. Fiumi, acquedotti, bivieri, fontane. Acque mobili, acque che scorrono. I pozzi, ne parla come di un indizio di povertà. Era figlio, direbbe Savinio, di una civiltà idrica. Nell’esaltazione delle acque siciliane, nel suo goderne visualmente e spesso in bevute (bevute, possiamo immaginare, da uomo che è costretto a fare il suo lavoro nella stagione arsa, così come i geometri per la fondazione o l’aggiornamento del catasto), forse ritrovava le proprie radici, l’orgoglio di appartenere a quella civiltà, il gusto di dispiegarne l’elogio – attraverso i nomi arabi che ancora quei luoghi d’acque portavano – sotto gli occhi del re normanno. Da lontano, dall’esilio in Spagna, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, con malinconia e a momenti con rabbia, cantava alla sua gente le stesse cose che Idrisi descriveva al re cristiano.
Ma la Sicilia – civiltà idrica di Idrisi, di Ibn Harndis, di tutti quegli autori arabi che Michele Amari raccolse e addusse nella sua Biblioteca arabo-sicula, a noi appare come sognata. E viene il sospetto sarebbe così apparsa anche ai greci, ai siciliani della Sicilia greca. Il fatto che alle acque siciliane abbiano legato dei miti, non dice che solo da prodigi le vedevano scaturire, da miracoli, da fatti innaturali e divini? Si consideri, per esempio, la fantasia di un fiume non siciliano, di un fiume emigrato in Sicilia, di un fiume alla Sicilia straniero. Non è eloquente, un simile mito, di una terra negata alle sorgenti, ai corsi d’acqua? E varrebbe la pena dare, di questo e di altri miti legati alle acque siciliane, la summa che si contiene nei versi 385-520 del libro V delle Metamorfosi di Ovidio, nella traduzione di Salvatore Quasimodo: Non lontano dalle mura di Enna s’apre il Pergo, lago d’acque profonde; mai il Caistro, nelle sue onde fuggenti, ode canti di cigni più di quello. Una selva corona le sue acque e ne avvolge le rive, e le fronde come velo allontanano l’impeto di Febo. I rami danno ombra e l’umida terra fiori d’ogni specie: là eterna è primavera… In questa sfera di miti si era tanto lontani dalla Sicilia idrica di Idrisi quanto Quasimodo che quei miti rivive per congenialità al mondo classico e per inganno della memoria. O quanto, per altro verso, diversamente, noi: impossibilitati a ricordare la Sicilia, con gli inganni che sono propri ai ricordi, o ad immaginarla. E per il fatto che l’abbiamo presente, che ci viviamo e la viviamo.
Ecco il Platani che «rotola conchiglie sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli». Nell’opera La Sicilia in prospettiva, cioè il Mongibello, e gli altri Monti, Caverne, Promontori, Liti, Porti, Seni, Golfi, Fiumi e Torrenti esposti in veduta da un religioso della Compagnia di Gesú, uscita in Palermo dalla stamperia di Francesco Cichè l’anno 1709, il Platani è fiume «grossissimo», abbondante di cefali e anguille. Oggi, tranne che per qualche improvvisa piena invernale, che regolarmente porta Via i binari ferroviari che gli corrono vicini, è un rigagnolo che sotto Campofranco finisce in un bacino. Passando noi spesso per la strada Palermo-Agrigento, che ne segue il corso, ogni volta i versi di Quasimodo fanno ironico cartiglio, appena passata la stazione di Acquaviva. Con più adesione alla realtà, viene da ricordare un aneddoto: quello di Alessandro Dumas figlio che in mattinata vede il Manzanarre tanto solenne e solennizzato il nome quanto deludente la cosa – e nel pomeriggio una corrida; e preso da svenimento al primo toro che vede ammazzare, quando rinviene si trova davanti un tale che gli offre un bicchier d’acqua; e «datelo al Manzanarre, – dice – ne ha più bisogno di me».

