Non so mai riconoscere a che punto sono del mio lavoro. Premetto che il mio lavoro non è un lavoro vero, nel senso proprio del termine. Per definizione chi esercita la professione di autore, ossia chi crea col proprio ingegno, un’opera letteraria, artistica o scientifica ricava, grazie a questa attività, quanto occorre al proprio sostentamento. Infatti, non rientrando in questa categoria di autori, mi accontento, io che sono omo sanza lettere, di essere iscritto tra quelli che esercitano per passione. Non lo dico per carpire una facile benevolenza, è per dire le cose come stanno. Ciò chiarito nella forma, resta il contenuto. Avendo scritto e pubblicato (non a pagamento) un paio di romanzi, capita a volte che qualcuno chieda come sarà il prossimo. Richiesta legittima, beninteso, ma posto di fronte a questa domanda, confesso, ho sempre un’incertezza per la risposta impegnativa che ne dovrà seguire.
In realtà il lavoro dello scrivere (e qui, sempre per capirci, intendo scrivere di letteratura, lasciamo perdere se buona o cattiva), è un’attività complessa che impegna, oltre al tempo, i muscoli e il cervello. E impegnando il cervello, non soltanto nella fase dell’elaborazione creativa, non puoi pensare di arrivarci per opera di manitù. Per scrivere un testo letterario, un racconto breve o lungo o un romanzo, oltre che richiedere tecnica, (come dire: i fondamentali), c’è bisogno di quella particolare alchimia tra forma e contenuto a cui ci si approssima soltanto a certe condizioni: le tue esperienze di vita che sono anche, e non soltanto, le tue letture; la tua capacità di introspezione e di evocazione, e con esse la tua apertura mentale; la tua vitalità immaginativa; la comprensione delle molle narrative; una certa sensibilità per i registri, i ritmi, le sfumature di significato e di linguaggio.
Ora, tutto questo non ha niente a che vedere con l’atto materiale del prendere una penna in mano o pestare sulla tastiera e fare belle lettere. Quando si scrive un racconto di dieci righe o un romanzo di mille pagine si fanno un mucchio di altre cose diverse che scrivere; apparentemente non c’entrano nulla, in realtà ti accorgi che quella cosa che ti è capitata e che è l’avventura della tua vita la puoi usare, immagazzinarla, manipolarla a tuo piacimento e trasformarla in un’esperienza narrativa.
Operazione complessa, niente da dire. Ma è quando compri un chilo di mele al mercato, quando appendi un quadro o ripari un rubinetto che porti a casa i migliori risultati. Scrivere è esercizio dello sguardo, scoprire nuovi mondi, si è in fondo un po’ guardoni e un po’ pettegoli.
Ecco perché non so mai di preciso a che punto sono. Prendete il romanzo al quale lavoro. Chiusa la quarta stesura e consegnato il romanzo per un’eventuale manutenzione, mi sono chiesto: è una storia? Ma andiamo con ordine. Il romanzo inizia con una certezza o l’illusione (l’abbaglio, l’inganno) di una certezza: un uomo è stato colpito a morte e giace cadavere in piscina mentre contempla la sua propria vita. Poi arriva un dubbio, messo apposta, che rimarrà sospeso per tutto il romanzo, giacché gli istanti del suo trapasso sono la rievocazione inconscia di un incubo, forse la sua vita, ed è qui che il protagonista fa una scoperta apparentemente banale, ma che per uno che sa di dover morire (e che certamente morirà) è sconcertante: la vita è un mattino che si ripete tutti i giorni. Ora, se questa è la premessa, uno dei problemi che prima o poi dovrò affrontare sarà quello del nome da dare al romanzo. E, come i nomi dei principali personaggi, nulla è frutto del caso. Il suono musicale o il ritmo delle sillabe, per quanto mi riguarda, non è quello che può accendere l’immaginazione, né la sua struttura fonetica, composta di vocali e consonanti che giocano fra loro per catturare l’attenzione del lettore.
Direi che l’immaginazione si accenderà quando quelle sillabe o quelle lettere evocheranno una determinata dimensione temporale o spaziale. Il fascino del nome è fatto dunque di conoscenza, richiama a sé la patina del tempo fissando un’immagine nel foglio, come uno scavo stratigrafico. Ma arrivati fin qui, non mi sembra di aver compiuto passi avanti. Mi viene il dubbio di aver scritto l’incipit di una storia intitolata fine.
Featured image, la tomba di Franz Kafka e dei suoi parenti nel Nuovo Cimitero Ebraico di Praga a Žižkov, fonte Wikipedia.