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Amare la parola, fino al punto di accarezzarla con lo sguardo e trovarla bella per come si distende su una pagina, prima ancora che per il suo significato o per il suo suono. Fino al punto da adoperarla per ciò che semplicemente è - successione di lettere, formiche di inchiostro su un sentiero bianco - e non solo per come si mette in fila dietro e davanti altre parole.
E' questo che mi ha suggerito una bella intervista a Repubblica di Herta Muller, in Italia per presentare il suo ultimo libro, Il Novecento non ci ha insegnato niente.
Intervista in cui racconta molte cose: su come cambia la vita, se cambia, dopo aver vinto un premo Nobel; su come si può cominciare a scrivere per "trovare un punto di appoggio", su come la letteratura può nutrirsi di silenzio. Ma poi ecco le parole: queste strane creature che da sempre, e senza mai smettere, Herta Muller ha ritagliato da giornali e riviste.
Ritagliavo di tutto: articoli, titoli, foto. Ognuna di quelle parole sminuzzate aveva un carattere, una grandezza, un colore diverso, a differenza di quelle dattiloscritte, che sono sempre le stesse.
E dopo le forbici la colla: perchè un'opera d'arte può essere un romanzo, ma anche un collage che utilizza le parole come mattoncini, o come pennellate. Ma cosa c'entra con la letteratura? Ecco Herta Muller:
Solo così ho capito quanto potente e decisiva può essere una singola, apparentemente semplice, parola.
E allora c'en
tra, come no, c'entra.
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