Tutto cominciò un venerdì sera, quando Carlo mi chiese di poter usare il mio cellulare perché il suo era scarico. Eravamo in attesa davanti al “Commodore Sixty-Four”, un locale di Testaccio che organizza spettacoli di vario genere, dal teatro indipendente al cabaret. Quella del telefono scarico era una balla che andava avanti da anni e Carlo era famoso per le sue tasche cucite. Gli passai il cellulare e compose il numero di Alessandra, una tizia che stava frequentando in quel periodo e che si era ripromesso di presentarmi perché, diceva, gli aveva fatto perdere la testa. Dopo un minuto di squilli a vuoto, riattaccò, fece spallucce e ci decidemmo a entrare.
Lo spettacolo fu esilarante e uscimmo dal locale con gli addominali indolenziti dalle risate. Il cabarettista ne raccontò parecchie e ricordo quella del tizio che fa ad un amico: “Hanno rapito mia suocera!”, “Accidenti!” - fa l'amico – “E cosa è successo? Hanno chiesto dei soldi?”, “Si” - dice lui – “500 mila euro!”, “E allora?”, “Glieli ho dati, ma sono preoccupato...”, “Perché?”, “Ne vogliono ancora!”, “Altrimenti?”, “Altrimenti me la riportano...”.
Una volta usciti, andammo in un altro locale, da “Aigor” - lo chiamavamo così perché il titolare assomigliava a Marty Feldman senza la gobba - per una birra ma sapevamo che il primo boccale avrebbe fatto solo da apripista per gli altri due che seguirono. Quando ci salutammo le automobili passavano ormai di rado e, sotto una luna che a volte erano due, tornammo ognuno a casa propria.
Il giorno successivo, più o meno alle undici del mattino, il mio cellulare cominciò a trillare. Un numero sconosciuto. Risposi incuriosito e una voce femminile mi chiese:
«Chi sei?»
«Chi sei tu!», rispondo di riflesso.
«Ho trovato il tuo numero sul mio cellulare».
«Scusami ma ci deve essere stato un errore».
«La telefonata è di ieri sera verso le dieci».
«Ma ieri sera non ho usato il…», mi interruppi «ma tu sei Alessandra?»
«Sì, ci conosciamo?» rispose con un tono a metà strada tra il come hai fatto e il chi cazzo sei.
«Mi chiamo Stefano e sono un amico di Carlo. Ieri sera ero con lui e Carlo ti ha chiamato dal mio cellulare, per questo ti è apparso il mio numero».
«Ah, ecco. Il fatto è che volevo restituirgli un pacchetto che ha dimenticato da me ma il telefono è sempre staccato».
«Sarà scarico» ipotizzo sarcastico.
«Boh, sì, forse. Ascolta, dato che sto partendo e ritornerò a Roma fra qualche giorno, potrei dare a te il pacchetto e chiederti di consegnarglielo?»
«Nessun problema».
Alle due e mezza ci incontrammo davanti alla Stazione Termini, lato Via Giolitti. La riconobbi subito, anche se di spalle, perché mi aveva avvertito che avrebbe portato con sé un trolley color giallo “titty”. Conoscendo gli standard femminili di Carlo, ero sicuro sarebbe stata l’ennesima secchiona occhialuta con i brufoli e la lingua lunga ma, quando si voltò, fu il tracollo. Il taglio orientale degli occhi, quei capelli nero d’avorio, le labbra suadenti e un paio di tette da far invidia solamente a Salma Hayek mi avevano stordito come un tonto tanto attento all’attendente tinto. Era poco più bassa di me, indossava un paio di pantaloni neri e un cappottino bordeaux elasticizzato che le accarezzava i fianchi, disegnandone i contorni.
«Sei Stefano, per caso?» esordì, notando il mio sguardo insistente.
«Ehm, sì». E dopo un attimo di silenzio, durante il quale i miei occhi avevano assunto la forma di due cuoricini manga, aggiunsi «Sì, sì scusami, ero soprappensiero, sì sono… sono Stefano».
Mi squadrò scettica.
«E questo deve essere il pacchetto» aggiunsi.
«Esatto, però non so cosa potrebbe…»
Le tolsi il pacco dalle mani, feci il gesto di scuoterlo e lo accostai all’orecchio.
