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Secondo la tesi di Augusto Mulas, autore di «Isola sacra», le torri di Torralba replicherebbero la costellazione delle Pleiadi.
di Sabrina Zedda (fonte: La Nuova Sardegna 18.03.2012)
È possibile che, già 3.500 anni fa, i nuragici avessero un grado di civiltà così avanzato da conoscere i fenomeni celesti? Augusto Mulas, agrotecnico di Ozieri con la passione per l'archeologia, non ha dubbi: sì. Lo dimostra, dice, il complesso nuragico di Torralba, in cui i nuraghi ricalcano perfettamente la disposizione della costellazione delle Pleiadi. La sua tesi, di quelle destinate a far discutere, Mulas la illustra con abbondanza di esempi nel suo «L'isola sacra. Ipotesi sull'utilizzo cultuale dei nuraghi» (edizioni Codanghes, pp. 254, 20 euro) in cui per la prima volta l'ipotesi che i nuraghi potessero, fin dall'origine, essere concepiti come luoghi di culto arriva da un archeologo: lo stesso Mulas, appunto, che alle spalle ha studi classici con indirizzo archeologico e la partecipazione a numerose campagne di scavo. Il libro è stato al centro venerdì di un incontro al Caffè Savoia, allestito da Agorà Nuragica. «Già ai primi del'900 - ricorda Augusto Mulas - archeologi come Taramelli parlavano dei nuraghi come di fortificazioni». Davanti alla loro possenza - prosegue - è comprensibile che anche gli archeologi arrivati dopo, tra cui Giovanni Lilliu, propendessero per quest'ipotesi. «Tuttavia - dice lo studioso - sono venuti alla luce nuovi materiali e fonti che avrebbero dovuto portare a conclusioni diverse». E in effetti, non molto tempo fa si è iniziato a sostenere che le torri di pietra avessero assolto anche a funzione di culto, ma solo dal decimo al nono secolo Avanti Cristo. Quasi un compromesso tra chi ha sempre parlato di quest'ultima funzione come esclusiva e chi invece insistive sul ruolo di fortezze. «Eppure l'uso cultuale dei nuraghi è ben antecedente il IX e il X secolo» è la prima scoperta di Mulas. Lo dimostrerebbero, ad esempio, i materiali antecedenti quel periodo rinvenuti negli scavi di fondazione del nuraghe Arrubiu di Orroli, come un vaso «a uso cultuale o al massimo funerario». Lo stesso dato emerge anche esaminando altri vasi rinvenuti nel Palmavera e nel Speranza di Alghero, o in Su Sonadori di Villasor: in ciascuno di essi sono stati ritrovati resti di cibo, di mitili, ossa di animali, spesso anche spade dal carattere indubbiamente votivo. Se a ciò si aggiungono scoperte simili fatte anche in diversi pozzi sacri, come quello di Santa Cristina, ce n'è abbastanza perché la casualità venga a crollare. E se questo non dovesse bastare, a far capire che i nuragici avevano precisi punti di riferimento sono pure alcuni comprensori territoriali: in particolare la piana di San Saturno, a Benetutti, e la valle dei nuraghi di Torralba. «Il dato più importante - dice Mulas - è che il nuraghe di Santu Antine, il più bello del sistema, corrisponde ad Alcione, la stella più bella dell'ammasso delle Pleiadi. Fu costruito in una pianura alluvionale: perché faticare tanto a spostare tutta quella terra se non per rispettare la posizione astrale?». Ma perché proprio le Pleiadi? E poi perché quell'antico popolo, che sembra essere stato così in armonia con l'universo, realizzò quel complesso?
Possiamo ancora parlare dei nuraghi come roccaforti erette dalle bellicose popolazioni della Sardegna preistorica? Oppure è giunto il momento di dare un´interpretazione diversa dell´utilizzo cui erano destinate queste costruzioni megalitiche?
L´enorme quantità di informazioni e di dati scaturiti negli ultimi decenni da ricerche archeologiche sempre più puntuali, condotte per la gran parte da addetti ai lavori, ma anche da validi ricercatori indipendenti, hanno provocato un laceramento nel paradigma che definisce il nuraghe come una ´fortezza´.
