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Il Nostro Quartiere, di Nagib Mahfuz

Creato il 18 giugno 2012 da Postscriptum

 

Il Nostro Quartiere, di Nagib Mahfuz

 

Il mio interesse per il mondo musulmano e la cultura araba in generale è cosa che spesso mi capita di esprimere, talvolta sino al punto di farla apparire quasi come un’ossessione. In realtà, non avendo mai fatto un corso di studi adeguato in tal senso, non posso che ritenermi un cultore della domenica. La cosa è poi estensibile a tutti gli altri campi del sapere (nessuno escluso) che ogni tanto proditoriamente intraprendo nelle mie vergognose trattazioni. D’altronde potreste mai affermare di essere ingegnere dopo una pur approfondita lettura di un manuale sul calcolo sismico degli edifici in cemento armato?
 
Questo preambolo non serve a giustificare la mia ignoranza, è invece stata la considerazione che mi ha spinto a chiedere aiuto, ad un certo punto della lettura de Il Nostro Quartiere di Nagib Mahfuz. Chi è Nagib Mahfuz, un premio nobel per la letteratura, tale e quale ad un certo Pirandello e Dario Fo? Sconosciuti su sconosciuti!

 

Il Nostro Quartiere, di Nagib Mahfuz

 

Sarò onesto con voi, cari lettori, ho preso il libro in questione solo perché il nome del suo autore suonava arabeggiante. Ve l’ho detto, sono un po’ fissato con queste cose. Il meraviglioso incipit è stato poi condizionate per la mia buona predisposizione:

“Mi piace molto giocare nello spiazzo tra il tunnel e il monastero. E, come tutti i bambini, mi diverto a osservare i gelsi nel giardino del monastero.”

È un momento fondamentale per tutta la narrazione, l’incontro del bambino con il derviscio:

“Là, seduto sotto il gelso, c’è un uomo vecchio, alto, il suo viso risplende di una luce sfavillante. Indossa un mantello verde e un turbante bianco, il suo aspetto è di una bellezza indescrivibile e inimmaginabile. Sono totalmente attratto da lui, confuso dal suo splendore, la sua presenza colma l’universo.”

L’incontro è così importante che si impone nella mia mente, per cui comincio a cercarlo in ognuna delle singole pagine che compongono il testo. Purtroppo le domande sull’identità di questo asceta restano inappagate nella risposta, per me come per il protagonista del libro. Il desiderio di rincontrarlo è così forte che ormai si è trasmesso dall’interfaccia cartacea fino alla mia ignobile coscienza. Tuttavia le pagine immediatamente successive all’incontro misterioso si dimostrano vagamente troppo “realistiche”, forse troppo lontane dal mondo da Mille e Una Notte che spesso travia i lavori di classificazione del pensiero occidentale. Il fascino delle mistiche Sure coraniche si disperde tra le descrizioni della vita quotidiana del Quartiere, tutte cose che cominciano a divenirmi così estranee da condurmi a far raffronti con “il mio” particulare. Il meno interessante dei paragoni che la mia stupidità riesce a generare è forse proprio quello che poi si è rivelato importantissimo. Mahfuz racconta della ricorrenza musulmana in onore dei defunti. Accenna a poche cose, al fatto che andassero lì come se si trattasse di una festa, portando palme e basilico, la preparazione di dolci per l’evento. Cose che in fondo, in parte somigliano ad alcune usanze locali (le ossa dei morti mi pare si chiamino certi biscotti del circondario etneo, preparati per l’occasione). Riflettevo su tali cose quando chiusi il libro e andai a fare un bagno a mare. Uscendo dai flutti mi avvidi che un ragazzo dalla carnagione un po’ più scura della mia si asciugava al sole:

«Scusa, sei musulmano?», chiesi con fare intelligente.

Il tizio mi guardò male, e del resto non aveva torto, annuì dubbiosamente.

«Scusami se ti disturbo, vorrei chiederti una cosa, quando festeggiate i morti?».

Mi guardò ancor più male, seppur allargando un sorriso benevolente. Cercai di spiegarmi in qualche modo, di esser più preciso, e afferrai pure il libro per fargli vedere…

«Nagib Mahfuz! Aaaaah!!!», esclamò sollevato «Grande autore. Ma non puoi leggerlo a spiaggia…», mi spiegava il nordafricano.

Certo, non poteva immaginare che io fossi così screanzato da studiare persino i miei manuali di Diritto in spiaggia. Per non parlare di opere ben più alte culturalmente parlando, immaginatevi che vaga idea avrò della Letteratura.

«Questa è filosofia!», s’inoltrava il ragazzo «Io ho letto quel libro, ma in lingua araba. In Italiano non vale, troppo facile.».

“Mi squalificheranno dai lettori onorari sulla sabbia per questa mia ingiurievole mancanza?”, pensai.

