Dal vociare babelico che mischia i dialetti, un treno parte con la lentezza dei dinosauri e comincia un lungo viaggio concentrato in 57 minuti in cui emergono già con prepotenza gli interessamenti di Pietro Marcello (giustificati, per il sottoscritto) verso quelle persone così fatiscenti da sembrare ruderi abbandonati, poiché è nel fascino delle case diroccate che si trovano impolverate nostalgie.
Perché aldilà dell’Italia che scorre rapida oltre i finestrini sporchi, ce n’è un’altra all’interno dei vagoni fatta di tanti piccoli Vincenzo Motta con una storia da sputare di fronte all’obiettivo. Sono i viaggiatori, o meglio i passeggeri. Viaggiando si espongono al rito del continuo passaggio interiore che a lungo andare li ha depersonalizzati rendendoli anime sperdute sui binari della vita.
Le ferrovie notturne immortalate da Marcello sono quanto di più profondo e malinconico possiate trovare (non so voi, ma io non ho mai visto le stazioni particolarmente allegre). Va detto che con il sorgere del sole l’incantesimo rattristante si attenua perdendo un po’ di magia, l’alba contemplativa prende il posto per una buona porzione di film della delirante saggezza di Arturo, e ciò allenta leggermente la presa su chi guarda, ma il mio pensiero spero che riesca a scorrere sugli snodi tentacolari per raggiungere questo vagabondo nello scompartimento in cui sta riposando e auguragli una notte serena.