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Ottantaquattro fitte pagine impiega il religioso della Compagnia di Gesú per i fiumi e i torrenti della Sicilia: dall’Abiso (non Abisso, raccomanda) allo Zaffaria (Zafariae fluvius). Ma dove sono questi fiumi e torrenti che corrono per ottantaquattro pagine? Come quel fiume che era la ninfa Aretusa e che dall’Elide, correndo sotto il mare, era migrato in Sicilia, forse dalla Sicilia sono fuggiti interrandosi, scavandosi segreti alvei sotterranei e sotto Carini. L’Alcantara, con le sue gole profonde, forse è un me in fuga: attardatosi nella fuga, sorpreso nel suo lavorío di scavo, di sprofondamento. E così il Simeto nello spostamento della sua foce – per ben tre volte da Idrisi a noi: prima verso il nord, di un paio di chilometri; poi verso sud di altrettanti; e ancora verso sud continua a ‘ostarsi -, quasi stesse tentando un punto di fuga, un punto in cui immergersi nel mare per riemergere altrove. Ma alla reale esistenza dei corsi d’acqua in Sicilia si ha impressione non credesse nemmeno il padre gesuita che i primi del Settecento si dava ad enumerarli e descriver. Per lui sono nomi; nomi greci, latini, siciliani, italiani. arabi mai. E miti che hanno sostituito o convivono con altri miti, prodigi che hanno sostituito o convivono con altri prodigi. A parte i pesci, di cui riferisce come per sentito dire, nulla c’è per lui in un corso d’acqua che sia gato alla vita di ogni giorno, al lavoro umano, alla tranquillità o all’inquietudine degli uomini. Del Platani racconta: «Presso le sue sponde viaggiava un dí Sant’Alberto armelitano, la fama della cui santa vita, e de’ prodigi per la intercessione da Dio operati, era da per tutto divulgato; quando alquanti Giudei, nel valicarlo, rapiti dalla piena dell’acque, implorarono il soccorso del Santo, acciòcchè in virtú del suo Cristo, si compiacesse liberarli dall’evidente ridicolo, in cui erano incorsi… Cortese il Santo promise o in nome di Gesú Cristo il desiderato scampo, purché ‘si vicendevolmente promettessero di abbracciarne la fede, consentirono prontamente que’ miseri naufraganti; ed Alberto, camminando a piè asciutto su l’acque, ivi stesso istruitili, li battezzò, e salvi li condusse al lito, con dividere in due parti l’acque del fiume, e rinnovare le antiche maraviglie del Mare Rosso nel passaggio degl’Israeliti». Del Giarretta: «Nell’acque del Giarretta miseramente annegò Quintiano, quel Tiranno crudele che condannò a morte Sant’Agata, quando da Catania portandosi in Patmo, per rapire il ricco patrimonio della martirizzata eroina, mentre valicava il fiume, per giusto giudicio della divina Vendetta, mortalmente percosso con calci e morsi da due infuriati Cavalli, precipitò col corpo nell’acque, e con l’anima negli abissi infernali». E del Papireto, fiume che scorreva dove oggi è il marché aux puces, dice c’è controversia sulla «scaturigine», poiché tanti «scrittori eruditi» del Cinque e del Seicento «giudicano essere un braccio del fiume Nilo, che per sotterranei canali sbocchi in Palermo, il che stabiliscono con alcune prove»; e sarebbero queste: il crescere e decrescere stagionale delle acque, a somiglianza di quelle del Nilo; il fatto che vi nascano i papiri, «cannuccie triangulari senza nodi, e crinite in cima, proprie del fiume Nilo»; e, prova decisiva, il venir fuori da esso, sotto il regno di Pietro d’Aragona, di un coccodrillo (coccodrillo che fino a qualche anno addietro stava appeso al tetto di una spezieria: a certificazione che il Papireto ormai scomparso era un ramo del Nilo). E del resto, dice il padre gesuita, «nella