Christian Frascella, Il panico quotidiano, Einaudi
La città di Torino, e il panico.
Se in effetti qualcuno volesse farsene un'idea chiara - di Torino e del panico - potrebbe leggere questo libro e avere tutte le risposte, se non tutte molte. Soprattutto sul panico. Perché la Torino di Il panico quotidiano non può prescindere dal panico stesso, ed è una Torino filtrata da quelle lenti, le lenti di una persona che inizia, senza preavviso alcuno, a sentire il panico.
Questo è il primo romanzo che io leggo di Frascella. Conosco di fama i suoi romanzi, ma lui non so chi sia, non ho nemmeno in mente che faccia abbia. Ora però, dopo aver letto, con limpidezza posso immaginare i suoi occhi durante il panico o per lo meno durante il racconto che ne fa e senza averlo mai visto, lo conosco da sempre. Il panico colpisce prima agli occhi. Poi al cuore. Colpisce, comunque, generalmente il corpo, anche se ha a che fare anche molto con la mente.
Il personaggio si chiama come lo scrittore. Quasi come a voler dire che il panico non ammette finzioni. Arriva quando deve arrivare, è lì da sempre ad aspettare. Questo è un po' il discorso. Anche se però c'è una cura. C'è sempre una cura.
Ed è così difficile parlarne, scriverne. Esistono pochissimi romanzi sul panico. O meglio moltissimi, ma nessuno che gli abbia dato il suo vero nome. Perché c'è come un senso di vergogna, per qualcosa che non è però colpa di chi la prova e merita, come tutto, di essere raccontata.
Il nitore lugubre del panico.
Eppure la storia di Christian, in questa Torino di fabbrica e periferia, fa di tutto e fa del suo meglio per andare oltre, e dire ciò che va detto sull'argomento. E mostrarlo come una cronaca, come un punto interrogativo. Non è facile, non è per niente facile. Poi, ogni persona ha i suoi motivi per soffrirne: quello di Christian arriva da lontano, lo scopriamo con lui, è molto doloroso.
Il panico infatti è un mostro, una sensazione che è impossibile avvertire se non la si è mai provata. Dicono che può capitare a tutti almeno una volta nella vita.
Ma il mostro qui descritto è di un tipo più ostinato.
Il personaggio-Frascella soffre di crisi prolungate e cattive. Che scoppiano improvvise e frequenti. E gli tocca, da un certo punto in poi, senza volerlo, mettere in discussione tutta la sua vita. Soccombere. Chiudersi in casa. Ingrassare. Stare solo. Cambiare nel corpo e nella mente, cambiare abitudini, tutte, e ripensare a tutto, tornare al passato e riconsiderare il futuro.
E poi fa tre cose che mi hanno colpita. Che sento vicine tanto quanto il panico (e la città):
1) Vede la natura (il piccolo orto di un anziano signore) come se fosse la prima volta.
2) Pensa a che cosa sia l'amore.
3) Si mette a correre.
E alla fine accade che.
No, questo è un romanzo. Questa è una storia, c'è una trama. Non posso proprio dire come va a finire. Non posso dire se questa cosa si cura in questo particolare caso. Di sicuro però se ne esce vivi. Come è successo ad esempio a me che da questa cosa sono riemersa, non ne soffro più.
Il personaggio non muore. Non muore, anche se ha conosciuto l'inferno. Di panico non si muore, ma se non si sta attenti se ne vive. E questo è il punto: vivere con il panico senza esserne vittime.
In un certo senso questo è un romanzo semplice. Una storia semplice. Una storia che ho vissuto anche io, tu, e chissà quanti là fuori. Una storia che ci sembra di sentire da tutta la vita. Eppure una storia nuova. NUOVA. La storia antica del superare i grossi ostacoli, dell'affrontare la vita, del vivere, del cercare la felicità e dell'avere coraggio.