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Il pallidone che non passa mai di moda

Creato il 22 gennaio 2013 da Naimasco78

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La mia amica C. sostiene che la nostra generazione sia cresciuta all’insegna della formazione dei cartoni animati giapponesi degli anni ’80, dove i protagonisti erano quasi tutti orfani alla ricerca dei veri e legittimi genitori. Candy Candy, Dolce Remi, Ciobin, Bum Bum il cagnolino e tanti altri ancora: giovani umani, animali o esseri non bene identificati ( Ciobin che cavolo era? Un uovo grigio con le zampe di Bugs Bunny?) tutti dall’infanzia gravemente segnata dall’abbandono familiare e tutti contrassegnati da un’esistenza fatta solo di sofferenze e delusioni per il fatto che la madre o il padre si siano palesati sempre e solo alla fine di una lunghissima serie composta da almeno un centinaio di puntate. Queste storie sono state ambientate nelle terre più disparate del globo terrestre ma nonostante tutto c’era una cosa che li rendeva simili: il momento in cui finalmente protagonista e genitore si abbracciano per la prima volta è sempre stato sottolineato da una straziante melodia di un qualche compositore ignoto di Osaka.

La mia teoria invece è figlia della generazione Hippie degli anni ’70: L’incantevole Creamy, Bia la strega, Lo specchio magico, Magica Emi e la tizia che faceva la fioraia della quale non ricordo il nome sono tutti cartoni animati di magia, con protagonisti maghi, streghe, trasformisti e altro ancora. Frutto di uno smodato utilizzo di droghe allucinogene pesantissime. La mia generazione quindi, si divide tra chi è rimasto traumatizzato dal genocidio di massa della prima tipologia di cartoni e chi invece si è estraniato dalla realtà sotto effetto di acidi convinto che i gatti siano extraterrestri sotto false sembianze e che gli specchietti da borsetta possano trasformarti in chiunque tu voglia.

Poi ci chiediamo come mai il cinquanta per cento dei laureati in psicologia nel mondo si trovi in Italia.

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Uno dei fenomeni letterari che poi è diventato cinematografico più interessante degli ultimi anni è sicuramente quello che vede coinvolta la celeberrima saga di Twilight.

Un copione che ha messo in moto una filiera editoriale tale da aver fatto vendere decine e decine di scrittori specializzati nel settore, non solo, ma che a loro volta hanno ceduto i diritti per farne delle serie tv e così via. La trama è il solito evergreen: la dolce fanciulla acqua e sapone che si innamora del torbido vampiro. Detta così non fa sicuramente pensare a qualcosa di nuovo, considerando che la letteratura nei decenni passati si è sprecata con pagine su pagine a carattere vampiresco, da Lovecraft al padre di tutti i succhiasangue: il classico Dracula di Bram Stoker.

Stephenie Meyer quindi non ha scritto nient’altro che un riciclo di vecchi miti della letteratura horror rivisto e corretto in chiave molto più adolescenziale e melensa, costruendo una saga su quattro volumi che parla di un emerito nulla, fondamentalmente, perché ciò che avviene poteva benissimo essere riassunto in un unico libro: si innamorano, si sposano, fanno un figlio, lei viene trasformata in vampiro, si sfidano in battaglia i vampiri buoni contro i vampiri cattivi (non ho capito come mai i vampiri cattivi sono italiani..), vincono i buoni, vissero felici e contenti ma soprattutto per sempre. Forse così è anche troppo semplificato, mi potrebbero contestare i fans, ma rimane il fatto che il terzo volume e il quarto contengono delle pagine talmente liquefatte che fondere i due libri riducendo la saga a tre volumi anziché quattro avrebbe sicuramente fatto risparmiare quintali e quintali di carta. Rimane il fatto che io i volumi li ho letti tutti e quattro e ho anche visto tutti e cinque i film perché la curiosità mi attanagliava a tal punto da voler indagare e entrare a fondo della questione per soddisfare il quesito che sin dalla lettura dalle prime pagine mi ha tormentata: perché ci piacciono i vampiri?

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Perché questi esseri praticamente morti, freddi, pallidi e pericolosissimi sono però protagonisti delle più romantiche storie d’amore di tutti i tempi? E soprattutto, perché la saga di Twilight, da letteratura adolescenziale è riuscita ad appassionare lettori di tutte le età e provenienza, maschi o femmine che fossero? C’è bisogno di romanticismo, in un mondo dove è il cinismo a farla da padrone?

I vampiri sono esseri di altri tempi, vissuti la maggior parte delle volte nel secolo precedente a quello dell’amata umana: sono quindi galanti, educati, gentili e soprattutto hanno modi e maniere appartenenti ad una cavalleria che le giovani del nuovo millennio conoscono solo per sentito dire dai loro nonni. Il loro stato, a metà tra la vita e la morte, li rende perennemente tormentati per una maledizione che li condanna a vivere ai margini della società, sempre al limite della legalità e vittime di un istinto che li porta a compiere crimini incommensurabili. Ma soprattutto, i vampiri sono essere anaffettivi, in quanto morti anche se la loro incapacità di provare sentimenti profondi crolla di fronte all’amore incondizionato per la fanciulla dalle guance rosate e dal profumo inebriante speciale a tal punto da smentire una teoria inconfutabile.

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In tutto questo, c’è forse qualcosa che non possa risultare incredibilmente irresistibile per l’intero genere femminile? No, specialmente il lato anaffettivo, che rappresenta la grande sfida di tutti i tempi: umanizzare il mostro.

Siamo sicuri di voler continuare a chiamarla letteratura “fantasy”, o meglio “urban fantasy”? No perché ho una notizia: di fantastico o fantasioso non c’è nulla. Il mondo è pieno di vampiri succhiasangue tristi, privi di sentimenti e vecchi dentro. Quindi ben venga la letteratura: sempre meglio leggere le loro storie sui libri che lavargli calzini e mutande, una volta la settimana.



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