Facciamo un gioco della torre storico. Alle nostre mani sono appesi Mussolini e Hitler. Il peso congiunto dei due è gravoso, decidiamo quindi di salvare solo uno dei due dittatori piuttosto che rischiare che entrambi perdano la presa e si sfracellino al suolo. Chi lasciamo vivere? Dopo la visione de Il nome del figlio di Francesca Archibugi, uscito nelle sale lo scorso 22 gennaio, la nostra preferenza andrebbe sicuramente verso l'autocrate tedesco (naturalizzato). Uso questa battuta sarcastica per tenere desta la vostra attenzione e per lanciarmi in un paragone incisivo. In fondo il rapporto che si instaura tra la pellicola della regista romana e l'originale francese del 2012, Cena tra amici, del duo Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, non è molto dissimile tra quello che intercorse tra le due personalità storiche menzionate. Accantonando la genealogia tra fascismo e nazismo, potremmo definire Mussolini un epigono pavido di Hitler in (almeno) due settori cruciali come economia e politica estera.
Ed esattamente così appare il raffronto tra i due lungometraggi in questione. Economia, innanzitutto. In Francia Cena tra amici è stato un clamoroso successo teatrale prima e cinematografico poi. Basato su un collaudato dramma da camera, il film d'oltralpe nel 2012 aveva catturato le simpatie di critica e pubblico per la sua riuscita messinscena. Francesca Archibugi decide di farne un remake e assieme a Francesco Piccolo scrive la sceneggiatura. Sembra un'operazione dal risultato messo in cassaforte: plot pirotecnico e già collaudato; la meglio gioventù della generazione attoriale/autoriale: Valeria Golino, Alessandro Gassmann, Rocco Papaleo, Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti (i primi quattro hanno tutti all'attivo almeno un'opera dietro la macchina da presa); ambientazione casalinga che tanto piace al pubblico radical-chic di riferimento. L'esito artistico di questi calcoli però è inficiato dall'altra grande questione: la politica estera, e cioè l'esportabilità di questo remake italiano. Cena tra amici ha funzionato bene anche negli altri paesi perché il modello su cui si fondava non era esclusivamente spendibile nel mercato francofono.
C'erano sì riferimenti specifici, dall'Adolphe del francesissimo scrittore Benjamin Constant alla presa in giro della borghesia parigina, ma essi non precludevano l'intelligibilità degli scambi dialettici, colorandoli semmai di un gustoso esotismo. Il nome del figlio invece sceglie di italianizzare tutto tranne paradossalmente la letterarietà del nascituro. Il riferimento a Herman Melville e al suo romanzo, Benito Cereno, è così poco sentito dagli autori stessi che a stento ne fanno riferimento, come se lo avessero wikipediato. Per il resto tutta la vicenda viene localizzata nelle nostre rassicuranti coordinate geografiche. Anzi, viene perpetuato l'antico equivoco di fondo del nostro cinema, ovvero la romanità della nostra nazione. Come se il contesto della capitale, dalla borghesizzazione del Pigneto alla perifericità di Casal Palocco, fossero riconoscibili prontamente sia dai meridionali che dai settentrionali. Le maschere teatrali di Cena tra amici ne Il nome del figlio diventano i sempiterni personaggi della commedia all'italiana. Nell'originale francese i cinque protagonisti battagliavano incessantemente su politica, ideologia, stili di vita e affetti con una corrosività mai indulgente.
Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte non lasciavano al pubblico il tempo di godere di un calembour per sorprenderlo subito dopo con un altro. I due registi si assumevano i rischi di un'eccessiva verbosità ma si e ci divertivano con le rutilanti trovate di un copione pregno. Il nome del figlio preferisce trasformare quella mitragliata di battute in pistolettate singole. Il ritmo è dimezzato rispetto all'originale, frammentato dai continui inserti sul passato e dagli allegri siparietti familiari. Il riferimento a Nanni Moretti di cui la Archibugi si tronfiava nelle interviste pre-uscita risulta fuori luogo. La regista romana fa parte coscientemente di quella élite che mette in scena e la sua partecipazione emotiva rende la sua critica troppo indulgente. La ferocia degli attacchi è levigata da questo continuo ricorrere psicologico al passato, dalla sottolineatura della distanza culturale incolpevole che persiste tra i membri della famiglia allargata. A tal proposito risulta piena di luoghi comuni la dozzinale Simona, interpretata da Micaela Ramazzotti che continua ad essere ingabbiata in ruoli del genere.
Nemmeno gli altri attori si salvano da questo annacquamento di sceneggiatura. Essi ripetono gesti e tic ventennali senza riuscire a creare una sintonia che traspaia fuori dallo schermo. Questa sostanziale asincronia recitativa rende i tempi comici della commedia scialbi sia nei confronti dell'originale francese sia nei confronti dei colleghi nostrani più scorretti (di cui a volte rincorre furbescamente gli stilemi come "E allora twittami 'sto cazzo" sparata fin dal trailer). Il nome del figlio diventa allora un'irrisolta sortita tra il cameratismo di certo cinema d'autore, una fotografia sociologica dei nostri tempi e l'irrinunciabile comicità italiana. Punto più controverso di questo difficile sincretismo (almeno per le corde registiche della Archibugi) appare la scena della cantata collettiva dei personaggi sulle note di Telefonami tra vent'anni di Lucio Dalla. È proprio questo il più grande provincialismo del film: pretendere che basti una canzone popolare a riassumere il senso di un'epoca intera.