«Di certo non è una bomba» dissi forzando la risata e pentendomene immediatamente.
Non rispose ma mi guardò ancora più interrogativa di prima.
«Ehm… Ti va di bere qualcosa?» Aggiunsi, con la speranza di riparare.
Guardò l’orologio e, dato che mancava ancora un’ora alla partenza del treno, accettò l’invito.
Le presi il trolley e ci dirigemmo verso l’Atari 2600, un locale senza pretese e poco distante dalla stazione. Ci sedemmo in fondo alla saletta, dove il rumore frastornante della strada era assopito e il cameriere ci raggiunse immediatamente.
«Cosa prendete?» chiese.
«Un White Russian, per favore» disse lei.
«Per me un whisky, grazie»
Memorizzò le ordinazioni e se ne andò.
«Hai visto il Grande Lebowski, eh?» le chiesi.
«Sì! Anche tu sei un fan di Drugo?»
«Qual è la tua scena preferita?
«Fammi pensare… John Goodman che, dopo il suo bizzarro discorso di commiato, svuota il barattolo delle ceneri di Donny sulla faccia di Drugo!»
Ridemmo di gusto.
«Ma lo sai che ogni anno negli USA c’è il Lebowski Fest?» Mi disse.
«Ma va?»
Arrivarono i due bicchieri.
«Ti piace il genere comico-grottesco oppure Lebowski è solo un caso?» le chiesi.
«Me lo consigliò una mia collega»
«E di che vi occupate tu e la tua collega?»
«Siamo due giornaliste e questa sera abbiamo un’intervista con Samuel Sanchez a Salerno, non so se lo conosci».
«Ma chi, Sanchez il celebre violinista cileno?»
«Non mi dire», fece lei sgranando gli occhi.
«Ho tutte le sue opere in assolo! Quasi t’invidio».
«Pensa che quando l'ho detto a Carlo mi ha chiesto in quale squadra giocasse!»
«Non mi stupisce».
Il suo telefono cominciò a vibrare.
«Pronto Maria, eccomi», disse Alessandra mentre io continuavo a centellinare il mio whisky.
«Ma sei sicura?» aggiunse.
Misi il bicchiere in controluce e notai che era sporco di rossetto su un lato.
«E adesso che facciamo?» continuò.
Il mio sguardo inciampò sul suo decolleté e, dopo avermi notato, si sistemò con disinvoltura l’abito, riportando la sua femminilità nelle rispettive culle. Chiuse il telefono.
«L’intervista è stata annullata» mi disse.
«C-come?» risposi un po’ imbarazzato.
«Accidenti, questa non ci voleva, quell’intervista valeva oro», disse lasciando scivolare lentamente la testa tra le mani mentre il profumo della nivea inebriava l’aria di una delicata essenza.
«Mi dispiace».
«Ti dispiace? Ma se neanche mi conosci!» rispose stizzita.
Un freddo gelido era calato inaspettatamente sul nostro tavolo e mi aveva sorpreso in mutande e canottiera da spiaggia.
«Scusami, non volevo essere scortese», si riprese.
«Non ti preoccupare».
«Il fatto è che quest’intervista era un’esclusiva e valeva parecchi soldi».
«Ormai è andata, dai non ci pensare».
«Credo tu abbia ragione. Ormai è andata. Beviamoci su».
“Beviamoci su” una volta. “Beviamoci su” due volte. Al terzo “beviamoci su” eravamo cotti e ci ritrovammo a parlare delle nostre vecchie storie di pseudo amore: tra fidanzati imbranati o palestrati e fidanzate, diciamo così, troppo estroverse per una regolare vita di coppia. Le raccontai anche di quella volta che, durante un viaggio di lavoro in Marocco, approfittai vilmente della lontananza per mollare la mia ragazza - rimasta a Roma - scrivendole un biglietto che aveva più il tono di una rescissione contrattuale che un saluto in stile maghrebino. Quando imbustai la lettera però pasticciai con gli indirizzi e la “comunicazione” finì nella cassetta postale della mia spasimante (d’allora). Me ne accorsi al ritorno in Italia quando la “rescissa” mi venne a prendere all’aeroporto agghindata come l’entreneuse di un bordello turco (aveva letto la lettera della spasimante) e, poche ore dopo, la sua antagonista mi telefonò furiosa minacciandomi di evirarmi.
