Riflettendo in questa stessa rubrica sul film francese Cena tra amici, ci si chiedeva come sarebbe stata la versione italiana di Francesca Archibugi, e come avrebbe fatto lei, così aggraziata nella rappresentazione dei sentimenti, a restituirci il rancore che cresce e si manifesta, i freni che si allentano, i colpi bassi tra i personaggi.
Perchè dei suoi film ciò che resta nella memoria sono invece le intese (tra lo psichiatra e la ragazzina ne Il grande cocomero, tra i due diciottenni in Lezione di volo e i due cardiopatici in Questione di cuore, e altre ancora). Le persone si incontrano, vivono un’esperienza coinvolgente insieme, che piano piano diventa emozionante complicità. E’ così per il viaggio fino in India di Apollonio e Marco in Lezioni di volo, per esempio, o per Alberto e Angelo in Questione di cuore, di cui ricordiamo soprattutto una scena: i due, tra loro così diversi, si ritrovano sdraiati nello stesso letto e ridono di un riso esagerato, nel momento più alto dell’affiatamento raggiunto. E il pubblico ride con loro, fino alle lacrime, commosse, davanti a un’amicizia nata casualmente nella corsia d’ospedale, confermata e poi riconfermata per la vita.
Il dubbio di un mese fa sul film Il nome del figlio, però, nasceva da informazioni frettolose sbirciate in rete, quando non si era ancora notato che la sceneggiatura è stata scritta insieme a Francesco Piccolo. Devono essersi divertiti molto Francesca Archibugi e Francesco Piccolo nella stesura di questo film! Forse lui è riuscito a passarle la capacità di permettersi le perfidie, oltre alle tenerezze, come nel suo libro a frammenti, Momenti di trascurabile felicità. Forse conosce bene la rivalità tra persone molto intime, quelle che risalgono all’infanzia, raccontate in Storie di primogeniti e figli unici:
«Quando ero piccolo, e andavo a scuola insieme a mio fratello, mia madre mi diceva di tenerlo per mano, e questo mi sembrava giusto e anche responsabile. Quello che non capivo è perché mi diceva sempre: “mi raccomando, quando passate per quella strada dove non c’è il marciapiede, mettiti sempre tu dal lato della strada, dove passano le automobili”. Io lo facevo, e lo facevo con diligenza, ma ero molto dispiaciuto. Per me significava: “io spero che nessuna auto vi butti sotto, ma se proprio dovesse succedere, preferisco che muoia tu piuttosto che lui”».
Chissà! Anche il pubblico si è divertito, anche chi già conosceva la trama: cinque personaggi in cerca d’identità, d’amore e di conferme che, in un interno borghese, alternativo in maniera ostentata, si rinfacciano in crescendo la vita intera. Paolo (Alessandro Gassman) e Betta (Valeria Golino) sono fratelli, cresciuti all’ombra del padre Emanuele Pontecorvo, famoso parlamentare comunista, ebreo, infelice per il suo smacco coniugale e i ricordi delle persecuzioni naziste. Betta ha sempre fatto un passo indietro nelle sue scelte, ancor più sposando Sandro (Luigi Lo Cascio), ora un vanesio professore universitario, costantemente sul palcoscenico di twitter, che si è affermato proprio grazie allo stesso Emanuele Pontecorvo. Paolo, invece, forse per contrasto, si è costruito una personalità strafottente, qualunquista, superficiale, tanto da aver sposato Simona (Micaela Ramazzotti), una bella moglie da esibire, ma della cui ignoranza un po’ si vergogna. Insieme a loro, Claudio (Rocco Papaleo), ora musicista affermato, amico di tutti, ma confidente di Betta in particolare.
Qui, rispetto a Cena tra amici (non ci interessano le differenze tra il cinema dei francesi e il nostro, tra la loro commedia e la nostra) è molto gradevole la valorizzazione dei frequenti ritorni al passato. Francesca Archibugi è la migliore regista dell’adolescenza, e l’accenno anche breve, ma intenso, al vissuto comune, da bambini e da ragazzi, rende più credibile l’irrinunciabilità dei legami nel presente, e l’intensità degli affetti. Sandro ha gli stessi occhiali, Paolo è il più alto, Claudio il più insulso e Betta cerca faticosamente il suo posto nel gruppo dei maschi, fin da piccola. Così riconoscibili da creare una perfetta continuità tra allora ed ora, oltre alla spiegazione dei ruoli giocati da sempre. Quando, in una pausa delle ostilità durante la cena, cantano e ballano Telefonami tra vent’anni di Lucio Dalla e la scena si alterna con quella di decenni prima, quasi a sovrapporsi, ecco il momento più alto dell’intesa, come negli altri film di Francesca Archibugi. Un godimento di quasi cinque minuti a farci sentire come bastino appena le prime note di una canzone per ritrovarsi.
Subito dopo, un altro flash-back, fuggevole, li vede buttarsi in acqua e, sarà un rimando del tutto soggettivo, ma sembra ricordare la copertina dello splendido romanzo La simmetria dei desideri di Eshkol Nevo. E’ la storia avvincente di quattro ragazzi diversissimi tra loro ma uniti dall’amicizia fino a confondere i loro destini, finché ciascuno realizzerà il sogno dell’altro. Non è il caso di Paolo, Betta, Sandro, Claudio e Simona irrigiditi in personalità nevrotiche, rafforzate dal bisogno di giustificarsi, e ancora, nonostante l’età, dall’impossibilità di trovare un modo più autentico di vivere e di viversi.
Sulle offese, sulle rivendicazioni, sulle cattiverie non insistiamo perché seguono un po’ le stesse del film francese e della piece Le Prénome da cui è tratto. Italianamente, però, e intellettualmente, Sandro arriva a dire a Simona:” Sei l’incarnazione della disfatta del nostro paese” e lei, molto più prosaica, niente di meno che “Twittami sto cazzo!”. Saranno le donne, alla fine, ad esplodere più dei maschi, a dire la verità, dolorosa, ma sincera. Non le piccinerie e le miserie covate dagli uomini, bensì il dramma di non essere riconosciute nel loro valore. Anche Simona, ai margini della scena, darà prova di una profondità negata dagli altri, quasi un personaggio pirandelliano che si ribella al suo autore. Sembrerebbe uno sfogo della stessa Ramazzotti (ma quando la smetteranno di mostrarla sempre nello stesso identico ruolo?).
Beh, sappiamo anche che nell’epilogo tutto si ricompone, che già la stessa sera i due cognati Paolo e Sandro ritrovano il consueto cameratismo quando restano da soli, e che dopo pochi mesi saranno ancora tutti ad abbracciarsi e scherzare come prima.
C’è un bellissimo personaggio nell’ultimo libro di Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti. È la ragazza che durante le elezioni di Berlusconi nel 1994, mentre tutti sono disperati, pronuncia l’espressione “E che sarà mai!”. Echesaramai (scritto così, tutto attaccato) diventa la donna dell’autore-narratore: sarà lei a distoglierlo da una visione a tutti i costi tragica della vita, e chissà che in questa sceneggiatura Piccolo non sia rimasto anche qui piacevolmente condizionato da Echesaramai. E che la storia della commedia francese lo abbia affascinato per questo, offrendogli l’opportunità di regalarci la sua sana dose di disincanto.
Margherita Fratantonio