E’ il fiume il paradigma della vita. Non solo perché è acqua vivificante. Soprattutto perché è un percorso tra la sorgente e l’inesorabile confluenza verso la morte di una foce. Quella del fiume è un’acqua matura, pacata, che conserva il ricordo dei ghiacci, dei monti, delle gronde, dei salti tra i sassi, ma si è acquietata nella pianura tra gli argini alti che ne contengono l’ozio e il furore. Sopra quest’acqua galleggia una vita ostinata come l’erba attaccata a una parete di roccia. E’ il mondo rivierasco che ritrova ai bordi della corrente un’insopprimibile necessità di riconoscimento, un luogo dell’anima. Come tutti i mondi estremi e ostili, il Po è selettivo, trattiene solo chi può capire il suo paesaggio, pur deturpato dall’affronto quotidiano dell’indifferenza. Risveglia un’antica devozione verso una forza che dà e che prende, che può entrare nelle case, invadere, sciogliere certezze, per poi ritirarsi, quasi a voler ricordare che quella terra è sua e può riappropriarsene quando vuole.
Le sue sponde segnano la fine delle strade e sono l’unico limite al dilagare dell’orizzonte. E così capita che l’acqua gonfia prema contro questa muraglia e scorra sospesa sopra i campi e i tetti nei giorni in cui i pesci nuotano più in alto degli uccelli. Il Po disegna questa pianura e la sconvolge, traccia un confine e unisce, distrugge e ricrea. Tutto riproduce il ciclo della vita nel corso del tempo, mentre gli uomini scivolano trasportati anch’essi da una sorgente alla foce. E dagli argini fanno da spettatori i pioppi cipressini e gli aguzzi campanili della Bassa. Danzano sopra i suoi mulinelli barche lavorate d’ascia e di pialla fatte coi legni delle sponde, silenziose di vela o rombanti di motori. Sul suo fondo di sabbia scivolano le reti e le nasse nelle quali non s’impiglia più lo storione e nelle magre estive regala spiaggioni che sono musei di creature mineralizzate: alberi secolari che hanno conosciuto Napoleone e forse Annibale, ossa di guerrieri di popoli ormai sconosciuti, scheletri di animali estinti. Il fiume restituisce sempre tutto e ci riconsegna anche il nostro passato reperto dopo reperto, con la calma delle stagioni.
Dai porti e dai moli s’odono parlate di dialetti fratelli. Raccontano di vecchi mestieri morti nei gorghi e restituiti nella memoria degli anziani che non si stancano di guardare quella corrente capace di trascinare goccia a goccia la loro vita. Ci saranno ancora albe e tramonti, ci saranno piene e magre, ci saranno pesci a guizzare tra i flutti. E vecchie barche con nomi di donne ad accarezzare il pelo dell’acqua. Il fiume è una dimensione del pensiero, è il logos che unisce e dà ordine alle cose, la spina dorsale di questa terra di sedimenti molli, docile all’aratro. L’acqua l’irrora con vene sotterranee a cui s’abbeverano il granoturco e l’erba medica, o vi galleggia sopra vaporando nei mesi brutti, quando la nebbia s’impossessa della pianura e ristagna nelle buie golene tra i pioppi del Canada. Allora questo mondo liquido si scontorna trasformandosi in un balenante enigma dove l’immaginazione è l’unico strumento per decifrare e il sogno la via obbligata per dar profondità alle visioni. E l’acqua che scorre paziente tra le pile dei ponti è il solo movimento nell’immobilità. Alla velocità di una bicicletta che scende la lieve pendenza della strada alzaia a pedale morto.
da “Dedalus” Quaderni di prosa contemporanea- Numero uno
Valerio Varesi nato a Torino da genitori parmensi e successivamente cresciuto nella città emiliana, dopo la laurea in Filosofia si occupa di giornalismo come corrispondente di vari quotidiani; attualmente lavora nella redazione bolognese di Repubblica.
Nel 1998 pubblica il suo primo romanzo, Ultime notizie di una fuga, in cui compare la figura del commissario Soneri, futuro protagonista di altri polizieschi scritti da Varesi, ai quali verrà ispirata la serie di sceneggiati televisivi “Nebbie e delitti“, in cui il personaggio del commissario buongustaio è stato interpretato dall’attore Luca Barbareschi.