Bei tempi quando i paparazzi assediavano i vip e Walter Chiari prendeva a pugni Tazio Secchiaroli. Era la Dolce Vita, la gente qualunque poteva ancora sognare di diventare famosa con la televisione e nel frattempo difendere la propria privacy. Dopotutto chi era interessato a te, tranne i parenti stretti e gli amici, se non eri famoso né tampoco ricco? Oggi invece la vita in Italia è per tanti alquanto amarognola e si è arrivati a un paradosso: oggi per il sistema informativo globale sono più interessanti i dati delle persone comuni che le foto rubate dei personaggi celebri. Questi ultimi oramai (dalle star globali come Rihanna, con quasi 32 milioni di follower su Twitter, all’attore di fiction di Raiuno) utilizzano i media sociali per raccontare il loro privato direttamente ai loro fan e in questa maniera finiscono per depotenziare l’invadenza e il potere di ricatto dei paparazzi. Cosa ce ne facciamo di un topless rubato dopo settimane di appostamenti se quell’attrice appena lo saprà deciderà di postare su Twitter una foto ancora più intrigante? Così come negli uffici stampa tradizionali regge oramai poco il concetto di “embargo”, anche nella gestione di un personaggio famoso i media sociali consentono di gestire in autonomia il flusso di informazioni e di diventare le vere agenzie di stampa in tempo reale della celebrità, la quale è ben consapevole che per alimentare il flusso di informazioni deve aggiornare i fan con costanza e su tutto, comprese le passeggiate e gli incontri privati. Immaginiamo una star a cena fuori con il suo nuovo partner. Lei nota che alcuni paparazzi aspettano avidi che escano per ritrarli assieme. E cosa fa la star? Semplicemente prende il suo smartphone e posta su Twitter le foto di loro due a cena. Di fronte a tale perfidia multimediale cosa può fare il tapino paparazzo, pur armato di supermacchina fotografica digitale? Potrà anche continuare ad aspettarli ma sarà stato bruciato in termini di rapidità e di autenticità delle foto e così il giorno dopo quotidiani e siti di gossip preferiranno la foto postata direttamente dalla star. A parte il caso dei paparazzi, un media relator oggi lavora molto di più sugli account sociali del personaggio pubblico (siano essi cantanti, attori o anche politici) che con i rapporti con i media tradizionali. La comunicazione lavora su un doppio canale: uno direttamente presidiato dal personaggio, che non può essere equiparato al vecchio ufficio stampa per una radicale differenza in merito ai tempi e alle tipologie di contenuti e di relazioni, l’altro frutto delle mediazioni con i media di massa e con i media sociali curati da terzi. In generale il personaggio pubblico finisce per costruire un’immagine pubblica e una privacy a uso e consumo del suo “essere social” che gli consente di depotenziare l’invasività di chi per mestiere prova a violarne la privacy. Eppure vi è una privacy più profonda e recondità, patrimonio di tutti, e che anche il personaggio pubblico vuole tutelare, violata quotidianamente da noi stessi. Si tratta della privacy ricostruita attraverso le interazioni del “corpo digitale”, il quale, come ho detto precedentemente, produce migliaia di informazioni al mese che finiscono per essere riversate in archivi digitali distribuiti. Per molti vip i social media rappresentano uno scudo per la loro riservatezza mentre per le persone comuni essi sono spesso solo uno strumento di sfruttamento del loro corpo digitale Tutte quelle informazioni su persone qualunque, che al paparazzo romano della Dolce Vita “nu gne potevano fregà de meno”, oggi diventano una nuova miniera di ricchezza, che cumulate valgono di più di un video erotico, oramai banale, di Paris Hilton o una vecchia foto di qualche avventuretta dell’avvocato Agnelli (il cui valore era definito da quanto l’ufficio stampa Fiat decideva di offrire per toglierle dalla circolazione). La banalità delle vite di milioni di individui, aggregata e analizzata da software come Hadoop e MapReduce, finisce per valere più dei singoli momenti esaltanti o imbarazzanti di tante celebrità. Ecco dunque spiegato il paradosso: le persone comuni, grazie alla possibilità di estrarre da esse petabyte di informazioni, anche estremamente private, producono collettivamente più valore monetizzabile di quanto ne possa produrre qualsiasi paparazzata di qualche celebrità e quindi violare la privacy di centinaia di milioni di persone è diventato più conveniente e utile (e in un certo senso facile) che violare la privacy di poche celebrità privilegiate. In questo scenario non è difficile immaginare un mondo in cui la riservatezza sarà esclusiva di una classe relativamente piccola di privilegiati globali, capaci, per influenza e ricchezza, di vivere in un anonimato digitale.