supposizione del suo pellegrinaggio sotterraneo il Papireto non sarebbe dissimile dall’Aretusa di Siracusa; poiché se questo nasce in Arcadia, e per secreti meati scaturisce in Siracusa, un ramo del Nilo dall’Egitto per nascosto condotto sgorgherebbe in Palermo». Fiumi che vengono dalla Grecia e dall’Egitto «per nascosti condotti». Fiumi che scompaiono (è stato risucchiato dal Nilo, il Papireto?). Fiumi che spostano il loro corso e la loro foce. Affluenti che decidono di non più affluire, di tributare al mare invece che a un altro fiume; e al contrario. Fiumi che cambiano nome, e dunque identità (Simeto, Fiume di Catania, Giarretta, Simeto: non corrispondono, questi mutamenti di nome, ai suoi movimenti, al suo divincolarsi per raggiungere altra foce?). L’idrografia siciliana è una mitografia. Una mitografia in atto, se persino l’uomo di scienza parla dei fiumi come avessero personalità, volontà, sentimento: «Quasi volesse allontanarsi dal vulcano, e non a torto, l’Alcantara…»; «Il fiume più bizzarro di tutto il versante direi che è il Simeto…»; «Il Dittaino è ancora più pazzerellone del Simeto…»; «Entrambi i fiumi (il Dittaino e il Gornalunga) erano un tempo indipendenti dal Simeto, «al quale devono essersi associati in seguito…». Una specie di pirandellismo delle acque: amor proprio, fuga dall’identità, uno e due, uno e nessuno. Il Simeto come Mattia Pascal. Il Papireto come Vitangelo Moscarda. Mitografia su mitografia: quella di Teocrito, di Virgilio, di Ovidio; quella cristiana. Perché non tentarne una pirandelliana? A queste mitografie – abbiamo già tentato di dirlo corrispondono la povertà, l’aridità, il bisogno, la sete. La sete della terra, la sete degli uomini: sicché l’apparizione dell’acqua è sempre un prodigio, un miracolo. Nascono, le mitografie, dalla ragione stessa per cui il geografo dice: «Chi consideri l’enorme importanza dell’acqua in un paese semi-arido, dalle piogge scarse, concentrate nella corta stagione invernale, e la lunghezza della estate siccitosa, non si meraviglierà che alla poca acqua che scorre in superficie o a quella, un po’ più copiosa, che sgorga dalle sorgenti, dedicheremo parecchio spazio». uno spazio che – mancando la meditazione e ricognizione scientifica, mancando ogni volontà di affrontare il problema e di tentare di risolverlo – per secoli è stato occupato dalla fantasia, dalla creazione di miti. Soltanto gli arabi non fecero mito dell’apparizione dell’acqua: appunto perché la cercarono, la trovarono dove potevano e sapevano trovarla, la condussero sapientemente ad irrigare orti e giardini; legarono insomma ad essa il lavoro, la vita.

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Ma «i miei fiumi», dice Quasimodo. Sono i fiumi della sua infanzia, forse mai più rivisitati. Il Platani, all’altezza della stazione ferroviaria d’Acquaviva; l’Imera, presso la foce; l’Anapo, di «fresca acqua azzurrina», le «bianche acque del siculo Gela». Chi scorra il volume delle sue poesie, è come ascoltasse un continuo suono d’acqua, vedesse il mondo smemorato da un velo d’acqua. «Sera d’acque limpide», «Primavera solleva alberi e fiumi», «Giaccio su fiumi colmi», «Ancora un verde fiume mi rapina», «Voci d’acque trepide», «L’acqua tramonta I sulle mie mani erbose», «Non so che cieli ed acque I mi si svegliano dentro», «Sopori scendevano dal cielo I dentro acque lunari», «Mite letargo d’acque»: tutto è memoria d’acque, tutto vive in quella trasparenza. Dalla sorte ha avuto di poter vivere nell’infanzia, di viverla come realtà, la favola delle acque siciliane, il mito, poi ritrovati «nei versi degli antichi».