Il tempo correva veloce e i miei pensieri disegnavano figure astratte nel cielo al tramonto come gli storni che s’intravedevano dalla finestra del pub.
Verso mezzanotte, quando il tasso alcolico nel nostro sangue aveva raggiunto ormai livelli da record, decidemmo di tornarcene a casa. Chiamai un taxi e ci vollero, non esagero, una decina di minuti prima di riuscire a ricordare i nostri rispettivi indirizzi. Per praticità e per quel poco di galanteria che ancora mi rimaneva, decisi di accompagnare prima lei. Arrivammo sotto casa sua, in Via Tagliamento, e ci salutammo.
La domenica mattina, con la testa che mi girava come l’elica di un elicottero e la bocca impastata di cemento, il mondo non mi sembrava più lo stesso. Mi alzai a fatica dal letto. Avevo ancora davanti agli occhi i suoi occhi, nel naso il suo profumo e nelle mutande il mio desiderio. Alzai la serranda e aprii la finestra ma capii che il sogno era finito quando tutto tornò d’incanto al proprio posto: la strada era dove è sempre stata, le macchine correvano come se nulla fosse, il Piper Club non si era mosso di un millimetro, le persone si ignoravano come hanno sempre… Che cazzo c’entra il Piper? Mi voltai di scatto e la trovai lì, dove doveva essere, nel suo letto. Occazzo! Ero io che non ero nel mio.
Occhi spiritati, respiro affannato (occazzo!), accelerazione dei battiti ai limiti consentiti (occazzo!), sono i sintomi che ogni maschio adulto manifesta prima della classica rovinosa fuga. Trovai i miei vestiti sparsi per la stanza. Mi ricomposi a una velocità incredibile, silenzioso come un puma, mi infilai i pantaloni senza indossare i calzini (che fine avranno fatto?), allacciai i primi bottoni della camicia macchiata di rossetto e presi le scarpe, con l'intento di infilarle fuori sul pianerottolo. In punta di piedi mi avvicinai alla porta evitando per un pelo il secchio con il ghiaccio. Poi un click. Mi bloccai impietrito. Era il click dell’accendino.
Mi voltai lentamente e la vidi appoggiata allo schienale del letto. I capelli un po’ in disordine non toglievano nulla alla sua bellezza. Il lenzuolo le copriva il petto, lo sguardo era fisso su di me e la punta della sua sigaretta aveva la forma e il colore di un lapillo infernale.
«Buongiorno. Vigliacco».
Nel pomeriggio mi chiamò Carlo dal cellulare (di un suo amico, ovviamente). Ci incontrammo da "Aigor" perché aveva urgente bisogno di parlarmi. Arrivò con mezz’ora di anticipo, era euforico e biascicava velocemente parole incomprensibili, quasi gli fosse andato di traverso un boccone condito di salsa wasabi. Ordinammo due analcolici. I miei occhi non riuscirono mai a incontrare i suoi, combattuto tra il pentimento e i flash che inesorabilmente riaffioravano nella mia mente con una sola sensualissima protagonista. Ma nell’ascoltare passivo il suo monologo, una parola catturò la mia attenzione.
«Scusa puoi ripetere l’ultima frase?» gli dissi.
«…che domani ho appuntamento con Alessandra?»
«no, prima»
«…che ieri le ho lasciato un pacchetto in valigia per farle una sorpresa?»
«Sì, quella!»
«Perché?» mi chiese.
«Forse stai parlando di questo»
«E tu come…»
«Ieri Alessandra ha provato a chiamarti ma il tuo telefono era spento. Poi ha chiamato me perché si è trovata il mio numero in coda e mi ha chiesto di consegnartelo; credeva te lo fossi dimenticato. Ci siamo… visti… ed eccolo qui».
«Porca miseria!»
«Credo non abbia capito che fosse per lei».
Arrivò la cameriera e lasciò lo scontrino piegato sul mio lato del tavolino. Pagai.
«Ma non le hai lasciato un biglietto?» gli chiesi.
«Me ne sono dimenticato».
«E che c'era nel pacchetto?».
«La mia proposta di matrimonio».