In effetti aveva ragione lui, ripensai a molte delle cose che non avevo capito del testo. Chissà che stavo leggendo, e chissà quante cose si erano perse nella traduzione. Mi sentii veramente incivile. Forse il ragazzo si accorse del mio rossore e cercò di tornare al discorso iniziale, spiegandomi che loro festeggiano i morti nel pieno senso del termine. Non solo portando palme e basilico, alla stessa stregua dei nostri fiori novembrini, ma addirittura andando a mangiare al cimitero con tutta la famiglia, lasciando del cibo persino per i defunti. Quando? Alla fine del Ramadan. Poi ci avviamo per altre discussioni più politicamente vicine. La crisi europea e la primavera araba. A proposito della situazione egiziana, il tizio – lontano dal far raffronti – mi parlò della rivoluzione francese e delle differenti dinamiche anglosassoni. Poi riprese a parlare di Nagib Mahfuz e della letteratura egiziana, della filosofia tunisina. Il tipo era molto istruito, senza dubbio. Ci salutammo e ricominciai a leggere il mio libro, sempre in spiaggia, ma con una nuova lena. Le direttive del nuovo amico nordafricano erano state giuste. Bisognava fermarsi di più sulle singole espressioni, pesandole per il giusto, senza la fretta imposta dall’afa estiva ed il desiderio agognante un bagno rinfrescante, fermare l’attimo, l’istante:

“Vorrei con tutto me stesso fermare il tempo e impedire il mistero delle cose, ma come?”

Anche se qui il senso della frase va forse affrontato con il tono malinconico dello sguardo lungo alla vita, densa di ricordi e di persone, attori che compaiono e scompaiono. È tuttavia l’attimo ad imporsi, nella sua singolarità talvolta ironica:

“Sett Naghiya è una donna che vive sola. Per quanto è a mia conoscenza, vive sola da sempre: sola nella sua casa, isolata dal resto del mondo come un frutto caduto dall’albero… … … La sua figura è indimenticabile e inconfondibile: la si distingue tra la gente per l’incedere zoppicante. Sett Naghiya è bassa di statura, con il mento prominente e il naso grande come l’orecchio di un asino. Pur essendo brutta, grazie all’amabilità e all’ironia che sa fare sia su se stessa che sugli altri, non è ripugnante.”

Non è ripugnante è preceduto da una buona dose di pensamento e silenzio riflessivo, c’è poco da fare. Sono questi i fatti: la bruttezza ideale, parallelamente alla bellezza:

“Si diceva che l’uomo avesse visto in sogno una bella ragazza, della quale si era invaghito, e che quella visione sovente ritornasse, al punto che egli ormai cercava la donna del sogno nella realtà di ogni giorno.”

L’argomento onirico è in ogni caso onnipresente in molti degli scritti provenienti dall’area islamica. Non posso riportare interamente un brevissimo racconto di Mahfuz, per ragioni di ordine pratico, il mio scritto è già sin troppo lungo:

“Ogni bambino del nostro quartiere sogna di poter incontrare durante il sonno il “visitatore della notte”. Non esiste alcun dubbio, è un personaggio vero, ma il suo regno fantastico si trova solo nei cuori innocenti. Nelle sere di festa e di Aid i nostri genitori ci dicono: “lavati e va’ a letto, leggi la Fatiha, esprimi un desiderio e mettiti a dormire. Forse avrai la fortuna di incontrare il visitatore della notte, che esaudirà i tuoi desideri…” Vari desideri si sono succeduti durante le diverse fasi della vita, suppliche passate direttamente dal cuore nelle mani del visitatore della notte…”

La realtà dell’immaginato, questa coincidenza del tutto intellettuale, mi ricorda per l’ennesima volta l’amato Borges e le sue disamine fantastiche. Senza dimenticare il “viceversa”, parafrasando l’argentino: Le religioni sono letteratura fantastica. L’impressione si ripresenta successivamente quando si parla per l’appunto di Dio:

“Lui non si è messo in contatto con me, e io non posso certo entrare in comunicazione con Lui: tra noi regna un silenzio mortale; nella vita c’è del male inspiegabile e nella natura esistono mancanze e imperfezioni, che io non capisco; ho ormai raggiunto la certezza che Lui, sempre sia lodato!, abbia deciso di abbandonarci a noi stessi, senza alcuna possibilità di contatto con Lui né la sua protezione”.

Siamo a pochi passi dal casuale sogno divino di Borges, la vita come sogno da nessuno sognato, eppure realmente esistente nella sua consistenza umanamente percepibile. Non c’è un sognatore? Forse è così, forse è il Derviscio di inizio lettura che potrebbe aiutarci. Ritorna finalmente, come ricordo a chiusura di questo magico libro, filosofico. Il cerchio si chiude ed il racconto si conclude nell’inafferrabilità dell’Essere. Solo la casuale non curanza tal volta ci rende vicini ad esso, forse, forse, probabilmente. Il dubbio è lanterna.

Gaetano Celestre


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