La sempre più frequente restituzione di contesti cultuali dall´interno e dall´esterno della struttura nuraghe ha indotto l´Autore verso l´analisi sistematica di tali risultati, inducendolo alla conclusione che il motivo fondante che spinse l´uomo nuragico a progettare e innalzare migliaia di strutture in tutta l´isola vada ricercato nell´ambito del sacro. Ne scaturisce un´ipotesi di utilizzo più orientata verso la sfera religiosa, cultuale e rituale anziché militare.
Inoltre, è riportata la recente rivelazione che presuppone la disposizione territoriale del ´Santu Antine´ di Torralba e dei nuraghi a esso limitrofi, distribuiti rispettando la posizione delle sette stelle principali dell´ammasso delle Pleiadi.
La civiltà nuragica svolse un ruolo di primissimo piano all´interno del Mediterraneo occidentale protostorico, intessendo rapporti culturali, commerciali e di scambio di conoscenze con le più progredite civiltà a essa contemporanee, raggiungendo punte di eccellenza in diversi settori quali: l´architettura, l´ingegneria idraulica, la carpenteria e l´artigianato tessile, ceramico e metallurgico. Recenti e importanti studi archeoastronomici dimostrano come i nuragici fossero profondi conoscitori dei fenomeni celesti, testimoniato dall´orientamento delle loro costruzioni secondo i più importanti punti solstiziali ed equinoziali.
Da questa ricerca emerge la visione dei nuraghi come strutture complesse, perni della vita civile e sociale di un popolo che seppe costruire, tremilacinquecento anni orsono, una singolare civiltà. Le torri di pietra, simbolo incontrastato di questa straordinaria cultura, sono interpretate dall´Autore basandosi sui risultati degli scavi condotti, come costruzioni appartenenti alla sfera della devozione: sentinelle inamovibili fra cielo e terra, ordinatori del tempo e dello spazio. Dalla densità e la dislocazione nel territorio di queste strutture ne deriva l´immagine di un´isola, segnata dal contatto simbolico tra gli elementi terreni e quelli del firmamento. Attraverso i nuraghi e i pozzi sacri, il popolo nuragico entrava in sintonia con i princìpi divini del sole, della luna e dell´acqua offrendo le ricchezze della terra e gli oggetti preziosi del quotidiano.
E forse ne sono testimonianza i versi delle ´Teogonia´ di Esiodo: «...e poi generò Telegono per l´aurea Afrodite; quelli molto lontano, in mezzo ad isole sacre, regnavano su tutti gli illustri Tirreni».
L’architetto Franco Laner, in merito all’ipotesi di Mulas, in un articolo sul blog di Gianfranco Pintore, afferma:
L’aggettivo “sacro”, molto impegnativo, che l’Autore affianca all’Isola e che ne stabilisce perentoriamente un carattere, è il cambio di paradigma di una visione dell’archeologia isolana, sdoganata dal militarismo,
dal nuraghe/fortezza di taramelliliana derivazione, che aveva subìto il primo tremendo smantellamento dal prof. Massimo Pittau nel suo Sardegna nuragica del 1977. Certo, ci sono ancora sacche di resistenza e a queste sembra rivolgersi Mulas nei capitoli in cui porta altre evidenze alle tante accumulatesi nell’ultimo trentennio contro la fuorviante ipotesi sulla funzione militarista. So bene che l’aggettivo militarista è riduttivo, ma non è qui il caso di riprendere morbidi aggiustamenti e distinguo, perché tutti sanno a cosa mi riferisco.
Sono convinto che ora tutti gli sforzi debbano concentrarsi sulla definizione di sacro, che può essere declinato in tanti modi. Ogni società è permeata di sacro, ovvero di profano, il contrario, che lo complementa, anche se il confine fra il sacro e il profano non è una linea demarcatrice, quanto un territorio lattiginoso e indefinibile.
