Il fotografo inglese John Bradley, in viaggio in Thailandia per lavoro uccide una persona e per sottrarsi alla cattura da parte della polizia si rifugia nelle foreste tailandesi, dove però viene fatto prigioniero dai nativi. Qui l’uomo è costretto a cimentarsi con una realtà completamente diversa da quella in cui è vissuto fino ad allora. Sarà grazie all’aiuto di una donna della tribù che parla un pò della sua lingua e grazie sopratutto all’amore della bella Maraya che John riuscirà a farsi valere nella tribù fino a diventarne un guerriero.
John prigioniero
Ma le lotte fratricide fra i popoli indigeni lo priveranno della moglie, così John deciderà di restare nella tribù per difenderla dagli attacchi dei tanti nemici. Su una sceneggiatura ridotta all’osso e saccheggiando in larga parte la trama di Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein uscito nel 1970, Umberto Lenzi imbastisce questo film avventuroso dal titolo Il paese del sesso selvaggio, meglio distribuito all’estero con il sobrio titolo di The man of deep river. Un film che in origine doveva essere una semplice avventura tra gli indigeni della Thailandia e che invece si trasformò suo malgrado nel capostipite di un genere con poche luci e tantissime ombre, quello dei Cannibal movie. L’elemento cannibale a dire il vero è estremamente limitato alla sequenza in cui alcuni indigeni cannibali fanno scempio del corpo di Maraya, ma tanto bastò a fare di Il paese del sesso selvaggio
La splendida Me Me Lai
Tra Maraya e John scoppia l’amore
la base di partenza di un genere fatto nella stragrande maggioranza da epigoni colmi di scene splatter, di uccisioni di animali riprese dal vivo con spruzzate più o meno corpose di erotismo. Lenzi utilizza alcune sequenze barbare per dare drammaticità al film, creando purtroppo le basi per quella che sarà la caratteristica specifica di molti Cannibal movie ovvero l’uccisione mostrata dal vivo di animali; se nel film in questione le scene sono molto limitate (l’uccisione di una capra, i combattimenti tra manguste e cobra) nei film successivi purtroppo si trasformeranno in disgustose sequenze di massacri di povere bestie documentate in primo piano con la scusa di mostrare le usanze dei popoli indigeni. A parte questo, il film di Lenzi ha dalla sua il fascino di essere stato girato in una natura bellissima, che esalta anche il discorso leggibile che fa tra le righe il regista, ovvero esaltare la maniera primitiva ma semplice di vivere della tribù in cui si imbatte John, che avrà modo di apprezzare le qualità specifiche di una vita vissuta tra mille pericoli (la natura selvaggia e ostile, le difficoltà di procurarsi cibo, i combattimenti con le tribù nemiche) ma degna di essere vissuta perchè a contatto con gli elementi essenziali dell’esistenza umana. Lenzi in qualche scena sembra esaltare questo modo di vivere rude e primitivo, legato a leggi ancestrali ma strettamente connaturate all’ambiente in cui vive la tribù dalla quale è ospitato; se c’è un evidente ricalcare le vicende di John Morgan,
protagonista di Un uomo chiamato cavallo, il quale farà un’analoga esperienza di vita presso i Sioux, guadagnandosi alla fine il rispetto dei nativi americani, è vero anche che il regista si stacca almeno come logistica dal film di Silverstein. Quì siamo tra nativi che vivono nella giungla e il nemico non è soltanto rappresentato dai temibili guerrieri delle tribù vicine, ma anche da una natura profondamente ostile, oltre che dalla presenza dell’onnipotente e onnipresente uomo bianco, poco incline a rispettare la diversità e sopratutto bramoso di conquistare territori vergini alla ricerca ossessiva di ricchezze. Se questa parte di discorso è poco sviluppata lo si deve al fatto che Lenzi
Maraya corre felice nella giungla
appare intento a mostrare i tentativi di John di integrazione negli usi della tribù, dopo che quest’ultimo ha realizzato l’impossibilità dei suoi sogni di fuga. Qui si sviluppa la storia d’amore tra la bella Maraya e l’uomo bianco, l’incontro tra due culture diversissime unite fra loro soltanto da un istinto primario, forse il più importante ovvero l’amore, quell’istinto che abbatte tabù e differenze di pelle e di cultura stessa. Il film è gradevole e si lascia vedere volentieri; la sceneggiatura di Barilli, futuro regista di una delle perle del cinema targato anni settanta, il triller/noir parapsicologico Il profumo della signora in nero, è ben strutturata e fila senza intoppi. Il paese del sesso selvaggio quindi fissa i paletti per il successivo sviluppo
Le dure prove per diventare un guerriero
di un genere che avrà qualche buon epigono e tanti film davvero brutti; tra gli esempi migliori del genere cannibal movie si possono citare Mangiati vivi e Cannibal ferox, diretti entrambi proprio da Lenzi che vedranno l’elemento slasher prevalere su tutto mentre altri registi come Ruggero Deodato esalteranno ancora più l’elemento gore del genere attraverso film diventati cult come Ultimo mondo cannibale, Cannibal Holocaust e Inferno in diretta. Lenzi si ritroverà quindi, suo malgrado, a diventare il padre di un genere; ma i film successivi si discosteranno da questo “capostipite”, che manterrà nel corso degli anni successivi un candore e una semplicità esemplari. Per quanto riguarda il cast, il personaggio principale, quello del fotografo John è affidato a Ivan Rassimov, che per una volta abbandona i panni del cattivissimo e si trasforma nel paladino della tribù che lo accoglierà. Accanto a lui, bravo e misurato c’è la bellissima Me Me Lai che si farà notare proprio grazie alla sua interpretazione di Maraya;
Il pasto cannibale
bellezza fresca ed esotica Me Me Lay finirà poi nei cast di Ultimo mondo cannibale intepretando Pulan e in seguito concluderà la sua personale trilogia “cannibalesca” con Mangiati vivi, nel quale incontrerà nuovamente Rassimov questa volta nei panni del cattivissimo e crudele Jonas Melvyn. Una curiosità sul film riguarda il soggetto originale da cui è tratto; a scriverlo è Emmanuelle Arsan, l’autrice della serie di celebri romanzi a sfondo erotico Emmanuelle, divenuta poi anche lei regista dalle scarse qualità. Per quanto riguarda il titolo, che strizza l’occhio a chissà quali peccaminose avventure erotiche in realtà doveva intitolarsi L’uomo del fiume profondo come del resto evidenziato dal titolo imposto alla versione internazionale, The Man from the Deep River. Un film di buon livello questo di Lenzi, che anche oggi si può guardare con piacere.
Il paese del sesso selvaggio
Un film di Umberto Lenzi. Con Ivan Rassimov, Me Me Lay, Prasitsak Singhara, Sulallewan Suxantat Avventura, durata 93 min. – Italia 1972.
Il primo difficile dialogo
John Bradley… Ivan Rassimov
Maraya… Me Me Lai
Prasitsak Singhara … Taima
Sulallewan Suxantat … Karen
Ong Ard … Lahuna
Prapas Chindang … Chuan
Pipop Pupinyo … Mihuan
Tuan Tevan … Tuan
Chit … Cannibal
Choi … Cannibal
Song Suanhud … Witch Doctor
Pairach Thaipradit … Thai
Regia Umberto Lenzi
Soggetto Emmanuelle Arsan
Sceneggiatura Francesco Barilli, Massimo D’Avack
Produttore Ovidio G. Assonitis
Fotografia Riccardo Pallottini
Montaggio Eugenio Alabiso
Musiche Daniele Patucchi
Costumi Ettora Marotti
Lobby card del film
Flano del film