Il patrimonio museale italiano tra ricchezza e povertà, passato e futuro

Creato il 05 dicembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Umberto Scopa. In tempi di crisi, quando si dibatte animatamente sui tagli ai costi dello stato, viene chiamato spesso in causa il patrimonio culturale del nostro paese, rimproverato di essere troppo esigente di risorse necessarie alla sua sopravvivenza. Personalmente ho trascorso dodici anni di lavoro nell’amministrazione dei musei comunali di arte antica della mia città e volevo portare all’attenzione degli interessati qualche mia riflessione generale maturata nel tempo.

Non posso evitare di premettere che il nostro paese forse più di ogni altro possiede una realtà museale d’arte diversificata: ci sono musei dello Stato, dei Comuni, delle Province, della Chiesa, di soggetti privati sotto forma di Fondazioni e ogni altra figura giuridica utile allo scopo. Ogni ente gestore di un museo ha specifiche problematiche gestionali e spesso soluzioni differenti da quelle di enti di diversa natura, e mi limito a considerare i musei d’arte. Se andate in un museo dello Stato dopo le ore 14 probabilmente lo trovate chiuso, se è un museo comunale dovrete consultare il sito del comune per orari e prezzi, se è un museo ebraico lo troverete chiuso il sabato, mentre gli altri saranno chiusi il lunedì, e in generale le disposizioni ministeriali relative ai musei così come divulgate dalla stampa nazionale sono generalmente riferite ai musei statali, non agli altri. C’è quindi una realtà pulviscolare che può creare dei disagi al pubblico, ma generati più da difetto di informazione che altro. Questo pluralismo rappresenta in realtà un aspetto della ricchezza di questo patrimonio, non un difetto, perché l’immensità del patrimonio dipende anche dalla pluralità di soggetti che nel tempo lo hanno arricchito o comunque se ne sono occupati. Il passato ci racconta un paese che mai, neppure di fronte a guerre mondiali o crisi economiche molto più gravi delle attuali, ha rinunciato a tramandare ai posteri la sua identità culturale che oggi abbiamo da loro ricevuto in affidamento. Su questa certezza si deve innestare il dibattito riguardo a come dobbiamo comportarci verso questo patrimonio, considerando da solo non sopravvive. Anzi, sfatiamo subito il mito immaginario di un museo d’arte in grado di finanziarsi con i proventi degli ingressi o coi proventi di un proprio bookshop. I costi gestionali conservativi, di personale, di sicurezza, sono esorbitanti e indipendentemente dalle formule di gestione più o meno dispendiose il bilancio sarà in perdita. Di fronte a questo congenito disavanzo dell’attività museale occorre decidere se vale la pena impiegare risorse provenenti da altre fonti per ripianarlo ed è proprio qui che si vede il valore che una comunità è disposta ad accordare o non accordare alla cultura per mantenerla quando da sola lei non ce la fa. Sarebbe bello convenire tutti sul fatto che la cultura ha bisogno del nostro sacrificio più che noi del suo. O se vogliamo –detto in maniera meno involuta – noi abbiamo bisogno di lei più di quanto non ci rendiamo spesso conto.

Come detto la decisione coinvolge non solo il presente, ma anche il rapporto fra generazioni presenti, passate e future. Ogni popolo di ogni epoca è sovrano naturalmente, anche di spezzare quella catena che dal passato ha permesso al patrimonio di arrivare fino a noi. Spezzare questa catena naturalmente è una decisione con effetti irreversibili anche per le generazioni future che se non erediteranno niente da noi non avranno nulla più da decidere in merito e saranno tagliati fuori dalla catena.

Non mi sembra che questo pensiero sia sentito come un problema prioritario nella considerazione generale e se così deve’essere, pazienza. Mi piace però annotare che già l’illuminismo aveva partorito, tra le altre cose, un’idea tanto grandiosa quanto dimenticata ai nostri giorni: l’idea che un popolo non ha diritto di prendere decisioni con effetti talmente irreversibili da impedire alle generazioni future di cambiare rotta. La nostra libertà incontra un limite non solo nella conservazione di un’uguale libertà degli altri intesi come contemporanei, ma anche degli altri intesi come generazioni future. Sarebbe bello essere tutti davvero d’accordo su questo. Pensate all’applicazione di questo principio in altri settori come quello della tutela ambientale.

Tornando al patrimonio culturale e ai suoi problemi c’è dunque in prima linea quello del deficit economico, che è nel DNA del museo. Non si tratta però di un male incurabile per il quale la scienza deve ancora trovare una soluzione. La via da percorrere è sotto gli occhi di tutti. Laddove lo Stato non riesce con la fiscalità a sostenere la cultura, o non vuole, occorre seguire l’esempio già adottato da molti paesi che hanno saputo inglobare l’attività di un museo in isole economiche autosufficienti, dove attività commerciali tengono a galla l’intera isola, avvalendosi del richiamo di pubblico garantito dal patrimonio culturale. Le attività commerciali sono separate dal punto di vista ambientale e gestionale dall’attività espositiva e conservativa delle opere museali, ma producono un reddito sufficiente a ripianare il deficit congenito all’attività museale. Molti importanti musei americani funzionano così. Il modello quindi è collaudato e non è particolarmente rivoluzionario. Certamente se il pensiero corre alle imprese che nel nostro paese lottano quotidianamente contro il rischio di chiusura sarebbe un assurdo pretendere che finanzino anche la cultura per puro spirito di generosità. Ma la realtà imprenditoriale è varia, importanti concentrazioni private di ricchezza non mancano e sta alla sensibilità di chi le possiede cogliere l’occasione di legare la loro effimera natura a valori più duraturi nel tempo.

Certo la crisi è una parola che fa paura, ma spesso è usata per spaventare ancora di più di quello che dovrebbe. Ci sarà sempre qualcuno che ci chiederà se preferiamo che chiuda un asilo pubblico o un museo pubblico (tenendo però fuori dalla nostra scelta il taglio di altre spese pubbliche che non si vuole sottoposte al nostro parere) e quando non ci sarà più il museo ci chiederà se preferiamo che chiuda un ospedale o un asilo e chiuderemo l’asilo. L’erosione dei servizi di cui abbiamo bisogno sembra inarrestabile e quando rimarranno solo le spese militari di cui non abbiamo bisogno a succhiare i nostri soldi, essendo le guerre più resistenti di ogni crisi economica, forse capiremo che qualche scelta è stata sbagliata in precedenza e se le conseguenze saranno irreversibili lo sapranno solo i posteri.

 Artwork, Museo degli Uffizi, Filippo Lippi Madonna and Child with Angel, 95 x 64 cm

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