All’uscita del Neolitico, in Sardegna come altrove, ha inizio quella straordinaria e proficua stagione in cui l’uomo impara a interrogarsi e dare spiegazione. Ha inizio quella rivoluzione che per certi versi ancor oggi perdura: la stagione della scienza, che ha nell’osservazione, nella speculazione, il suo punto di partenza. La scienza stessa appartiene al sacro, ha i suoi sacerdoti, al sacro appartengono il magico, i riti, la divinazione, la medicina, l’escatologia e il culto dei morti, il rapporto con la natura e financo i rapporti sociali. Un’accezione di sacro, quella che mi pare preferisca Mulas, riguarda il culto, le pratiche religiose che abbisognano di luoghi deputati, identificabili e appositamente costruiti, in cui si svolgono riti, si prendono decisioni, ci si riunisce in assemblea, si offre alla divinità. Dove, in una parola, si officia e si rende palpabile il rapporto col divino grazie alla mediazione sacerdotale.
Lo scenario che il lavoro di Mulas inevitabilmente aprirà sarà la discussione sul sacro, sul suo modo di inverarsi e manifestarsi nella società nuragica, ricerca di cui esistono ovviamente precedenti e ricerche in atto. Nessun archeologo ha mai dimenticato tombe, pozzi, templi, né ha trascurato di ricostruire la religione dei nuragici, ma ora si tratta di definire e perimetrare la categoria del sacro e precisare cosa significhi che il nuraghe fosse un tempio.
Altrove ho sostenuto che il concetto di sacralità assegnabile al nuraghe debba essere inteso in una accezione assai più ampia di quella di spazio religioso, di svolgimento di riti, celebrazione e adorazione. Piuttosto la nozione di sacro si incardina sulle categorie dello spazio e del tempo e tende a identificare qualitativamente parti dello spazio e del tempo. Il nuraghe è lo strumento di cosmizzazione di due fondamentali categorie, spazio e tempo. È l’elemento ordinatore, misuratore, riferimento. È il luogo deputato al sacro, confine, recinto che separa il sacro dal profano. Nel nuraghe il tempo viene misurato e col nuraghe il territorio viene definitivamente ordinato.
Ecco perché il capitolo col quale l’Autore conclude la sua ricognizione sulla prevalenza del sacro nella civiltà nuragica assume per me valore epocale. Nella ricerca di affrancamento dal caos, di teofania e ordine, c’è bisogno di un riferimento preciso, iterato – la concezione del tempo per il nuragico è, ricordiamolo, inequivocabilmente ciclica – e solo l’osservazione astronomica pare soddisfare appieno questa umana aspirazione. Se si riesce a fare in terra ciò che è in cielo, se si riesce a ricreare, ripetere l’ordine magistrale, in quel preciso momento ci si svincola dal caos, da ogni timore ancestrale. Si è rassicurati. Ricreare ha valore di potenza divina.
La dislocazione dei nuraghi nell’agro di Torralba – mirabilissima osservazione di Mulas – è uguale alla dislocazione delle Sette Sorelle dell’ammasso delle Pleiadi. Incredibile dictu!
L’appunto che non posso però esimermi di fare ad Augusto è che egli presenti il fatto in modo schivo. Ma come può ritrovare in terra la posizione delle Pleiadi con precisione geometrica e non gridarlo? Impossibile statisticamente la coincidenza! Già precedenti osservazioni archeo-astronomiche – esemplari quelle di Mauro Zedda – avevano rivelato quale macchina astronomica fosse il più bel nuraghe della Sardegna. Ma ora sappiamo che esso è al centro di un disegno sublime: il gruppo di nuraghi sono lo specchio delle Pleiadi e il S. Antine coincide con Alcione, la stella più luminosa dell’ammasso.
L’indagine in corso di svolgimento da parte di Marcello Onnis e Pierluigi Montalbano, basata sul “sistema Onnis”, offre un punto di vista differente che può essere di supporto a chi volesse approfondire questi temi.
