Forse nessuno degli amanti del regista contemporaneo più cerebrale in circolazione ritiene che Interstellar sia la sua migliore pellicola. Anzi, molti dei suoi estimatori si sono dichiarati delusi. Forse perché gli “omaggi” a Tarkovski e a Kubrik sono troppo evidenti, fino a diventare delle citazioni o contro-citazioni, o forse perché, al di là della complessità dell’idea dei wormholes, o della legge gravitazionale, troppe cose sono alla fine “spiegate”, e a volte il formato è quello da famiglia felice americana, soprattutto all’inizio, dove alcuni dialoghi ingenui e paternalisti, a volte un po’ stucchevoli, rendono il film troppo spielberghiano (regista per il quale era stato inizialmente pensato il film): che non è ciò che gli amanti di Nolan cercano.
E i più affezionati o i più puntigliosi hanno notato qualche incoerenza di sceneggiatura, sì, anche qualche errore sul piano scientifico, che ha tolto il piacere della perfezione di congegno goduta altrove, per questo regista. E il concetto più importante, e molto nolaniano, dell’amor vincit omnia, per taluni è stata una scorciatoia.
Detto ciò, resta un bel film, intenso, scultoreo, con immagini spalancate che danno vertigini spaziali di immensità, silenzio, solitudine, brividi, emozione, sottolineate dalla musica di Hans Zimmer, quasi sempre perfetta. E al di là del parlare dell’Amore come forza che redime, che va oltre i limiti della materia, che vince su tutto nonostante sia provata da esseri tanto umili e fallaci quali sono gli esseri umani, si parla anche del lottare, della speranza, sottolineata dalla poesia di Dylan Thomas “Do not go gentle into that good night”, dove l’invito è quello a non arrendersi all’idea della morte, anche quando si è in prossimità della fine della vita. La ribellione come forza vitale, come tenacia che muove il protagonista, Cooper (Matthew McConaughey, un po’ bidimensionale e legnoso nella recitazione, soprattutto all’inizio, come imitasse un Tom Cruise versione eroica), padre di Murphy (da bambina interpretata con forza da Mackenzie Foy, e da adulta dall’intensa Jessica Chastain). Una figlia battezzata bizzarramente con il cognome dell’inventore della Legge del pessimismo (“quello che può andar male lo farà”), che invece si ribella a ogni destino, opera la catarsi del suo nome, e salva la razza umana dalla sua estinzione. E il mezzo è l’amore parentale: suo padre pur inferendole il dolore più grande, l’abbandono, le dà i mezzi per risolvere il problema per il quale l’ha lasciata: la fine del mondo. E il loro rapporto non è però così limpido da implicazioni edipiche, da una sensualità lasciata un po’ emergere, nonostante tutto, forse inconsciamente, persino.
Molto lineare e semplice la metafora del Doctor Mann (Matt Damon), l’astronauta scienziato che la missione di Cooper sceglie di andare a visitare sulla base della manipolazione dei dati che lui ha operato, con l’unico intento di venire salvato. Nessun nome è scelto a caso: le missioni esplorative per cercare altri pianeti colonizzabili si chiamano Lazarus, e quando la missione di Cooper arriva da Mann, di fatto lo resuscita dalla morte, tirandolo fuori dall’ibernazione. E il suo ritorno alla vita dal sarcofago di gelo che lo contiene termina con vagiti simili a quelli di un neonato, di un rimesso al mondo. Si perde nel doppiaggio la valenza del suo nome, non pronunciato alla tedesca, ma all’americana, con lo stesso suono di “man”, uomo. Resta un po’ un sospetto che la scelta di un cognome “tedesco” possa avere anche a che fare con un inconscio riflesso sull’equazione di “tedesco” = “il più alto grado di cinismo”, che spesso nel cinema viene usato come richiamo inconscio a una sorta di eco collettiva, abbinato all’aspetto che è l’unico scienziato al cui cognome viene sempre abbinato il titolo di “Doctor”, come quello di Stranamore, Doctor Strangelove. Mann appare comunque come l’everyman, il prototipo: ci rappresenta. Ha attratto la missione Cooper su false premesse, mentendo sui risultati, manipolando i dati scientifici, cosa che ha eseguito distruggendo il suo robot di appoggio – che non a caso si chiama Kipp, una sola “p” in più di Kip Thorne, lo scienziato che ha di fatto elaborato la teoria scientifica su cui è basato tutto il film. Lo ha fatto per ribellione alla morte, però, per non “andare con dolcezza in quella buona notte” di cui parla Thomas. Al netto della sicurezza che il genere umano fosse comunque probabilmente spacciato, ha cercato un briciolo di salvezza per sé. Nonostante la legge di Murphy. Ha tentato, ostinatamente. Ha quindi sbagliato? Il quesito resta aperto: quando dicono “Mann (=il genere umano) è un fottuto vigliacco” poco prima che lui, con una manovra impossibile cerchi di rubare l’astronave per “tornare a casa”, cosa è più giusto: la sua spinta vitale egoistica, o accettare di morire? E non ci vuole coraggio comunque a tentare di attraccare a un’astronave con una manovra quasi impossibile, che infatti non riuscirà? Il seno della madre offre un rifiuto, non garantisce vita al suo figlio, lo abbandona, come Cooper ha abbandonato Murph.
L’istinto di sopravvivenza non è eroico, ma è quello che ci salva. Fare il nostro interesse. La cupidigia come negazione della morte: ciò che rallenta il tempo, ciò che per gravitazione altera tutta la realtà stellare, è il buco nero Gargantua, disceso dallo spagnolo garganta, gola: la rappresentazione l’insaziabilità smisurata di una gola che vuole ingoiare tutto per sé, senza di altro curarsi. Ma alla fine la sopravvivenza dell’astronauta Brand (Anne Hathaway) e la sua possibilità di atterrare su un altro pianeta selezionato dalla NASA come probabile succedaneo della Terra, sono garantite proprio dalla forza di attrazione di Gargantua: la spinta che le consentirà di completare il suo viaggio nonostante il poco combustibile. Ma questo è possibile solo a fronte di un atto di eroismo sacrificale da parte di Cooper: abbondonerà l’astronave Endurance (Resistenza, Sopportazione, Pazienza), insieme al robot TARS per alleggerirla al punto da rendere il carburante sufficiente.
È in questi lati oscuri, non immediatamente percettibili, che ritroviamo di più Nolan, non in certi concetti molto semplici, quasi elementari, che hanno deluso i suoi fan più introspettivi. Ma sono concetti che hanno a che fare con le domande ancestrali della razza umana: amore, morte, odio, sopraffazione, altruismo, famiglia, paura, tradimento, abbandono.
Come per Avatar, al di là di certa elementarità di concetti, che può commuoverci nel profondo oppure suggerirci un opposto senso di avversione, il film può e forse dovrebbe essere visto e goduto per le sue immagini, per il mondo di incredibile fantasia visuale che crea, per i suoi effetti, per la bellezza gigantesca dei suoi scenari. Come un film, insomma, non come un trattato.