Bei tempi quando i paparazzi assediavano i vip e Walter Chiari prendeva a pugni Tazio Secchiaroli. Era la Dolce Vita, la gente qualunque poteva ancora sognare di diventare famosa con la televisione e nel frattempo difendere la propria privacy. Dopotutto chi era interessato a te, tranne i parenti stretti e gli amici, se non eri famoso né tampoco ricco? Oggi invece la vita in Italia è per tanti alquanto amarognola e si è arrivati a un paradosso: oggi per il sistema informativo globale sono più interessanti i dati delle persone comuni che le foto rubate dei personaggi celebri. Questi ultimi oramai (dalle star globali come Rihanna, con quasi 32 milioni di follower su Twitter, all’attore di fiction di Raiuno) utilizzano i media sociali per raccontare il loro privato direttamente ai loro fan e in questa maniera finiscono per depotenziare l’invadenza e il potere di ricatto dei paparazzi. Cosa ce ne facciamo di un topless rubato dopo settimane di appostamenti se quell’attrice appena lo saprà deciderà di postare su Twitter una foto ancora più intrigante? Così come negli uffici stampa tradizionali regge oramai poco il concetto di “embargo”, anche nella gestione di un personaggio famoso i media sociali consentono di gestire in autonomia il flusso di informazioni e di diventare le vere agenzie di stampa in tempo reale della celebrità, la quale è ben consapevole che per alimentare il flusso di informazioni deve aggiornare i fan con costanza e su tutto, comprese le passeggiate e gli incontri privati. Immaginiamo una star a cena fuori con il suo nuovo partner. Lei nota che alcuni paparazzi aspettano avidi che escano per ritrarli assieme. E cosa fa la star? Semplicemente prende il suo smartphone e posta su Twitter le foto di loro due a cena. Di fronte a tale perfidia multimediale cosa può fare il tapino paparazzo, pur armato di supermacchina fotografica digitale? Potrà anche continuare ad aspettarli ma sarà stato bruciato in termini di rapidità e di autenticità delle foto e così il giorno dopo quotidiani e siti di gossip preferiranno la foto postata direttamente dalla star. A parte il caso dei paparazzi, un media relator oggi lavora molto di più sugli account sociali del personaggio pubblico (siano essi cantanti, attori o anche politici) che con i rapporti con i media tradizionali. La comunicazione lavora su un doppio canale: uno direttamente presidiato dal personaggio, che non può essere equiparato al vecchio ufficio stampa per una radicale differenza in merito ai tempi e alle tipologie di contenuti e di relazioni, l’altro frutto delle mediazioni con i media di massa e con i media sociali curati da terzi. In generale il personaggio pubblico finisce per costruire un’immagine pubblica e una privacy a uso e consumo del suo “essere social” che gli consente di depotenziare l’invasività di chi per mestiere prova a violarne la privacy. Eppure vi è una privacy più profonda e recondità, patrimonio di tutti, e che anche il personaggio pubblico vuole tutelare, violata quotidianamente da noi stessi. Si tratta della privacy ricostruita attraverso le interazioni del “corpo digitale”, il quale, come ho detto precedentemente, produce migliaia di informazioni al mese che finiscono per essere riversate in archivi digitali distribuiti. Per molti vip i social media rappresentano uno scudo per la loro riservatezza mentre per le persone comuni essi sono spesso solo uno strumento di sfruttamento del loro corpo digitale Tutte quelle informazioni su persone qualunque, che al paparazzo romano della Dolce Vita “nu gne potevano fregà de meno”, oggi diventano una nuova miniera di ricchezza, che cumulate valgono di più di un video erotico, oramai banale, di Paris Hilton o una vecchia foto di qualche avventuretta dell’avvocato Agnelli (il cui valore era definito da quanto l’ufficio stampa Fiat decideva di offrire per toglierle dalla circolazione). La banalità delle vite di milioni di individui, aggregata e analizzata da software come Hadoop e MapReduce, finisce per valere più dei singoli momenti esaltanti o imbarazzanti di tante celebrità. Ecco dunque spiegato il paradosso: le persone comuni, grazie alla possibilità di estrarre da esse petabyte di informazioni, anche estremamente private, producono collettivamente più valore monetizzabile di quanto ne possa produrre qualsiasi paparazzata di qualche celebrità e quindi violare la privacy di centinaia di milioni di persone è diventato più conveniente e utile (e in un certo senso facile) che violare la privacy di poche celebrità privilegiate. In questo scenario non è difficile immaginare un mondo in cui la riservatezza sarà esclusiva di una classe relativamente piccola di privilegiati globali, capaci, per influenza e ricchezza, di vivere in un anonimato digitale.
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