Posto che Montalbano e Onnis ritengono che l’agricoltura, la pastorizia (e il conseguente pragmatismo dei nuragici) fossero alla base delle comunità dell’epoca, c’è da capire se i nuragici occuparono e sfruttarono il territorio con le stesse modalità dei prenuragici (fin dal Neolitico) oppure persero la memoria delle usanze precedenti (eventualità molto remota secondo i due studiosi).
Vediamo qualche passo relativo al “sistema Onnis”.
Per capire quali criteri determinarono la scelta del luogo dove edificare un nuraghe ci si deve basare sull’osservazione e sull’analisi di dati noti ricadenti in aree circoscritte come le vallate e alcune giare, con l’intento di individuare correlazioni comuni e ripetibili in analoghi habitat distribuiti in ambito regionale.
Conseguentemente, il perno dell’indagine è lo studio geografico dei luoghi.
In questa indagine sono stati considerati i parametri fondamentali del territorio come l’orografia, la qualità del fondo e l’idrografia, in quanto elementi naturali di questo habitat, che condizionarono i primi agricoltori per l’antropizzazione di quelle terre. I residenti realizzarono campi coltivabili, capanne, reti stradali, e le infrastrutture necessarie per permettere lo sviluppo sociale delle comunità.
Si ritiene che, originariamente, la scelta dei luoghi strategici su cui successivamente saranno edificati i nuraghi, sia frutto di decisioni dalle popolazioni del Neolitico Recente (3.300 a.C. circa) che iniziarono l’addomesticamento dei primi cereali ed edificarono capanne e/o villaggi intorno alle aree agricole.
Solo il 18% della superficie della Sardegna possiede i requisiti “ideali” per la coltivazione dei cereali, perciò, fin dalle prime attività agricole, emerse la necessità di occupare e antropizzare permanentemente le poche aree disponibili. Le aree d’edificazione dei nuraghi in Sardegna non sono omogenee, tuttavia prevalentemente ricadono nelle vallate dotate di risorse idriche che consentono lo sfruttamento di terreni pianeggianti adiacenti, proprio perché queste terre sono le più fertili.
Poiché una vallata può essere accessibile da più parti, per poter difendere il territorio occorreva predisporre una serie di posti di guardia per evitare possibili intromissioni di greggi e/o saccheggi attraverso le vie di penetrazione. Conseguentemente a tale necessità, si verificò la nascita delle prime aggregazioni sociali, i cosiddetti Clan, obbligando più famiglie a partecipare unite al bene comune.
Le vallate, per la loro conformazione, possiedono diversi pregi. Grazie alla loro concavità, durante il periodo delle piogge, raccolgono l’acqua e la incanalano in diversi rivoli rendendo il fondo della valle particolarmente fertile per più mesi all’anno. Inoltre, l’azione impetuosa del vento, fortemente deleteria per l’agricoltura, è limitata nell’area interna della vallata, grazie ai bordi rialzati dell’anello perimetrale.
Nonostante siano trascorsi oltre 5000 anni, che dal punto di vista geologico corrispondono ad un battito di ciglia, i luoghi non hanno subito grosse variazioni geomorfologiche e il fatto che a tutt’oggi, la maggior parte degli ovili e delle aziende agricole sussistono prevalentemente su emergenze archeologiche nuragiche e/o resti di capanne e recinti a loro coevi, dimostra che i parametri agro-pastorali considerati a suo tempo, sono ritenuti validi ancora oggi. La contemporanea presenza e partecipazione nelle vallate, e in alcune giare, di diverse emergenze archeologiche, come circoli megalitici, capanne, protonuraghi, nuraghi, pozzi sacri, necropoli con domus de janas e tombe dei giganti…, seppure costruite in tempi diversi e da comunità differenti, disegnano una linea temporale la cui origine culturale e religiosa è certamente neolitica, e la cui continuità è frutto di sovrapposizioni di genti che vissero nello stesso luogo, con le stesse difficoltà ed esigenze, esternate con manifestazioni artistiche e culturali diverse.
Tale prassi fu rispettata certamente anche dai nuragici, come oggi dai nostri pastori con gli stazzi.
Nelle tre immagini...ecco cosa salta fuori dall’indagine del territorio del Santu Antine.(cliccare per ingrandire)
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