Anche noi possiamo dire di avere avuto, nell’infanzia, un fiume. Se non lo avessimo rivisto ad ogni estate, sarebbe ancora un fiume. Un fiume come il Po, come il Danubio. Era, per tutti, più che un fiume il fiume. Non lo si chiamava col nome, che aveva, di Azzalora: era semplicemente e assolutamente il fiume. E non era nemmeno un fiume, era appena un torrente. Oggi, non è nemmeno un torrente, se non quando diluvia. D’estate, non vi corre più quel filo d acqua, che andava a finire al fiume Naro, a cui andavamo a cercare, tra pietre e melma, qualche granchio e qualche anguilla. Eppure, l’andare al fiume era un’avventura: raccomandazioni di tenerci alle pietre e alle fronde venivano fatte a noi bambini, che l’acqua non ci trascinasse con sé; e si finiva col credere che davvero quella poca acqua potesse a un momento incapricciarsi, impennarsi, prendere volume e forza da trascinarci. E non sentivamo qualcuno dire, in momenti disperati, «vado a gettarmi nel fiume dell’Azzalora»? Ricordarlo com’era, e cioè come ci appariva, è difficile. Certo, c’era più verde; un verde più intenso ed acquatico di quanto non fosse nella campagna della zona. C’erano cespi di canne minute, un morbido pennacchio in cima: canneddi, i contadini li chiamano; e la loro presenza in terreno aperto è per loro indizio d’acqua sotterranea. Le pietre erano più muschiose, che oggi appaiono come ossame. E sui due bordi correvano orti, e celebrate ne erano le cipolle per la dolcezza: da mangiare crude, con pecorino forte o caciocavallo, o mescolate in insalata al pomodoro al cetriolo, al sedano (aglio, origano o basilico quando non c’era il sedano, olio e acqua la completavano; e l’aggiunta dell’acqua i contadini la facevano per ammollarvi tocchi di pane, a modo di Zuppa). E, quando era il tempo della bassa, c’era qualche uccello d’acqua; oltre che, sempre, ad Ira di vespro, stormi di uccelli che scendevano a bere e qualche volta trovavano il vischio che li catturava o la rete. Era insomma, anche se con poca acqua, il fiume. E poi c’erano le anguille e i granchi. Di granchi a volte riuscivamo a prenderne un paniere: attenti ad afferrarli in nodo che non ci prendessero qualche dito tra le rosse e dure tenaglie, li mettevamo su un mucchietto di paglia che accendevamo, badando a ricacciarli con una bacchetta indietro, dentro il fuoco, quando stavano per uscirne. Poi intorno alla cenere, stabilito quanti ad ognuno ne toccassero, era il banchetto. Tiravamo con le dita la polpa parte bianca parte giallastra contenuta in quella che chiamavamo «la tabacchiera», poiché ne aveva la forma; e succhiavamo una ad una, meticolosamente, le chele. Il fiume dell’Azzalora. E che delusione quando seppi che non era un fiume: un torrente, un piccolo torrente. E altra delusione quando mi sono imbattuto in un libro intitolato L’Azzalora e parlava del feudo dell’Azzalora e non del fiume: di Pietro Mignosi, un racconto niente male. E il ricordo di questo racconto, di quella mia delusione, apre a una domanda. Ecco: uno scrittore siciliano può mai pensare un racconto, una storia, che abbia a che fare con un fiume?
Non può. E difatti, credo non se ne possa trovare uno solo. Si può fare poesia, sui fiumi siciliani, non mai prosa. Di poesia ce n’è tanta, su fiumi, torrenti, laghetti e fontane: e specialmente nel secolo sedicesimo, corifeo Antonio Veneziano. Ma non un romanzo, non un racconto. I fiumi sono mito e memoria, s’appartengono ai «verdi paradisi» dell’infanzia: l’infanzia dell’Isola, l’infanzia di ognuno che sia nato nell’Isola.

- Leonardo Sciascia -


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