Dunque il patto prende le mosse dalla constatazione, peraltro assai discutibile, che siano i debiti pubblici a rendere inaffidabili i titoli di stato dei paesi più deboli da questo punto di vista, come appunto l’Italia, provocando un effetto valanga. Certo ci sarebbe da spiegare perché questo non accada con il Giappone o con la California che hanno rapporti debito-pil più che doppi rispetto ai nostri, nè con gli Usa, anch’essi messi malissimo, tanto per citare qualche esempio. Ma è inutile chiede troppo, diamo per buono l’assunto.
Dunque si tratta di ridurre il debito, annullando il deficit dello stato, sacrificando diritti, tutele, pensioni e salari di milioni di persone, in maniera da trovare i soldi per diminuire man mano il debito pubblico. Naturalmente, come la stessa Moody’s fa osservare, non sembra proprio una strada ideale perché la stretta si rivela recessiva e rischia di essere peggiore del male. Ma glissiamo anche su questo e facciamoci star bene il presupposto del patto di stabilità.
A questo punto però c”è un incomprensibile salto logico e fattuale: i Paesi che si voteranno alla virtù di bilancio, inserendola persino in Costituzione, che non sgarreranno se non dello 0, 5%, potranno in compenso dei loro sacrifici, godere dell’assistenza finanziaria del fondo salva stati permanente che dovrebbe nascere nel luglio prossimo ed essere strettamente legato al fiscal compact. Ora però qualcosa non funziona: se è la politica del debito pubblico a causare gli assalti dei mercati, la ritrovata virtù non dovrebbe di per sé restituire fiducia nei titoli di Stato? Che senso ha collegare tutto questo a un fondo salva stati cui possono chiedere appoggio solo quei Paesi che hanno aderito alle draconiane politiche di riduzione del debito e che quindi, secondo i presupposti, non dovrebbero averne bisogno in futuro? Delle due l’una o la diagnosi è sbagliata oppure lo è la cura.
Oppure sono sbagliate tutte e due e a Bruxelles, non si gioca che una partita di potere tra il centro forte dell’Europa nella sua versione merkeliana e la periferia più debole. Più debole certo, ma comunque l’eldorado delle esportazione tedesche ad alto valore aggiunto e costretta a una moneta forte e a politiche antinflattive che ne minano la competitività, quindi la possibilità di insidiare il primato industriale tedesco. Ecco, così la contraddizione si scioglie e lascia ampio spazio all’internazionalismo neoliberista rappresentato dai governi di destra o da quelli più o meno commissariati. In questo modo tutto torna: un fondo salva stati di cui ci sarà necessità a causa della recessione che colpirà la periferia obbediente e che in ogni caso è un succedaneo patetico di un’unità monetaria con una vera banca centrale , la compressione di diritti e tutele, la svendita dei beni comuni, del patrimonio dello Stato e della sua partecipazione al mondo produttivo che sono l’ossessione liberista peraltro partecipata dai singoli governi ideologici piazzati ad hoc. Paradossalmente, grazie a questa intima adesione, essi si trovano più a loro agio a fare gli interessi della Germania piuttosto che quella dei loro Paesi.
Invece del futuro ci troviamo di fronte a un ritorno al passato, a un’imitazione, trent’anni dopo, della Thatcher, tanto per non farci mancare il grottesco. Un’Europa ancora più divisa da una posticcia unità economica imposta e messa lì ad accumulare rancori reciproci. Il peggio che si potesse immaginare.